venerdì 27 marzo 2015

Un festa di passione, per entrare nella Gerusalemme della Carità di Dio. Per passione dell’umanità.

La grande Settimana1
Rito Romano - Domenica delle Palme- Anno B – 29 marzo 2015.
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

La Settimana Autentica
Rito Ambrosiano – Domenica delle Palme nella Passione del Signore.
Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11.

1) Le Palme: dal trionfo umano a quello divino.
La Pasqua si avvicina. Inizia la Settimana Santa, che si conclude non con il venerdì di morte né con il sabato del silenzio tombale di Dio, ma sboccia nella domenica di Risurrezione.
Settimana drammatica, che inizia con un trionfo di gente festante, prosegue in una tensione tra odio e amore, e arriva al suo culmine in quella manifestazione di misericordia che è la Pasqua.
La Celebrazione eucaristica di oggi ha due parti.
La prima riguarda le Palme, cioè il trionfo di Gesù che viene solennemente riconosciuto come il Cristo. Il popolo in Gerusalemme accoglie Gesù cantando ed agitando rami di ulivo, foglie di palma, fronde tagliate dai campi.
Gesù entra in modo trionfale nella Città santa. Vi entra per celebrare la Pasqua nuova, che libera l’uomo dalla schiavitù del peccato e della morte mediante l’offerta della Sua vita.
Gesù entra trionfante in Gerusalemme, ma soprattutto entra nella gioia di ogni cuore fedele.
L’assurdo –umanamente parlando - è che, per entrare da Re in Gerusalemme, Lui ha chiesto in prestito un animale da cavalcare, dicendo ai suoi discepoli di andare dal padrone di un’asina, perché “il Signore ne ha bisogno”.
Può il Signore Iddio aver bisogno? Dio è tutto ed ha fatto tutto, come può aver bisogno di qualcosa. Eppure nel Messia2, Dio si fa mendicante del nostro amore per amore. E oggi ha “bisogno” di un asino per entrare “da Re” in Gerusalemme. “Come ebbe bisogno di un’asina e del suo puledro, in ogni momento Gesù ha bisogno di tutto quello che gli posso dare, perché il mio povero cuore si introduca nella Gerusalemme celeste della sua Carità” (don Primo Mazzolari, Domenica delle Palme, 1958).
Per comprendere quest’“ora” evangelica che oggi celebriamo, è utile dare una spiegazione sintetica del contesto storico in cui quel momento si innestava. Il popolo di Gerusalemme è in festa perché entra in città Colui che era aspettato da secoli per essere liberatore e guida verso la pienezza di vita. Questo popolo rende oggi omaggio alla Verità dell’Amore, che libera.
Nell’attesa, il popolo ebraico aveva sperimentato vicende senza numero: progressi, cadute, vittorie, eventi politici, profezie. Ma il pensiero costante del popolo eletto, specialmente dopo l’esilio da Gerusalemme, era stato questo punto proiettato nel futuro: l’avvento di Colui che lo avrebbe salvato.
Allora, ed oggi ancora, nell’ingresso solenne di Cristo nella Città Santa questo avvento diventa realtà. E’ importante notare che fu il popolo semplice e i puri di cuore a riconoscerLo. Per primi, infatti furono i ragazzi, i bambini, il cui cuore è puro e semplice, a gridare osanna al Figlio di Davide. Fu il popolino che proclamò la risposta a un interrogativo sempre attuale: “Chi sarà mai questo Gesù di Nazareth, che aveva predicato per tre anni lungo le vie della Galilea e della Giudea?” Nel luminoso giorno delle Palme il semplice popolo ha il grande intuito della realtà: Gesù è il Cristo; è Lui il centro della storia. Lui è l’Atteso da secoli, il vero Re, Colui che dona la felicità.
2) Passione di Cristo, travolto dall’amore per noi.
La seconda parte della celebrazione liturgica di oggi è la Passione di un Uomo-Dio appassionato.
La celebrazione di questa Pasqua è resa “possibile” dall’accettazione della Passione, che San Marco3 ci racconta mettendo in primo piano i fatti e le situazioni, e non le parole.
Man mano che da Betania, dove la Maddalena Gli ha unto i piedi (ritorneremo fra poco su questo episodio) e ci si inoltra nella passione, vediamo Gesù entrare in un silenzio sempre più profondo, fino a tacere del tutto. “Tu lo dici” è l’unica parola che egli risponde alle domande di Pilato. Da allora non dirà più niente, fino alla drammatica invocazione: “Eloì, Eloì, lamà sabactanì (Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato)”?” (Mc 15,34) e al seguente grande grido col quale spirò (Mc 15,36). Si compì così, fino all'estremo limite, l’abbandono di Gesù, che sembrava abbandonato anche dal Padre.
Si può dire che San Marco ci offre due elementi per leggere il modo in cui Gesù vive questo abbandono.
Il primo è la preghiera che Gesù rivolge al Padre sul Getsemani: “Abba, Padre! ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Tuttavia, non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu” (Mc 14,36). Gesù vive questa sofferta adesione alla volontà del Padre, come ripetendo ad ogni momento: “Non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”. E se all’inizio del suo stare in preghiere sul monte degli ulivi, ci viene descritto un Gesù angosciato e impaurito, alla fine - dopo la preghiera - ci viene descritto un Gesù che ha ritrovato la serenità e la fermezza: “Alzatevi, andiamo, colui che mi tradisce è vicino”. Il Padre non ha sottratto Gesù alla Croce, ma lo ha aiutato ad attraversarla.
Il secondo elemento è l’invocazione di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché...?”. Come è noto, si tratta dell’inizio di un Salmo4 21 (22), preghiera che esprime l'intensa sofferenza di un giusto perseguitato, ma anche la sua incrollabile fiducia in Dio.
Anche noi, come le donne, siamo invitati a “guardare” (Mc 15,40): contempliamo la sofferenza e la morte del Signore per scoprire in essa l’inattesa rivelazione del Figlio di Dio che rimane tenacemente, ostinatamente fedele alla “follia” dell’amore e che va sulla Croce per ciascuno di noi, per l’umanità intera.

3) Una vita donata, non sprecata.
Anche sulla Croce, Gesù è oltraggiato e pare che sia negata la logica di donazione che ha guidato tutta la sua vita: donazione che qui viene capovolta, incompresa e ritorta contro di Lui: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso”. “Il Messia scenda dalla Croce e crederemo”. Di fronte a Gesù - se guardiamo questa scena dal punto di vista dei presenti - si scorgono due tipi di fede, e Gesù in Croce ne è lo spartiacque.
Da una parte, la fede di chi pretende che il Messia abbandoni la Croce e compia miracoli. Mi riferisco ai passanti, agli scribi e ai sacerdoti presenti sul Calvario per vedere come andava a fine.
Dall’altra, la fede di chi, come il centurione, coglie la divinità di Gesù proprio nella Croce: “Vedendolo morire in quel modo disse: costui è veramente Figlio di Dio”. È sulla Croce che si conosce veramente chi è Gesù e in che senso Lui è Messia e Figlio. Possiamo dire che il centurione pagano è un esempio di vero credente.
Ma c’è pure un tipo di fede spinta dall’amore. E’ la fede di una figlia sconosciuta di Israele che ha creduto in Gesù e lo onorò amorosamente e santamente. Il gesto di pietà di questa donna avvenne prima della Festa delle Palme, a Betania, dove troviamo Gesù a casa di Simone il lebbroso, qui, “..mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato, di nardo genuino, di gran valore: ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo....”. Questo gesto, uno di quei segni d’amore di cui solo le donne sono capaci, provocò la reazione dei commensali, che lo giudicarono uno spreco.
Se si considera questo gesto dal punto di vista del puro e semplice buon senso umano sicuramente fu uno spreco, un eccesso. Ma con l’immolazione della Croce siamo messi davanti ad un altro eccesso, e questa volta da parte di Dio, che nel Figlio Gesù, compie un gesto d’amore estremo, spezzando il suo corpo e versando, non olio profumato, ma il suo stesso sangue.
Il Maestro ha accolto, gradito l’omaggio di quella donna, e lo ha indicato come gesto profetico: “Ella ha compiuto verso di me un’opera buona;... Ella ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il Vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che lei ha fatto”. Un’opera buona.
In quell’anonima donna sono riassunte tutte le donne, sono loro l’unico conforto nei giorni della passione, intrepide nell’amore, come la leggendaria Veronica, fedeli nella vicinanza, come la tradizione le presenta lungo il cammino verso il Calvario, forti ai piedi della croce, assieme alla Madre: “...c’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses, e Salomè, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme...”.
Una presenza, questa delle donne, che è anche un segno, una vocazione, una missione.
A questa vocazione sono chiamate in modo particolare le vergine consacrate, che donando totalmente la vita a Cristo la mettono a sua disposizione per la Sua appassionata opera di salvezza.
Queste donne sono segno che la grande commozione che invade il cuore, alla lettura della Passione di Gesù, non può restare solamente emozione, ma una mozione di adesione a Cristo. Aderendo a Lui e testimoniandoLo, mostrano che Dio è un “movimento di dono di sé”.
Quando la Vergine Maria ricevette l’annuncio dal Figlio in Croce che sarebbe stata la madre di Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio”, fu commossa almeno quanto lo fu il giorno dell’Annunciazione dell’Angelo. Le lacrime di gioia del primo annuncio e le lacrime di dolore del secondo annuncio non fecero ripiegare su se stessa la Vergine Madre. Rinnovò il suo “fiat”, il suo sì, e la Parola dell’Amore prese di nuovo dimora in lei e condivise la passione di Cristo per il mondo.
Come la Madonna stette sotto la Croce e divenne Madre dell’umanità, le Vergini Consacrate nel mondo stanno sotto la Croce in preghiera, scelgono uno Sposo crocifisso per vivere con Lui il dono di se stesse al mondo. La Verginità è lasciarsi afferrare completamente da Cristo, perché “l’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza nuova, che non delude” (Papa Francesco, Lumen fidei, 53).

1 Con la Domenica delle Palme inizia la Grande Settimana, che i Padri della Chiesa chiamavano al modo ebraico la Settimana delle Settimane che significa la Settimana per eccellenza, il cui punto focale sarà la notte di veglia che vivremo sabato prossimo, quando risuonerà l’ “alleluia pasquale”. Nel rito Ambrosiano questa settima è chiamata Settimana Autentica.
Una settimana in cui facciamo memoria di quella Prima Settimana di oltre due mila anni or sono che ha fatto del tempo un'eternità temporale e dell'eternità un tempo senza fine. Noi riviviamo i giorni della passione, della morte e della risurrezione del Signore Gesù ché si fa maestro e compagno di viaggio per ciascuno di noi.

2 E’ il Messia (= Cristo), annunciato, atteso da secoli, ma cavalca un asinello e non un cavallo da battaglia come lo attendevano i Giudei. Messia mansueto che porta la pace, che illumina con la Sua presenza quanti praticano la giustizia e solleva i poveri dalla miseria. In questo giorno di festa di circa duemila anni fa, gli fu attribuito il nome che è diventato suo: Cristo, che vuoi dire Messia, l’Unto, il Consacrato da Dio; e che è poi il nome nostro, poiché ci chiamiamo cristiani.


3 Quest’anno (2015) si legge il racconto della passione del Signore secondo l’evangelista Marco. Per questo Evangelista sono queste le cose importanti ed eloquenti, sono i fatti e non le parole.

4 Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido. Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me» (Sal 21(22), 2-3).

Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Consenso Evangelico, 308

Dice Matteo: Sopra la sua testa collocarono in iscritto il motivo: Costui è Gesù, re dei Giudei (Mt 27,27). Marco prima di darci questa notizia scrive: Era l'ora terza allorché lo crocifissero (Mc 15,25) ; e quanto al motivo della crocifissione, egli ne parla dopo che ha parlato delle vesti che i soldati si divisero fra loro. E un problema che bisogna trattare con la massima attenzione per non cadere in gravi errori. Ci sono infatti degli eruditi che collocano la crocifissione del Signore all'ora terza, ritenendo poi che all'ora sesta scese quel buio che perduro fino all'ora nona, con la conseguenza che quando scese il buio il Signore era in croce già da tre ore. E la cosa potrebbe andare benissimo, se non ci fosse Giovanni a dirci che verso l'ora sesta Pilato si sedette in tribunale sul posto chiamato Litostrotos, in ebraico Gabbatà (Jn 19,13). Ecco le sue parole: Era la Parasceve della Pasqua, intorno all'ora sesta. Pilato disse ai Giudei: " Ecco il vostro re! ". Ma quelli gridarono: " Crocifiggilo, crocifiggilo! ". Disse Pilato: " Metterò in croce il vostro re? ". Risposero i sommi sacerdoti: " Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare ". Allora lo consegno loro perché fosse crocifisso (Jn 19,14-16). Se pertanto verso l'ora sesta Pilato si sedette in tribunale e consegno Gesù ai Giudei perché lo mettessero in croce, come può dirsi che all'ora terza Gesù fu crocifisso, come ritennero alcuni che non avevano capito bene le parole di Marco ? (Mc 15,33)

41. Vediamo prima a che ora il Signore poté essere crocifisso, poi vedremo per qual motivo Marco afferma che lo crocifissero all'ora terza. Quand'egli fu consegnato ai Giudei per esser crocifisso, Pilato, come è stato notato, si assise in tribunale; ed era circa l'ora sesta. Non era l'ora sesta piena ma si era sull'ora sesta; era cioè terminata l'ora quinta e anche dell'ora sesta ne era trascorso un pochino. Gli autori sacri non usano mai dire: Cinque e un quarto, o un terzo, o cinque e mezzo, o frasi simili; ma la Scrittura è solita indicare, specie nella cronologia, il tutto per la parte. Parlando, ad esempio, degli otto giorni alla fine dei quali Gesù sali sul monte (Lc 9,28), Matteo e Marco, considerando i giorni intermedi, dicono: Dopo sei giorni (Mt 17,1 Mc 9,1). E qui è da sottolinearsi come la frase di Giovanni è molto sfumata, in quanto non dice: "Sesta", ma: Verso l'ora sesta (Jn 19,14). Ma anche se non si fosse espresso cosi e avesse detto senz'altro "ora sesta", noi potremmo intendere la frase nel modo consueto della Scrittura di cui parlavo sopra e cioè prendere il tutto per la parte. Ne risulterebbe che, quando accadde ciò che gli evangelisti riferiscono sulla crocifissione del Signore, era terminata l'ora quinta e l'ora sesta era da poco iniziata, finché, al termine della medesima ora sesta, mentre il Signore pendeva ancora dalla croce, scesero le tenebre menzionate concordemente dai tre evangelisti Matteo, Marco e Luca (Mt 27,45 Mc 15,33 Lc 23,44).

42. Come conseguenza necessaria ci si presenta comunque un'indagine ulteriore sulle parole di Marco. Egli ricorda che quei tali che misero in croce Gesù se ne divisero le vesti tirando a sorte quel che toccava a ciascuno, e continuando aggiunge: Era l'ora terza e lo crocifissero (Mc 15,24-25). Aveva già detto che, avendolo messo in croce, se ne spartirono le vesti; ed è quanto sottolineano anche gli altri evangelisti. Dopo la sua crocifissione vennero divise dunque le sue vesti, e se Marco avesse voluto soltanto indicare il tempo in cui avvenne il fatto gli sarebbe bastato dire: Era l'ora terza. Perché aggiungere: E lo crocifissero? Se scrive cosi, lo fa servendosi del metodo della ricapitolazione e con le sue parole vuole significarci qualcosa che troveremo solo se lo cerchiamo. Leggendosi infatti il suo scritto in un tempo in cui tutta la Chiesa sapeva a che ora il Signore era stato inchiodato al patibolo, un simile errore poteva essere corretto e, se fosse stata una falsità, poteva essere smentita. L'affermazione pertanto è da leggersi secondo l'intenzione dell'evangelista, il quale, sapendo certamente che il Signore non fu crocifisso dai Giudei ma dai soldati - come asserisce chiaramente Giovanni (Jn 19,23)-, si propone di mettere in risalto, anche senza dirlo a parole, che a crocifiggerlo furono quelli che gridando ne ottennero la sentenza di morte più che non quegli altri che, fedeli al loro incarico, eseguirono l'ordine del loro principale.


domenica 22 marzo 2015

Vogliamo vedere l’Infinito: la sete del volto di Dio

V Domenica di Quaresima - Anno B –  22 marzo 2015.

Rito Romano
Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33[1]

Rito Ambrosiano – V Domenica di Quaresima – “di Lazzaro”
Dt 6,4a.20-25; Sal 104; Ef 5,15-20; Gv 11,1-53

            1) Vedere il Volto buono del Destino: Gesù Cristo.
            I giorni scorrono veloci ed anche i quaranta giorni della Quaresima stanno per finire. Domenica prossima sarà quella delle Palme e quella successiva, infine, sarà quella di Pasqua. In questo avvicinarsi della Settima Santa (che il rito ambrosiano chiama: Settimana Autentica, quindi vera e paradigmatica per le altre settimane dell’anno) e del giorno di Risurrezione, il Vangelo di oggi ci dice cosa bisogna fare per vedere[2] Gesù. In primo luogo, occorre averne il desiderio e andare da lui come hanno fatto alcuni “greci” (=pagani, quindi non ebrei). In secondo luogo, bisogna capire perché Cristo invece di dire “guardatemi”, risponde che “è venuta l’ora” (Gv 12, 23) della sua “morte che dà la morte alla morte” (cfr Os 13,14).
            In realtà, Gesù risponde, anzi va al cuore della richiesta fatta da dei pagani e presentata a Lui dagli Apostoli. Alla domanda di un incontro diretto, Gesù risponde in modo indiretto, annunciando la sua Passione, in cui spiega la sua morte come “glorificazione” del Suo amore appassionato per i suoi fratelli e sorelle in umanità. Cosa vuole dire ciò?  Vuol dire che chi vike vederLo potrà incontrarLo e vederLo  attraverso la croce, accettando anche di mettere in pratica la  parabola del chicco di grano che muore (Gv 12,24), per essere fonte di vita, seguendoLo (Gv 12,25-26) e lasciandosi attirare da Lui, che regna essendo stato elevato sul trono della Croce gloriosa: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
            Anche oggi, Gesù viene incontro al nostro desiderio di vederLo. Lui viene come chicco di grano che muore per portare frutto.
            Anche a noi, oggi, il Signore dice che se vogliamo incontrarLo, conoscerLo, avanzare sulla Via per avere la Vita, dobbiamo “morire”.
            È vero: il marito “muore” al suo egoismo per dedicarsi alla moglie.
            La madre “muore” sacrificando la sua libertà per dare alla luce un figlio.
            Il prete “muore”, mettendo quotidianamente la sua vita a disposizione delle pecore che Dio gli ha affidato.
            La persona consacrata “muore”, perché offre la sua vita a Cristo, totalmente. “La vocazione delle persone consacrate è, prima di ogni altra cosa, una chiamata alla conversione piena, nella rinuncia a se stessi per vivere totalmente del Signore, affinché Dio sia tutto in tutti” (S. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Post-Sin. Vita consecrata, n. 35).
            Questi quattro esempi di “morte”, sono esempi di gesti che danno luce ad una dimensione nuova dell’amore, ad una nuova creatura, che nasce a Dio ed alla comunione fraterna.
            L’immagine del parto dice bene questa logica intessuta nelle cose: le doglie sono necessarie per dare alla luce una nuova creatura.
            Certo: accettare questo discorso è difficile. Quando stiamo soffrendo, non pensiamo alla vita che ne scaturirà. Quando stiamo male, facciamo fatica a intravedere il dopo. Quando siamo al buio e al freddo della terra come il chicco, facciamo fatica a pensare a un Dio misericordioso e tenero. Ma se teniamo fisso in mente e nel cuore che Gesù è il seme che va nella terra (cioè che si dona sino alla morte) per portare frutto, anche noi capiremo la “necessità” di morire e accetteremo di morire come Lui: per amore, solo per amore.
            Vedendo questo Amore, sapendo di essere guardati da questo Amore incarnato e crocifisso, abbiamo il coraggio e la grazia di morire a noi stessi per Dio e per il prossimo, come ha fatto Gesù, l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, il Volto buono del Destino che dà la vita e che ci dà la vita.


            2) La Croce permette di vedere con il cuore.
            In questo mistero della morte in croce, per mezzo della “Parola della Croce” (cfr. 1 Cor 1,18) ci sono rivelate due verità intimamente connesse: la verità su Dio e la verità sull’uomo.
            Vediamo brevemente queste due verità, cominciando da quella su Dio. In ciò ci è di aiuto S. Bernardo di Chiaravalle che scrive: “Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore … E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo … appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78)” (Sermoni sul Cantico dei Cantici; Ser. LXI, 4). “E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore”: la Croce è la suprema rivelazione di ciò che dimora dentro al cuore di Dio. E pertanto l’apostolo Paolo scrive di “non sapere altri in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso” (1 Cor 2,2). Alla domanda più alta che l’essere umano possa fare: “Chi è Dio?”, la Chiesa alla luce del Vangelo ci risponde: “Cerca la risposta nel Crocefisso”. Al desiderio di cui è impastato il cuore umano, il desiderio di vedere Dio (cfr  San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica 1,2,q.3, a.8), il cristiano, cresciuto nel sequela di Cristo, Cristo risponde dicendo: “Fissa il Crocefisso, guardaLo con gli occhi del cuore, che umilmente domanda”.
La verità sull’uomo e del suo valore è mostrata agli occhi del nostro cuore dalla Croce, sulla quale se Cristo ha pagato con la Sua vita il riscatto della nostra. Ci ha cosi mostrato quale grande valore ha la nostra vita, perché per la vita dell’uomo Lui ha donato la Sua vita.
Cristo ha mostrato con il dono di sé che Lui crede nell’uomo e nel suo valore. La Croce però non mostra solo la “fede” di Cristo nell’uomo, ma mostra Cristo come modello di vita da seguire, imitandolo per assomigliargli.
E’ una chiamata alla grandezza vera, quella che viene dall’umiltà, dalla generosità, dall’amore, dal dono de sé a chi si ama, e non la grandezza che viene dalla violenza fisica o morale, che distrugge. La grandezza di Cristo e dell’uomo in Cristo non dipende dall’opinione degli altri, che si fonda sulla forza e, molto spesso, sul disprezzo. Non chiede l’“adorazione” degli altri, tant’è vero che soprattutto gli attori sono chiamati “divi”. La grandezza che Dio offre all’uomo, è di essere con Lui creatori, e non degli esaltati. Il Cristianesimo non è una religione che disumanizza, ci rende uomini e donne veri, capaci di dono e di costruire qualcosa di grande per Colui che ha costruito tutto.
            Quello che è accaduto sulla Croce, e che riaccade sacramentalmente a ogni Messa, ha cambiato alla radice la nostra condizione umana: noi non siamo più condannati alla morte, non siamo più “esseri per la morte” (Heiddeger), perché sulla croce Cristo morendo ha redento la nostra morte: siamo “esseri per la vita”. E la certezza che questo è realmente accaduto ci è donata dalla Risurrezione. A causa della Risurrezione, noi sappiamo con certezza che la nostra umanità, non ideale ma quella reale (in Cielo Gesù Risorto conserva le stigmate), è definitivamente entrata nella Trinità santa e sorgente inesauribile di felicità. Questo è il frutto della morte del Verbo Incarnato, poiché proprio “per questo Dio lo ha esaltato” (Fil 2,9a). Grazie alla Croce noi siamo per sempre in Dio.
            Nell’umanità crocifissa di Gesù risplende l’amore che Dio è, l’amore che è “vita della nostra vita” (Sant’Agostino). Continuiamo nel cammino penitenziale di quaresima affinché non opponiamo la nostra indifferenza a questo amore grande.
            Per proteggere e fare crescere la verità di questo amore, dobbiamo rinunciare a noi stessi.
Non è una rinuncia fine a se stessa, ma per accogliere Cristo completamente, per indicare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell'uomo.
            Insomma il Vangelo di oggi, ci ribadisce che il Cristianesimo nasce dalla Croce e non può prescindere da essa. Gesù diventa Re dell’Universo sulla croce e non dopo il successo della moltiplicazione dei pani. Il cristianesimo nasce da un cuore trafitto. Quando parliamo di potere del cuore, è al Cuore di Cristo che dobbiamo guardare: un Cuore, che è la misura dell’amore di Dio e di conseguenza del nostro. Il nostro agire da cristiani si deve misurare con quel Cuore.
            A questo punto, mi si potrebbe chiedere se ciò vale per tutti i cristiani, perché consacrarsi nella verginità? La risposta la prendo da San Giovanni Paolo II: “Nella vita consacrata non si tratta solo di seguire Cristo con tutto il cuore, amandolo «più del padre e della madre, più del figlio o della figlia» (cfr Mt 10, 37), come è chiesto ad ogni discepolo, ma di vivere ed esprimere ciò con l’adesione «conformativa» a Cristo dell'intera esistenza , in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo e secondo i vari carismi, la perfezione escatologica” (Esort. Post-Sinod., Vita consecrata, n. 16).
            Le vergini consacrate nel mondo testimoniano l’importanza di un cuore donato completamente a Dio, perché attraverso questo cuore offerto Lui ama l’umanità.
            “Se veramente ti sei donato, non puoi vivere più che nel suo cuore, non puoi vivere più che nel suo corpo, non puoi vivere più che in Lui, così come una madre vive nel sangue del figlio, nella carne del figlio, perché la carne del figlio, il sangue del figlio è il sangue della madre” (Divo Barsotti). In questo modo faremo esperienza della verità di questa frase: “Il Signore è vicino quanti lo cercano a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 145, 18). In effetti “non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupery, Il piccolo Principe)


[1] Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. (Gv 12, 20-33)
[2] “Vedere” nel Vangelo di Giovanni ha un senso molto ricco: è un andare oltre le apparenze per raggiungere e conoscere il mistero che esse nascondono; allora "vedere" significa non solo incontrare il Messia, ma soprattutto riconoscerlo nella sua vera identità e credere in Lui.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona,
Commento al Vangelo di Giovanni, 51, 10



Amore e croce

       Il Signore ci esorta poi a seguire gli esempi che egli ci offre della sua passione: Chi ama la propria anima, la perderà (Jn 12,25).

       Queste parole si possono intendere in due modi: «Chi ama, perderà», cioè: se ami, non esitare a perdere, se desideri avere la vita in Cristo, non temere la morte per Cristo. E nel secondo modo: «Chi ama l’anima sua, la perderà», cioè: non amare in questa vita, se non vuoi perderti nella vita eterna. Questa seconda interpretazione ci sembra più conforme al senso del brano evangelico che leggiamo. Il seguito infatti dice: "E chi odia la propria anima in questo mondo, la serberà per la vita eterna"("ibid."). Quindi, la frase di prima: «Chi ama», sottintende: in questo mondo; cosi come poi dice: «Chi invece odia in questo mondo», la conserverà per la vita eterna.

       Grande e mirabile verità, nell’uomo c’è un amore per la sua anima che la perde, e un odio che la salva. Se hai amato smodatamente, hai odiato; se hai odiato gli eccessi, allora hai amato. Felici coloro che hanno odiato la loro anima salvandola, e non l’hanno perduta per averla amata troppo. Ma guardati bene dal farti venire l’idea di ucciderti da te stesso, avendo inteso che devi odiare in questo mondo la tua anima. Così intendono certi uomini perversi e male ispirati, crudeli e scellerati omicidi di sé stessi, che cercano la morte gettandosi nel fuoco, annegandosi in mare o precipitandosi da una vetta. Non è questo che insegna Cristo. Quando il diavolo gli suggerì di gettarsi nel precipizio, egli rispose: "Torna indietro, Satana; sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo" (Mt 4,7). E nello stesso senso disse a Pietro, per fargli intendere con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: "Quando eri più giovane, ti cingevi da te stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e di condurrà dove tu non vuoi" (Jn 21,18-19). Parole queste che chiaramente ci indicano che non da sé ma da altri, deve essere ucciso colui che segue Cristo. Quando dunque un uomo si trova nell’alternativa, e deve scegliere tra infrangere un comandamento divino, oppure abbandonare questa vita perché il persecutore gli minaccia la morte, ebbene egli scelga la morte per amore di Dio, piuttosto che la vita offendendo Dio; così avrà giustamente odiato la sua anima in questo mondo per salvarla per la vita eterna.

San Leone Magno,
Sermonw, 51, 3

Cristo ci ha fatto dono della sua vittoria

       Qual sacrificio fu mai più sacro di quello che il vero Pontefice posa sull’altare della croce immolando su di lei la propria carne? Benché, invero, la morte di molti santi sia stata preziosa agli occhi del Signore (Ps 115,15), mai tuttavia l’uccisione di un innocente ebbe come causa la propiziazione del mondo. I giusti hanno ricevuto la propria corona di gloria, non ne hanno donate, la forza d’animo dei fedeli ha prodotto esempi di pazienza, non doni di giustizia. La loro morte rimase propria a ciascuno di loro e nessuno con il proprio transito acquistò il debito di un altro; nostro Signore, invece, unico tra i figli degli uomini, è stato il solo in cui tutti sono stati crocifissi, tutti sono morti, tutti sono stati sepolti, tutti del pari sono risuscitati; ed è di loro che egli stesso diceva: "Quando sarò levato in alto attirerò tutto a me" (Jn 12,32). In effetti, la vera fede che giustifica gli empi (Rm 4,5) e crea i giusti (Ep 2,10 Ep 4,24), attratta a colui che condivide la sua natura, acquista in lui la salvezza, in lui nel quale essa si è ritrovata innocente; e poiché "non vi è che un unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5) è per la comunione con la sua stirpe che l’uomo ha ritrovato la pace con Dio; può così, in tutta libertà, gloriarsi (1Co 3,21 Ph 3,3 2Co 10,17) della potenza di colui che, nella infermità della nostra carne, ha affrontato un nemico superbo e ha fatto dono della sua vittoria a coloro nel cui corpo egli ha trionfato.