IV Domenica di
Quaresima - Anno B – 15 marzo 2015.
Rito Romano
2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10;
Gv 3,14-21
Rito Ambrosiano – IV
Domenica di Quaresima – “del Cieco”
s
33, 7-11a; Sal 35; 1Tes 4,1b-12; Gv 9,1-38b
1) Nicodemo, un
cercatore della vita.
Nella quarta domenica
di quaresima il Vangelo di Giovanni ci offre un piccolo brano del
discorso1
di Gesù dopo l’incontro con Nicodemo2.
Quindi – anche se brevemente - è utile spiegare cosa accadde la
notte in cui questo Capo dei Giudei si recò dal Messia.
Quest’uomo, pauroso
perché va da Cristo di notte, ma sufficientemente coraggio da
andarci comunque, è l’uomo che ha l’intelligenza e l’apertura
del cuore tali da non chiudersi di fronte alla verità.
Questo fariseo e gli
altri capi avevano chiesto dei segni e li avevano visti. Adesso sa
che può fidarsi di Gesù: “Sappiamo che sei venuto da Dio come
maestro”. E Gesù sa che è aperto ad accogliere la Verità, alla
quale il suo cuore aspira ma a cui l’uomo da solo non può
arrivare.
Nicodemo, come molti
altri, aveva visto dei segni, ma non gli bastavano. Voleva vedere il
Regno di Dio. E Gesù gli dice: “Occorre nascere dall’alto”.
Probabilmente, questo
fariseo voleva migliorare la vita e Cristo gli rispose che occorreva
che nascesse a nuova vita. Nicodemo capì che Gesù non parlava
semplicemente di una rinascita simbolica, morale, ma di una “vera”
rinascita e fece la domanda più difficile: “Come può avvenire
questa nuova nascita? Può forse un uomo adulto rientrare nel grembo
di sua madre?”. Insomma, come è possibile rinascere davvero? Gesù
rispose: “In verità, in verità ti dico: Se uno non è nato
dall'acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Al di
là di ogni interpretazione data da esegeti, esperti di Bibbia
antichi e moderni, io credo che Nicodemo non capì un gran che, ma
comprese che Gesù gli diceva: “Vieni e vedi”, “seguimi e
vedrai”. E seguì Cristo fedelmente tant'è che il Vangelo parla di
lui come protagonista di altre due notti:
1- “Uno di loro,
Nicodemo, quello che era andato precedentemente da lui, dice loro:
‘Giudica forse la nostra legge qualcuno senza che prima lo si
ascolti, in modo che si sappia che cosa fa?’. Gli risposero: ‘Sei
forse anche tu della Galilea? Studia a fondo e vedrai che il profeta
non sorge dalla Galilea’". (Gv 7, 50-52)
2- “...Venne anche
Nicodemo, il quale già prima era andato da lui di notte, portando
una mistura di mirra e di aloe di circa 100 libbre. Presero dunque il
corpo di Gesù e lo avvolsero con bende assieme agli aromi, secondo
l'usanza di seppellire dei giudei”. (Gv 19, 39-40).
La
prima cosa da fare per avere una vita vera e duratura non è lo
studio per cambiare e fare meglio le proprie azioni, non è l’analisi
psicologica, non è un programma spirituale, non è qualcosa che
dobbiamo fare noi, ma è ricevere il dono dello Spirito, quindi la
prima cosa che dobbiamo fare noi è la preghiera, cioè il chiedere
questo, è il chiedere che avvenga questa conversione “spirituale”
in noi, anche se non comprendiamo cosa vuol dire questa conversione,
che Cristo indica come nascita alla vita nuova, quindi eterna
(L’espressione “vita eterna”, infatti, designa il dono
divino concesso all’umanità: la comunione con Dio in questo mondo
e la sua pienezza in quello futuro).
La vita eterna ci è
stata aperta dalla morte e risurrezione di Cristo e la fede è la via
per raggiungerla. E’ quanto emerge dalle parole rivolte da Gesù a
Nicodemo e riportate dall’evangelista Giovanni: «E come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il
Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita
eterna» (Gv 3,14-15)3.
2) La Croce
della Vita e della Luce.
Oggi
come allora, San Giovanni evangelista ci ricorda che il solo “segno”
è Gesù innalzato sulla croce: Gesù morto e risorto è il segno
assolutamente sufficiente. In Lui possiamo comprendere la verità
della vita e ottenere la salvezza. E’ questo l’annuncio centrale
della Chiesa, che resta immutato nei secoli. La fede cristiana
pertanto non è ideologia, ma incontro personale con Cristo
crocifisso e risorto.
Quindi
accettando la Croce, quella di ogni giorno contro la quale lottiamo
credendo di far cosa giusta, saggia e ragionevole, diciamo di sì
all'irruzione dello Spirito che ci fa nascere a nuova vita. “La
Croce stravolge il piatto e incolore incedere del mondo incatenato
alla carne. La Croce strappa dalle abitudini radicate, impermeabili
alla novità sconvolgente di Dio. La Croce innalza sino al cuore di
Dio, al suo amore. La Croce catapulta le nostre esistenze alla destra
di Dio”. (Benedetto XVI)
La
Croce irradia luce, perché parla d’amore e l’amore parla
di risurrezione e genera santi. Il mosaico della Croce che si trova
nell’abside della Chiesa di San Clemente a Roma, lo mostra bene.
Cristo è sulla croce nera, legno morto, che ha inscritto su di se
anche dodici colombe, gli apostoli. Dal legno nero, sputano molti
rami verdi che hanno come fiori i santi, cioè le persone che hanno
dato la vita per Cristo ed hanno ricevuto la Vita da Cristo. Con Lui
ci sono di esempio e mostrano che colui o colei che ama diventa per
gli altri presenza di luce.
Vivere la croce è
dare alla luce. Come non pensare al Signore crocifisso che mentre
tutto è compiuto (Gv 19,30) inonda d’amore chi è sotto il
patibolo donando a una madre il figlio e al figlio una madre, per
sempre? Morente sulla Croce, Gesù affidò Giovanni alla sua mamma,
dicendo: “Donna, ecco tuo figlio” (cf. Gv 19, 26). Se Egli non la
chiamò col dolce nome di Madre, fu perché era arrivata per lei
l’ora - come arriva per le anime che progrediscono nell’amore –
di affidarle un’altra maternità. La maternità spirituale sulle
anime; quella maternità che il Salvatore aveva promesso di concedere
a tutti quelli che avessero fatto la sua divina volontà: “Chiunque
fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me
fratello, sorella e madre” (cf. Mt 12, 50). Elevò così, in certo
modo, questa maternità spirituale di cui stiamo parlando, alla
stessa altezza dell’altissimo privilegio della maternità divina.
Di questa maternità
spirituale sono particolare esempio le Vergini consacrate nel mondo.
In effetti, l’impegno
verginale è destinato, secondo il disegno divino, a suscitare una
fecondità spirituale. Nella Vergine Maria, questa verità appare
nella maniera più manifesta, per il fatto che la Vergine diventa
Madre di Dio, e che questa maternità si prolungherà con una
maternità universale nell'ordine della grazia. Nelle Vergini che
seguono la via aperta da Maria, l’amore verginale votato a Cristo è
fonte di maternità spirituale.
La vergine che dona
tutto il suo cuore a Cristo rinuncia a uno sposo umano per prendere
direttamente il Signore come sposo. Nel matrimonio vi è l’attuazione
delle nozze di Cristo e della Chiesa, come dice san Paolo (Ef 5,28).
Nella verginità questa attuazione è più
totale, perché solo Cristo diventa lo Sposo, Cristo raggiunge così
la sua più grande profondità. La qualità di sposa di Cristo dà
alla personalità della donna consacrata un notevole sviluppo
affettivo. Essa mostra l’aspetto positivo della verginità, perché
è completa ed esclusiva appartenenza a Cristo. Con la consacrazione
ciascuna di loro è come se avesse detto: “Tutto
sei per me. Io sono tutto per te”. Queste donne testimoniano che
siamo stati creati per una libertà che ama dire sì. Ogni nostro
amore rimanda a un amore originario. L’amore è un dono che ci fa
assomigliare a Dio. L’amata diventa l’Amante e dà (al)la luce.
Nel dire sì a Cristo come sposo, la
Vergine Consacrata ha testimonia che Cristo “è per lei Tutto e
tutte le cose” e che “il suo cuore non si soddisfa con meno di
Dio” (S. Giovanni della Croce). Ma così l’anima innamorata si
trova ad assumere la forma dello Sposo che, per nostro amore, si
lasciò “vendere come schiavo di tutto il mondo” (S. Teresa
d'Avila). Essa si protende allora verso i suoi fratelli bisognosi di
salvezza. L'intimità con Dio che non genera missionarietà è
narcisismo e illusione spirituale. La missionarietà che non nasce
dall’intimità e non la approfondisce è sterile dispersione.
Intimità e missionarietà assieme sono fonte di immensa fecondità
spirituale.
1
“E
come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia
la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il
Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma
abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel
mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per
mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è
già stato condannato, perché non ha creduto nel nome
dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è
venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la
luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il
male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non
vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce,
perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in
Dio». (Gv
3,14-21)
2
“C
‘era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, un capo dei giudei.
Questi venne da lui di notte e gli disse: "Rabbì, noi sappiamo
che sei venuto da Dio come maestro. Nessuno infatti può fare questi
segni che tu fai se Dio non è con lui". Rispose Gesù: "In
verità, in verità ti dico: Se uno non è nato dall'alto, non può
vedere il regno di Dio". Gli dice Nicodemo: "Come
può un uomo nascere se è vecchio? Può forse entrare una
seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?". Gesù
rispose: "In verità, in verità ti dico: Se uno non è nato
dall'acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Il
nato dalla carne è carne e il nato dallo Spirito è spirito. Non
meravigliarti che ti abbia detto: Voi dovete nascere dall'alto. Il
vento soffia dove vuole e senti il suo sibilo, ma non sai donde
viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito".
"Come possono avvenire questi fatti?" - riprese Nicodemo.
Rispose Gesù: "Tu sei maestro in Israele e non conosci queste
cose? In verità, in verità ti dico: Noi parliamo di ciò che
sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto e voi non accogliete
la nostra testimonianza. Se non credete, quando vi ho detto cose
terrene, come crederete qualora vi dica cose celesti? E nessuno è
salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio
dell'uomo, che è in cielo.” (Gv 3, 1- 13)
3
Qui vi è l’esplicito
riferimento all’episodio narrato nel libro dei Numeri (21,1-9),
che mette in risalto la forza salvifica della fede nella parola
divina. Durante l’esodo, il popolo ebreo si era ribellato a Mosè
e a Dio, e venne punito con la piaga dei serpenti velenosi. Mosè
chiese perdono, e Dio, accettando il pentimento degli Israeliti, gli
ordina: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque dopo
esser stato morso lo guarderà, resterà in vita». E così avvenne.
Lettura Patristica
Agostino,
Comment. in Ioann., 52,
11
"E
io, quando sarò levato in alto da terra, tutto attirerò a me"
(Jn
12,32).
Cos’è
questo «tutto», se non tutto ciò da cui il diavolo è stato
cacciato fuori? Egli non ha detto: tutti, ma «tutto», perché la
fede non è di tutti (2Th
3,2).
Questa parola non si riferisce quindi alla totalità degli uomini, ma
alla integrità della creatura: spirito, anima e corpo; cioè, quel
che ci fa intendere, quel che ci fa vivere, quel che ci fa visibili e
sensibili. In altre parole, colui che ha detto: "non
un capello del vostro capo andrà perduto"
(Lc
21,18),
tutto attira a sé.
Se
invece vogliamo interpretare «tutto» come riferito agli stessi
uomini, allora si deve intendere che con quella parola si indicano
tutti i predestinati alla salvezza. In questo senso il Signore dice
che di tutti questi nessuno perirà, come prima aveva detto parlando
delle sue pecore. Oppure egli ha voluto intendere tutte le specie di
uomini, di tutte le lingue, di tutte le età, senza distinzione di
grado o di onori, di ingegno o di talento, di professione o di arte,
al di là di qualsiasi altra distinzione che, al di fuori del
peccato, possa esser fatta tra gli uomini, dai più illustri ai più
umili, dal re sino al mendico: «Tutto» - egli dice - «attirerò a
me», in quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.
Agostino,
Sermo Guelf., 3, 1-2
La morte del Signore
è la nostra somma gloria
Per
conseguenza, ebbe con noi con una vicendevole partecipazione una
meravigliosa relazione; era nostro, quello per cui è morto, suo sarà
quello, per cui possiamo vivere. In effetti, egli diede la vita, che
assunse da noi e per la quale morì, e dette la stessa vita, poiché
egli era il Creatore; ma prese quella vita per la quale con Lui e per
Lui saremo vittoriosi, non per opera nostra. E per questo, per quanto
riguarda la vita nostra, per la quale siamo uomini, morì non per sé
ma per noi; infatti, la natura di Lui, per la quale è Dio, non può
morire completamente. Ma per quanto riguarda la natura umana di lui,
che egli, come Dio, creò, è morto anche in essa: poiché anche la
carne egli creò nella quale egli è morto.
Non
soltanto, quindi, non dobbiamo arrossire della morte del Signore,
nostro Dio, ma ci dobbiamo grandemente confidare in essa e aver
motivo di somma gloria: accettando infatti, la morte da noi, che egli
trovò in noi, sposò nel modo più fedele la vita che ci avrebbe
dato, che noi non possiamo avere da noi. In effetti, colui che ci amò
tanto, che ciò che meritammo col peccato, egli, senza peccato, patì
per noi peccatori, come colui che giustifica non ci darà ciò con
giustizia? Come non ci restituirà, i premi dei santi, colui che
promette con verità, colui che, innocente, sopportò la pena dei
colpevoli?
Confessiamo,
dunque, fratelli, coraggiosamente, ed anche professiamo: Cristo è
stato crocifisso per noi: non vi spaventate ma siate nella gioia;
proclamiamolo non con vergogna ma con gioia. Osservò così il Cristo
l’apostolo Paolo e raccomandò tale titolo di gloria.
Ed
egli, avendo molti titoli, grandi e divini, che egli ricordasse del
Cristo, non disse di gloriarsi delle meraviglie del Cristo, poiché,
essendo anche uomo, come siamo noi, ebbe il dominio nel mondo; ma
disse: Per
me di non altro voglio gloriarmi, che della croce del Nostro Signore
Gesù Cristo
(Ga
6,14).
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