Rito
Romano
XXXIII
Domenica Tempo Ordinario - Anno A – 16 novembre 2014
Pr
31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6; Mt 25,14-30
Rito
Ambrosiano
1°
Domenica di Avvento
Is
24, 16b-23; Sal 79; 1Cor 15,22-28; Mc 13,1-27
1)
Il primo talento è l’Amore di Dio.
I
“talenti”1
di cui parla Gesù nel Vangelo non sono tanto le doti o le capacità
(intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, quanto il Suo
Amore e i doni di grazia, forza e intelligenza, di cui ci ricolma
perché assumiamo la responsabilità di figli e di fratelli
A
questo riguardo Papa Francesco ci chiede: “Avete
pensato a come potete mettere i vostri talenti a servizio degli
altri?”, e poi ci dice: “Non sotterrate i talenti! Scommettete su
ideali grandi, quegli ideali che allargano il cuore, quegli ideali di
servizio che renderanno fecondi i vostri talenti. La vita non ci è
data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data
perché la doniamo”.
In
effetti, il Papa ci ricorda che, con questa parabola dei talenti2,
Gesù vuole insegnare ai discepoli (e quindi anche a noi) ad usare
bene i doni che Dio fa a ogni uomo chiamandolo alla vita,
consegnandogli dei talenti, e quindi, affidandogli una missione da
compiere mediante i doni da far fruttare e condividere. Inoltre è
una parabola,
questa, con la quale il Cristo invita a non avere paura del la vita e
a non aver pau ra di Dio. Lui non è un padrone eccessivamente e
ingiustamente esigente, ma un Padre, che con la Sua Carità ci offre
dei doni per farci vivere nella libertà e nell’amore.
Oltre al Suo amore
questi sono i doni-talenti che Gesù ci offre: la Sua Parola,
depositata nel Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito
Santo; la preghiera - il ‘Padre nostro' - che eleviamo a Dio come
figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a
tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato.
In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in
mezzo a noi.
Questi talenti che Gesù
ha affidato a noi, suoi amici e fratelli, si moltiplicano donandoli.
È un tesoro donato per essere, investito e condiviso con tutti.
Quindi, come è da stupidi pensare che i doni di Cristo siano dovuti,
così è insensato rinunciare ad impiegarli, perché sarebbe un venir
meno allo scopo della nostra esistenza. Commentando questa pagina
evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa
mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È
perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella
custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie
sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste
nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: "se uno
manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del
talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre" (ibid.).
2)
Un parabola incorniciata da altre due.
Nel
Vangelo secondo Matteo la parabola dei talenti è preceduta
da quella delle vergini sagge e seguita dalla parabola del giudizio
finale sull’amore (Ho avuto fame, sete, ero nudo … e mi avete
dato da mangiare, da bere a da vestirmi …), e possiamo considerala
come il pilastro centrale che illumina entrambe. In primo luogo, essa
proietta luce sul significato della sapienza, rappresentata dall’olio
di riserva. La vera sapienza scaturisce dalla novità di un rapporto
libero e creativo, che la persona umana realizza con il suo Signore.
In secondo luogo, la parabola dei talenti insegna che la grazia,
donata da Dio e accolta e riconosciuta dall’uomo, diventa dono per
i fratelli, che si identificano con la persona stessa del Cristo.
Inoltre, se si tiene presente il vangelo di Luca, questa parabola è
strettamente collegata con l’episodio di Zaccheo, incontrato
gratuitamente da Gesù. In questo modo la parabola mette in evidenza
un fatto singolare: davanti a Dio l’uomo non solo è sempre
debitore, ma è chiamato alla libertà dell’incontro con Lui, che è
pura grazia. L’essere saggio e sapiente di fronte a Dio sarà
allora per l’uomo l’unica possibilità di una liberazione, che
diventerà dono e gratuità nell’incontro con il fratello.
Purtroppo, anche noi –
a volte - stiamo di fronte a Dio come l’ultimo servo, quello che
non ha fatto fruttificare il suo talento, restando chiusi nei nostri
preconcetti su Dio, sulle nostre modeste idee su di Lui. Teniamo
troppo alla nostra tranquillità, alla nostra routine. Il nuovo ci fa
paura. Cristo ci invita ad essere suoi discepoli fiduciosi, che non
hanno paura di lui e che gli stanno accanto senza timore servile. Il
discepolo di Gesù deve muoversi in un rapporto di amore, dal quale
soltanto possono scaturire coraggio, generosità, libertà, persino
il coraggio di correre i rischi necessari.
Guardando a Colui che
“ha fatto nuove tutte le cose” siamo –purtroppo- più
spaventati che illuminati. Ecco allora che la parabola dei talenti
stimola alla libertà e alla gratuità, che scaturisce dal
riconoscimento della pura gratuità di un incontro. Questo incontro
è, sì, desiderato dall’uomo, come lo fu per Zaccheo, ma è
realizzato dalla bontà e dall’amore di Dio che venne a casa sua e
vi portò la salvezza. Fu l’avvento di Cristo in casa di un
peccatore pentito.
3) Venuta =
Avvento.
Tutti i
cristiani latini fanno coincidere l’avvento con il periodo di 4,
per il rito romano, oppure di 6 settimane per il rito ambrosiano,
ma molti ignorano l’origine della parola “avvento” e alcune
“curiosità” storiche che questo termine porta con sé e che vale
la pena ricordare.
Cominciamo dalla
parola “Avvento”, che deriva dal latino, e che letteralmente
significa “arrivo”, “venuta”. La usavano i sovrani dell’epoca
antica, soprattutto in Oriente, per indicare il rituale con il quale
volevano che fosse celebrato il loro arrivo solenne (appunto, il loro
“avvento”) in una città, e pretendevano di essere accolti come
benefattori e divinità. Quella della Liturgia cristiana fu dunque
una scelta coerente alla mentalità dei tempi antichi, quando volle
usare questo termine per indicare la “venuta” di Gesù Cristo,
vero donatore di salvezza e redenzione, in mezzo agli uomini, nella
grande città di questo mondo,
Il vero “avvento”
dunque, quello in senso proprio, di per sé
coinciderebbe con la festa di Natale, che è il giorno in cui si
festeggia la venuta di Qualcuno e non qualcosa. Poi la parola avvento
si allargò a indicare il periodo di preparazione alla festa del 25
dicembre. Di conseguenza ci si pose questo problema: quanto deve
durare la preparazione al Natale? La soluzione più antica, che il
rito ambrosiano ha conservato fino a oggi, fu quella di “costruire”
il periodo di preparazione al Natale su imitazione del periodo di
preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima. E dunque, come la
Quaresima è scandita su sei domeniche, così anche l’Avvento venne
“costruito” su sei domeniche3.
Domeniche
destinate a tener viva la vigilanza dell’attesa, perché Cristo non
ci trovi indolenti e pigri e il demonio
ci derubi di questo tesoro. Domeniche in cui ci è ricordato che aver
fede significa far fruttare il talento, che è stata posto nelle
nostre mani.
4)
Chi ama vive nell’attesa vigile.
Per accogliere e custodire la presenza di Cristo in noi occorre la
vigilanza del cuore, che il cristiano è chiamato ad esercitare
sempre, nella vita di tutti i giorni, caratterizzata in particolare
nel tempo di Avvento in cui ci prepariamo con gioia al mistero del
Natale.
L’ambiente
esterno propone i consueti messaggi di tipo commerciale, anche se
–forse- in tono minore a causa della crisi economica. Il cristiano
è invitato a vivere l’Avvento come tempo dell’attesa senza
lasciarsi distrarre dalle luci dei negozi e dei supermercati, ma di
guardare -con gli occhi del cuore- Cristo, vera Luce.
Infatti
se perseveriamo “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode”
(Prefazio I domenica di Avvento), i nostri occhi saranno in grado di
riconoscere in Lui la vera luce del mondo, che viene a rischiarare le
nostre tenebre.
La
Vergine Maria ci è maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel
cammino verso l’incontro con Dio. Sull’esempio della nostra Madre
Celeste le vergini consacrate testimoniano quotidianamente come
vivere questa attesa mostrando che il talento più grande è l’Amore
di Dio, il suo Regno e la sua giustizia.
La vergine è la
persona in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di
Cristo con la Chiesa, donandosi completamente alla Chiesa nella
speranza che Cristo si doni alla chiesa nella piena verità della
vita eterna. La persona vergine anticipa nella sua carne il mondo
nuovo della risurrezione e testimonia nella Chiesa la coscienza del
mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e
impoverimento. (cfr S. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio,
n 16)
Le vergini consacrate
nel mondo sono, infine chiamate a testimoniare che il fatto di essere
perseveranti e “vigilanti nella preghiera ed
esultanti nella lode” (Prefazio I domenica di Avvento), permette ai
nostri occhi di essere in grado di riconoscere in Cristo la vera luce
del mondo, che viene a rischiarare le nostre tenebre.
Il
compito delle vergini consacrate è quello un costruire la vita sulla
roccia di un Signore amato, ascoltato e atteso (cfr Mt
7,24-25).
1
Il talento
non era una moneta,
ma una unità di conto. Non si poteva coniare una moneta di quasi 27
chilogrammi! Indicava, in ogni caso, un valore molto grande, come
enorme è il tesoro lasciatoci da Gesù. In effetti, un talento,
valeva 60 mine e 6000 dracme. La dracma era parificata al denaro
(che era la moneta del tempo) e un lavoratore non qualificato
prendeva circa un denaro al giorno. La Misna dice che il minimo per
una famiglia era 200 denari al giorno. Quindi con un talento, una
famiglia, poteva vivere 30 anni.
2
Nella
celebre parabola dei talenti riportata dall’evangelista San Matteo
(cfr 25,14-30), Gesù racconta di tre servi ai quali, al momento di
partire per un lungo viaggio, il padrone affida i propri soldi. Due
di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i
talenti ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in
una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di
quanto aveva loro affidato e, mentre apprezza quanto hanno fatto i
primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha
tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi
conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più
tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto
conto di come avesse “gestito” il dono ricevuto.
3
E quest’anno
il 16 novembre è esattamente la sesta domenica prima di Natale: per
l’appunto l’inizio dell’avvento ambrosiano. In epoca più
recente il rito romano abbreviò questo periodo a “sole” quattro
domeniche: ed ecco spiegata la differenza di calendario e la
dicitura “avvento romano” per il giorno 30 novembre.
Lettura
Patristica
San
Girolamo
In
Matth. IV, 22, 14-30
1. La simbologia dei
talenti
Sarà
infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio,
chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque
talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo
la sua capacità"
(Mt
25,14-15).
Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo
stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al
Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro
la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non
perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco,
ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice
qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro
che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co
3,2).
Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti,
trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto
quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di
ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo
le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere,
nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha
due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la
ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.
"Subito
colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e
ne guadagnò altri cinque"
(Mt
25,16).
Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per
mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la
conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle
spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle
eterne.
"Come
pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due
(Mt
25,17).
Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla
Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere
che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le
caratteristiche ideali della futura beatitudine.
"Ma
colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella
terra e vi nascose il denaro del suo padrone"
(Mt
25,18).
Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del
mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista
dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc
19,20),
cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente
l’insegnamento del padrone di casa.
"Ora,
dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a
render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti,
ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque
talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»"
(Mt
25,19-20).
Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda
venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e
risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?
"E
il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele
nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo
Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti
e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati
altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele;
sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella
gioia del tuo Signore»
(Mt
25,21-23)
. Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e
quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal
padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in
questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre
poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone
- nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai
vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare
(1Co
2,9).
Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se
non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di
lui?
"Presentatosi
infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore,
so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e
raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a
nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti
appartiene»
(Mt
25,24-25).
Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps
141,4),
si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza,
ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe
dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare
il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver
agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di
perdere il capitale.
"Il
suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che
mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi
dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io
avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il
talento e datelo a colui che ne ha dieci»
(Mt
25,26-28).
Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in
condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il
padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il
talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come
negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro
e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho
seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da
farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio,
e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti
avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola
greca arghyrion. Sta scritto: "La
parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco,
temprato nella terra, purificato sette volte"
(Ps
12,7).
Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola
divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli
altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia
presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono
raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con
le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene
pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci
affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia del Signore
per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato
i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è
il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del
padrone. Per questo l’Apostolo dice: "Onora
i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto
coloro che s’affaticano nella parola di Dio
(1Tm
5,17).
E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato
e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta
anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo
accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che
hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che
hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che
violano la legge scritta.
"Poiché
a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà
tolto anche quello che crede di avere"
(Mt
25,29).
Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se
però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro
naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo,
ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha
ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio
loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole
anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore,
riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana
avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà
avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere
per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche
quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non
appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male
ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni
naturali.
"E
il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e
stridor di denti"
(Mt
25,30).
Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca
della vera luce.
Nessun commento:
Posta un commento