venerdì 28 novembre 2014

L’Avvento: tempo di attesa nella gioia

Rito Romano
1ª Domenica di Avvento - Anno B - 30 novembre 2014
Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

Rito Ambrosiano
3ª Domenica di Avvento – Le profezie adempiute
Is 51,1-6; Sal 45; 2Cor 2,14-16a; Gv 5,33-39

1) L’attesa permette l’incontro con l’Amato.
L’Avvento, questo tempo liturgico forte che nel rito romano comincia oggi, ci invita a sostare in silenzio per accogliere e capire la presenza di Cristo. E’ un invito a comprendere che i singoli eventi della giornata sono cenni che Dio ci rivolge, segni dell’attenzione che ha per ognuno di noi. L’Avvento ci invita e ci stimola a contemplare il Signore presente. La certezza della sua presenza ci aiuta a vedere il mondo con occhi diversi; a considerare tutta la nostra esistenza come “visita” di Dio, che ci viene vicino, che ci resta accanto in ogni situazione. Perché questo ci accada “la liturgia dell’Avvento ci ripete costantemente che dobbiamo destarci dal sonno dell’abitudine e della mediocrità, dobbiamo abbandonare la tristezza e lo scoraggiamento; occorre che rinfranchiamo i nostri cuori perché ‘il Signore è vicino’” (Benedetto XVI).
Se vivremo l’Avvento come il Papa emerito suggerisce, il Natale non sarà solamente una festa per ricordare un fatto del passato, ma la presente e viva attuazione di un evento. In effetti, ciò che è accaduto una volta nella storia si fa evento nella vita del credente oggi. Come più di duemila anni fa, il Signore è venuto per tutti, Lui viene sempre e di nuovo per ciascuno di noi. Per questo, ognuno di noi deve sperimentare l’attesa e l’arrivo, perché per ciascuno di noi nasca la salvezza.
Dunque, il primo atteggiamento che qualifica il tempo dell’Avvento è quello dell’attesa. Normalmente si attende con gioia una persona conosciuta e questo periodo di quattro settimane ci è dato per familiarizzarci con la persona di Cristo, il Salvatore reale. Lui viene quale amico che di più grande non possiamo trovare al mondo: Lui viene come amico vero perché non pensa tanto a se stesso quanto agli amici.
Dovremmo vivere l’attesa della venuta del bambino Gesù come una madre attende il figlio che porta in grembo: meditando il miracolo dell’imminente venuta di una persona desiderata ma sconosciuta, magari anche un po’ temuta anche se si tratta di una persona piccina quindi bisognosa di tenerezza, frutto di un amore da accogliere a cuore aperto e senza timore.
Se il cuore non è ottuso, può e deve essere teso a Cristo. Dovremmo avere una viva attenzione al Signore. Lui viene sempre, ma spesso l’incontro non avviene perché viviamo una vita spirituale superficiale, con una certa distrazione. Purtroppo raramente siamo nelle condizioni spirituali di percepire questa “venuta” di Dio.
L’importante è vivere l’avvento come attesa sicura della “venuta” di Dio, come la Madre per eccellenza ha vissuto l’attesa della venuta del Figlio, Gesù.
Io penso che Maria Vergine passò i mesi dell’attesa –in primo luogo- cercando, pensando e leggendo tutto ciò che poteva arricchire il suo sapere sull’Atteso delle genti, sul Figlio dell’Altissimo da Lei concepito, con umiltà e abbandono.
In secondo luogo, la Madre di Dio pregò intensamente, cioè chiese che lo Spirito di Dio La illuminasse nella ricerca del volto di suo Figlio e suo Signore. Allora Lui, il Dio vicino, instaurò tra Sé e la Madonna un legame di fedeltà, di fiducia, di accordo, in una parola sola: di fede obbediente.
In terzo luogo, la Vergine Madre si esercitò ad amare il Figlio che portava nel grembo. Ma come si può amare Uno che non si conosce. Mise in pratica quello che anni più tardi San Giovanni Apostolo scrisse nella sua prima lettera: “Chi non ama il proprio fratello che non vede, non può amare Dio che non vede”, e andò a visitare la cugina Elisabetta, il cui figlio così ricevette la visita del Figlio di Dio. Maria amò non a parole, ma con dei fatti; non con sentimenti, ma con l’agire, facendosi pellegrina di carità, della pietà di Dio.

2) La gioia per la presenza del Dio vicino.
Se viviamo l’Avvento di Cristo, come Maria Vergine visse l’attesa della di lui nascita, educheremo il nostro cuore ad una attesa reale, quotidiana, nella tensione alla presenza di Chi si è fatto uomo per noi, per salvare la nostra vita. E saremo nella gioia, perché -come la Madonna- avremo la certezza che Dio è vicino: era in Lei ed è in noi, sempre: nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, come amico e sposo fedele. E questa gioia rimane anche nella prova, nella stessa sofferenza, e rimane non in superficie, ma nel profondo della persona che a Dio si affida e in Lui confida.
Gesù nascendo portò la gioia a Maria, a Giuseppe, ai pastori, ai Re Magi e, poi alle persone che lo accolsero. quindi anche a noi. Ciò nonostante, nasce spontanea questa domanda: “E’ possibile questa gioia anche oggi?”. La risposta ce la danno, con la loro vita, uomini e donne di ogni età e condizione sociale, felici di consacrare la loro esistenza agli altri per amore di Cristo, incarnato per noi. La beata Madre Teresa di Calcutta non è stata forse, nei nostri tempi, una testimone indimenticabile della vera gioia evangelica? Viveva quotidianamente a contatto con la miseria, il degrado umano, la morte. La sua anima ha conosciuto la prova della notte oscura della fede, eppure ha donato a tutti il sorriso di Dio. Una volta, Madre Teresa di Calcutta ha detto: “Noi aspettiamo con impazienza il paradiso, dove c’è Dio, ma è in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù e fin da questo momento. Essere felici con Dio significa: amare come Lui, aiutare come Lui, dare come Lui, servire come Lui”.
La gioia entra nel cuore di chi si pone al servizio dei piccoli e dei poveri. In chi ama così, Dio prende dimora - come la prese nel grembo della Madonna - nella grotta, nella casa di Nazareth - e l’anima è nella gioia. Se invece si fa della felicità un idolo, si sbaglia strada ed è veramente difficile trovare la gioia di cui parla Gesù. E’ questa, purtroppo, la proposta delle culture che pongono la felicità individuale al posto di Dio, mentalità che trova un suo effetto emblematico nella ricerca del piacere ad ogni costo. Anche a Natale si può sbagliare strada, scambiare la vera festa con quella che non apre il cuore alla gioia di Cristo, e riduca tutto ad uno scambio di doni materiali.
3) L'Avvento è Gesù che viene.
Quanti secoli di attesa e quante anime consumate nel desiderio dell’attesa! Che Gesù venga! “La Chiesa sposa aspetta il suo sposo! Dobbiamo chiederci però, con molta sincerità: siamo davvero testimoni luminosi e credibili di questa attesa, di questa speranza? Le nostre comunità vivono ancora nel segno della presenza del Signore Gesù e nell’attesa calorosa della sua venuta, oppure appaiono stanche, intorpidite, sotto il peso della fatica e della rassegnazione? Corriamo anche noi il rischio di esaurire l’olio della fede, e l’olio della gioia? Stiamo attenti! Invochiamo la Vergine Maria, madre della speranza e regina del cielo, perché ci mantenga sempre in un atteggiamento di ascolto e di attesa, così da poter essere già ora permeati dell’amore di Cristo e aver parte un giorno alla gioia senza fine, nella piena comunione di Dio e non dimenticatevi, mai dimenticare: «E così per sempre saremo con il Signore!»” (1Ts 4,17)” (Papa Francesco, 14 ottobre 2014).
Sorge allora un’altra domanda: “Come discernere i segni del “Veniente”? “Ed accostatisi a Lui i Farisei e i Sadducei gli chiedevano di mostrar loro un segno dal cielo. Ma Egli, rispondendo, dice loro: - Quando si fa sera, voi dite: bel tempo, perché il cielo rosseggia! E la mattina dite: oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo. L’aspetto del cielo lo sapete dunque discernere e i segni dei tempi non arrivate a discernerli? » (Mt 16). “Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è vicino, è proprio alle porte”. (Mt 24, 33).
Il rimprovero vale anche per noi, perché la sensibilità cristiana incarnata e redentrice è in diminuzione. Si corre dietro a fatti emozionanti, miracolisti e non si riconosce l’eccezionalità della reale presenza di Cristo nell’Ostia consacrata. Molti di noi vogliono vedere folle inginocchiate e oranti, miracoli di ogni tipo: sono fatti che hanno il loro significato, ma non sono gli unici segni del Veniente. Bisogna avere un cuore proteso verso le voci più delicate e quasi impercettibili della nostra generazione, che, accanto ai violenti distacchi, conosce gli spasimi ineffabili di un'attesa che, se non ha ancor un nome, dà però tanta speranza a chi può vedere.
Le Vergini consacrate nel mondo, imitando più da vicino la Vergine Maria, sono chiamate ad incarnare lo spirito dell’Avvento, fatto di ascolto di Dio, di desiderio profondo di fare la sua volontà, di gioioso servizio al prossimo. Lasciamoci guidare dal loro esempio, perché il Dio che viene non ci trovi chiusi o distratti, ma possa, in ognuno di noi, estendere un po’ il suo regno di amore, di giustizia e di pace.
Con il loro esempio proclamano a un mondo spesso disorientato, ma in realtà sempre più alla ricerca d'un senso, che Dio è il Signore dell'esistenza, che la sua “grazia val più della vita2 (Sal 62,4). Scegliendo l’obbedienza, la povertà e la castità per il Regno dei cieli, mostrano che ogni attaccamento ed amore alle cose e alle persone è incapace di saziare definitivamente il cuore; che l’esistenza terrena è un’attesa più o meno lunga dell’incontro "faccia a faccia" con lo Sposo divino, attesa da vivere con cuore sempre vigile per essere pronti a riconoscerlo e ad accoglierlo quando verrà. Per natura sua, dunque, la vita consacrata costituisce una risposta a Dio totale e definitiva, incondizionata e appassionata (cfr Vita consecrata, 17).
Infine non dimentichiamo di pregare per tutte le persone consacrate, perché in questa prima Domenica di Avvento 2014 si apre l’Anno della Vita consacrata1, che terminerà il 2 febbraio 2016. In quest’anno tutti i fedeli sono invitati a riscoprire l’importanza di questa forma di vita per la vita della Chiesa e per i circa 800.000 consacrati sarà un’opportunità per approfondire il senso del loro impegno di essere “Vangelo, Profezia e Speranza” per la Chiesa e per il Mondo intero.

1 l’Em.mo Card. João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ha affermato “Prima di tutto va detto che questo Anno della vita consacrata è stato pensato nel contesto dei 50 anni del Concilio Vaticano II, e più in particolare nella ricorrenza dei 50 anni dalla pubblicazione del Decreto conciliare Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita consacrata.

La vita consacrata, come ricordava il Papa Francesco nell’incontro con i Superiori generali, “è complessa, è fatta di peccato e di grazia”. In questo Anno si vuole riconoscere e confessare la debolezza di chi si è consacrato, ma anche "gridare" al mondo con forza e con gioia la santità e la vitalità che sono presenti nella vita consacrata. Quanta santità, tante volte nascosta ma non per questo meno feconda, nei monasteri, nei conventi, nelle case dei consacrati, che porta questi uomini e donne ad essere “icone viventi” del Dio.

Il secondo obiettivo di questo Anno è di abbracciare il futuro con speranza. Di fronte a tanti "profeti di sventura" le persone consacrate vogliono rimanere uomini e donne di speranza; una speranza che non si basa sulle nostre forze umane, sui numeri dei vari membri delle varie forme di vita religiosa, ma su Colui nel quale i consacrati hanno riposto la loro fiducia. In Lui nessuno ci ruberà la nostra speranza.

Il terzo obiettivo di questo Anno della vita consacrata è quello di vivere il presente con passione. La passione parla di innamoramento, di vera amicizia, di profonda comunione… Di tutto questo si tratta quando parliamo di vita consacrata, ed è questo che dà bellezza alla vita di tanti uomini e donne che professano i consigli evangelici e seguono "più da vicino" Cristo in questo stato di vita. L’Anno della vita consacrata sarà un momento importante per "evangelizzare" la propria vocazione e testimoniare la bellezza della sequela Christi nelle molteplici forme in cui si esprime la nostra vita. I consacrati raccolgono il testimone lasciato loro dai rispettivi fondatori e fondatrici. Spinti anche dal Papa Francesco, in questo Anno vogliono «svegliare il mondo» con la loro testimonianza profetica, particolarmente con la loro presenza nelle periferie esistenziali della povertà e del pensiero.

I consacrati e le consacrate sono coscienti che, oltre a raccontare la grande storia che hanno scritto nel passato, sono chiamati a scrivere una non meno bella e grande storia nel futuro (cf. Vita Consecrata 110). Tutto questo porterà i religiosi e i consacrati a continuare il rinnovamento proposto dal Concilio, potenziando la loro relazione con il Signore, la vita fraterna in comunità, la missione, e curando una formazione adeguata alle sfide del nostro tempo, in modo da «riproporre con coraggio» e con «fedeltà dinamica» e creativa (cf. Vita Consecrata 37) l’esperienza dei loro fondatori e fondatrici.”


Lettura Patristica
Beda il Venerabile2
In Evang. Marc., 4, 13, 33-37
La vigilanza cristiana

       "State attenti! Vegliate e pregate, perché non sapete quando verrà il momento" (Mc 13,33-34).
       «È come un uomo che, partito per un lungo viaggio, ha lasciato la sua casa e ha conferito ai suoi servi l’autorità di compiere le diverse mansioni, e ordini al guardiano di vigilare. Chiaramente rivela il perché delle parole: «Riguardo poi a quel giorno o a quell’ora nessuno sa nulla, né gli angeli che sono in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre". Non giova agli apostoli saperlo affinché, stando nell’incertezza, credano con assidua attesa che stia sempre per venire quel giorno di cui ignorano il momento dell’arrivo. Inoltre non ha detto "noi non sappiamo" in quale ora verrà il Signore, ma "voi non sapete" (Mt 24,42). Coll’esempio del padrone di casa spiega con maggiore chiarezza perché taccia sul giorno della fine. Questo è quanto dice:
       "Vigilate dunque; non sapete infatti quando viene il padrone di casa, se di sera, se a mezzanotte, se al canto del gallo, se di mattina; questo affinché, venendo all’improvviso, non vi trovi a dormire (Mc 13,35-36).
       «L’uomo - che è partito per un viaggio e ha lasciato la sua casa, - non v’è dubbio che sia Cristo, il quale, ascendendo vittorioso al Padre dopo la risurrezione, ha abbandonato col suo corpo la Chiesa, che tuttavia mai è abbandonata dalla sua divina presenza poiché egli rimane in lei per tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Il luogo proprio della carne è infatti la terra, ed essa viene guidata come in un paese straniero quando è condotta e alloggiata in cielo dal nostro Redentore» (Mt 28,20).
       Egli ha dato ai suoi servi l’autorità per ogni mansione, in quanto ha donato ai suoi fedeli, con la grazia concessa dello Spirito Santo, la facoltà di compiere opere buone. Ha ordinato poi al guardiano di vegliare, in quanto ha stabilito che incombe alla categoria dei pastori e delle guide spirituali di prendersi cura con abile impegno della Chiesa loro affidata.
       "Ciò che dico a voi, lo dico a tutti: Vigilate!" (Mc 13,37).
       Non solo agli apostoli e ai loro successori, che sono le guide della Chiesa, ma anche a tutti noi ha ordinato di vigilare. Ha ordinato a tutti noi con insistenza di custodire le porte dei nostri cuori, per evitare che in essi irrompa l’antico nemico con le sue malvagie suggestioni. Ed affinché il Signore, venendo, non ci trovi addormentati, dobbiamo tutti stare assiduamente in guardia. Ciascuno infatti renderà a Dio ragione di se stesso.
       «Ma veglia chi tiene aperti gli occhi dello spirito per guardare la vera luce; veglia chi conserva bene operando ciò in cui crede; veglia chi respinge da sé le tenebre del torpore e della negligenza. Per questo Paolo dice: Vegliate giusti e non peccate; e aggiunge È ormai il momento di destarci dal sonno» (1Co 15,34 Rm 13,11).



2 Il Venerabile Beda nacque verso il 673. Dall’età di otto anni, trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow nella Northumbria in Inghilterra, dedito alla meditazione e alla spiegazione delle Scritture; tra l’osservanza della disciplina monastica e l’esercizio quotidiano del canto in chiesa. A 30 anni fu ordinato prete e divenne celebre per la sua erudizione. E’ conosciuto soprattutto per le sue opere storiche che gli valsero il titolo di Padre della Storia d'Inghilterra. Mori nel 735.








sabato 22 novembre 2014

Re di tutto e davvero nuovo

Rito Romano
XXXIV Domenica Tempo Ordinario - Anno A - Cristo Re dell’Universo, 23 novembre 2014
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

Rito Ambrosiano
2ª Domenica di Avvento
Is 51,7-12a; Sal 47; Rm 15,15-21; Mt 3,1-12

1) Re Pastore.
In questa domenica del rito romano, celebriamo Cristo Re dell’Universo1, sovrano di un Regno di misericordia, di giustizia e di pace, fondato sul dono che Lui fa di se stesso a noi sulla Croce.
Gesù non è sceso dal trono della Croce, perché è dalla Croce che lui regge, governa il Regno nuovo e felice. Dallo “scandaloso” trono il Signore Gesù ci guarda diritto e profondo negli occhi come guardò al buon ladrone ed anche a noi dice: “Oggi, ora sarai con me nel Paradiso, nel Regno eterno, nell'amore infinito”.
Il regno della Terra diventa il Regno del cielo grazie alla Croce, dalla quale ci offre il suo amore di Re Pastore, come ci indica la prima lettura presa dal libro del profeta Ezechiele.
Infatti, Ezechiele (34,11-17), deluso dai pastori d'Israele (re, sacerdoti e maestri) che pensano a se stessi anziché al gregge, sogna un pastore diverso: un pastore che non “disperde” ma “raduna”; conduce al pascolo le sue pecore e le fa riposare; va in cerca della pecora smarrita e fascia quella ferita. Sono tutti tratti che ritroviamo nei Vangeli, applicati a Gesù.
Il Cristo è il vero pastore, che cura l’interesse del suo gregge e che va in cerca di tutte le pecorelle smarrite, perché nessuna di loro può rimanere isolata dal suo amore e dal suo sguardo di bontà divina. Cristo esercita la sua regalità come buon pastore, perché la sua regalità, che oggi celebriamo, è regalità di amore e servizio, di donazione, di misericordia.

2) Re della vita.
Nella Seconda Lettura, il brano della prima lettera ai Corinzi ci aiuta a cogliere in modo sintetico il significato della solennità di Cristo Re. L’Apostolo Paolo ci parla della vera regalità di Cristo, che Egli esercita nel mistero di morte e risurrezione. Una regalità che verrà portata a pienezza, quando, dopo aver egli superata la barriera della morte corporale, farà superare tale barriera a tutta l’umanità nel giudizio universale. La morte infatti sarà per noi l’ultimo “nemico” da abbattere, mentre ora la pensiamo come un transito verso l’eternità, di cui non bisogna aver assolutamente paura, in quanto Cristo ha vinto la morte. Lui ha vinto tutto.
Quindi ispirati da Gesù, nostro amato Re e Signore dell’universo, preghiamo Dio Padre, che ha inaugurato il suo Regno di amore con la risurrezione di Cristo, perché ci renda operai appassionati e sinceri, affinché la regalità del Suo Figlio sia riconosciuta in ogni angolo della terra. Al termine dell’anno liturgico, che è tempo di santità e di perfezione nella carità, uniamoci alla preghiera del Sacerdote celebrante e con lui diciamo: “Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine”.

3) Re Giudice.
Ma è la terza lettura liturgica: il Vangelo di Matteo (25,31-46), che ci mostra maggiormente il lato più sorprendente della regalità di Gesù. La parabola del giudizio (Mt 25,31-36) è una pagina che si impone all'attenzione non solo per la forza del suo messaggio, ma anche per la suggestione della sua scenografia. Tre sono le sue parti: l'introduzione scenica che presenta la venuta gloriosa del Figlio dell'uomo, la convocazione dei popoli e la loro separazione (25,31-33); il dialogo del Re che prima parla con quelli di destra e poi con quelli di sinistra (25,34-45); infine la conclusione, che descrive l'esecuzione delle sentenze (25,46).
In questa parabola vediamo un Re Giudice che giudica con amore e con comprensione, ma anche con regole ben precise che egli stesso ha dettato per la salvezza eterna dei suoi figli. Regola fondamentale è la carità vissuta, attestata e concretizzata in comportamenti ed azioni semplici, come quelli di dare da mangiare, bere, assistere, essere vicino a chi è nel dolore, nella sofferenza, nell’emarginazione. La cosa che commuove è che Dio non ci giudicherà scorrendo l’elenco delle nostre debolezze, ma quello dei nostri gesti di bontà. Non prenderà in esame le nostre ombre, ma terrà conto dei semi di luce e di bene che abbiamo seminato. Se come Davide nel salmo del pianto e del pentimento diciamo: “Distogli il tuo sguardo dal mio peccato”, Dio esaudisce il nostro grido di dolore, ci conferma nel suo amore, e nell’ultimo giorno distoglierà il suo sguardo dal male e per sempre lo fisserà sul bene. Sul bene semplice e concreto, perché Dio ha legato la salvezza al dono di un po’ di pane, di un bicchiere d’acqua, di un vestito, di passi per visitare un povero o un ammalato. Certo, Dio non si è legato alle cose, ma al cuore che si serve delle cose. San Giovanni della Croce scrisse: “Alla fine della vita, saremo giudicati sull’amore”.
Questa è la grandezza della fede cristiana evangelica: il supremo confronto tra uomo e Dio non è il peccato ma il bene. La misura di Dio e, di conseguenza, la misura dell’uomo e quella della storia è il bene, è l’amore di Dio. Il nostro futuro, cielo e paradiso, è generato dal bene amorevole che ciascuno di noi ha donato agli innumerevoli “Lazzaro” della terra, che meritano molto di più delle briciole che domandano. Il giudizio di Dio è l’atto che dice la verità ultima dell’uomo, e per trovarla non guarderà noi, ma intorno a noi: le nostre relazioni, la porzione di poveri e di lacrime e di amori che ci è stata affidata e che ognuno deve custodire con la propria vita. Se c’è qualcosa di eterno in noi, se qualcosa di noi rimane quando non rimane più nulla, questa cosa è l’Amore.

4) Maria, Regina del Cielo e della Terra.
Tra tutte le creature dell’universo, Dio ha scelto la Vergine Maria per associarla in modo singolarissimo alla regalità del suo Figlio fatto uomo. La Madonna distribuisce regalmente e maternamente quanto ha ricevuto dal Figlio Re. Lei protegge con la sua potenza noi suoi figli acquisiti ai piedi del Trono della Croce e ci dona gioia con i suoi doni, poiché il Re ha disposto che ogni grazia passi per le sue mani di generosa, materna regina.
Ci insegni Maria a testimoniare con coraggio il Regno di Dio e ad accogliere Cristo come Re della nostra esistenza e dell’intero universo.
A questa testimonianza sono chiamate in modo speciale le vergini consacrate nel mondo. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, ai nn. 922 e 923 : “Fin dai tempi apostolici, ci furono vergini cristiane che, chiamate dal Signore a dedicarsi esclusivamente a lui in una maggiore libertà di cuore, di corpo e di spirito, hanno preso la decisione, approvata dalla Chiesa, di vivere nello stato rispettivamente di verginità o di castità perpetua « per il regno dei cieli » (Mt 19,12). «Emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, [le vergini] dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa ». Mediante questo rito solenne (Consecratio virginum), « la vergine è costituita persona consacrata » quale « segno trascendente dell'amore della Chiesa verso Cristo, immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura»”. La Vergine consacrata testimonia in modo particolarissimo la regalità di Cristo, che merita tutto, e con tutta la sua persona è annuncio di carità e segno del carattere regale della vita cristiana. Infatti coloro che custodiscono la verginità si rendono simili alla Vergine Maria. “Come da Lei è nato il Figlio, il Verbo di Dio che regge il mondo, così quelle che custodiscono la verginità generano parole efficaci che istruiscono gli altri nella virtù” (Card. Spidlik) e li reggono nella vita quotidiana.
In breve: la liturgia di oggi ci invita a contemplare la regalità di Cristo e poi ci chiede di vivere regalmente, cioè di far nostro uno stile di vita alto, nobile, solenne perché così è la carità. Come non pensare a quella piccola e fragile donna che è stata la Beata Madre Teresa di Calcutta? A lei si sono inchinati tutti i potenti della terra. La sua vita è stata quella di una regina al seguito di Cristo Re. E tutti hanno reso omaggio a questa regina senza scettri e senza corone ma resa bella da tutti i poveri che ha amato. E noi sappiamo che in ciascuno di quei poveri ha amato Gesù. Facciamo verginalmente altrettanto.


1 Questa festa è stata opportunamente collocata nell’ultima domenica dell’anno liturgico, per evidenziare che Gesù Cristo è il Signore del tempo e che in Lui trova compimento l’intero disegno della creazione e della redenzione.


Lettura Patristica
Origene, sacerdote
Venga il tuo regno
Dall'opuscolo «La preghiera» Cap. 25; PG 11, 495-499.

“Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del
Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre « membra che appartengono alla terra» ( Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria? » (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di « incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.”  


sabato 15 novembre 2014

I doni ricevuti e condivisi.

Rito Romano
XXXIII Domenica Tempo Ordinario - Anno A – 16 novembre 2014
Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

Rito Ambrosiano
1° Domenica di Avvento
Is 24, 16b-23; Sal 79; 1Cor 15,22-28; Mc 13,1-27

1) Il primo talento è l’Amore di Dio.
I “talenti”1 di cui parla Gesù nel Vangelo non sono tanto le doti o le capacità (intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, quanto il Suo Amore e i doni di grazia, forza e intelligenza, di cui ci ricolma perché assumiamo la responsabilità di figli e di fratelli
A questo riguardo Papa Francesco ci chiede: “Avete pensato a come potete mettere i vostri talenti a servizio degli altri?”, e poi ci dice: “Non sotterrate i talenti! Scommettete su ideali grandi, quegli ideali che allargano il cuore, quegli ideali di servizio che renderanno fecondi i vostri talenti. La vita non ci è data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data perché la doniamo”.
In effetti, il Papa ci ricorda che, con questa parabola dei talenti2, Gesù vuole insegnare ai discepoli (e quindi anche a noi) ad usare bene i doni che Dio fa a ogni uomo chiamandolo alla vita, consegnandogli dei talenti, e quindi, affidandogli una missione da compiere mediante i doni da far fruttare e condividere. Inoltre è una parabola, questa, con la quale il Cristo invita a non avere paura del la vita e a non aver pau ra di Dio. Lui non è un padrone eccessivamente e ingiustamente esigente, ma un Padre, che con la Sua Carità ci offre dei doni per farci vivere nella libertà e nell’amore.
Oltre al Suo amore questi sono i doni-talenti che Gesù ci offre: la Sua Parola, depositata nel Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera - il ‘Padre nostro' - che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi.
Questi talenti che Gesù ha affidato a noi, suoi amici e fratelli, si moltiplicano donandoli. È un tesoro donato per essere, investito e condiviso con tutti. Quindi, come è da stupidi pensare che i doni di Cristo siano dovuti, così è insensato rinunciare ad impiegarli, perché sarebbe un venir meno allo scopo della nostra esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: "se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre" (ibid.).

2) Un parabola incorniciata da altre due.
Nel Vangelo secondo Matteo la parabola dei talenti è preceduta da quella delle vergini sagge e seguita dalla parabola del giudizio finale sull’amore (Ho avuto fame, sete, ero nudo … e mi avete dato da mangiare, da bere a da vestirmi …), e possiamo considerala come il pilastro centrale che illumina entrambe. In primo luogo, essa proietta luce sul significato della sapienza, rappresentata dall’olio di riserva. La vera sapienza scaturisce dalla novità di un rapporto libero e creativo, che la persona umana realizza con il suo Signore. In secondo luogo, la parabola dei talenti insegna che la grazia, donata da Dio e accolta e riconosciuta dall’uomo, diventa dono per i fratelli, che si identificano con la persona stessa del Cristo. Inoltre, se si tiene presente il vangelo di Luca, questa parabola è strettamente collegata con l’episodio di Zaccheo, incontrato gratuitamente da Gesù. In questo modo la parabola mette in evidenza un fatto singolare: davanti a Dio l’uomo non solo è sempre debitore, ma è chiamato alla libertà dell’incontro con Lui, che è pura grazia. L’essere saggio e sapiente di fronte a Dio sarà allora per l’uomo l’unica possibilità di una liberazione, che diventerà dono e gratuità nell’incontro con il fratello.
Purtroppo, anche noi – a volte - stiamo di fronte a Dio come l’ultimo servo, quello che non ha fatto fruttificare il suo talento, restando chiusi nei nostri preconcetti su Dio, sulle nostre modeste idee su di Lui. Teniamo troppo alla nostra tranquillità, alla nostra routine. Il nuovo ci fa paura. Cristo ci invita ad essere suoi discepoli fiduciosi, che non hanno paura di lui e che gli stanno accanto senza timore servile. Il discepolo di Gesù deve muoversi in un rapporto di amore, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità, libertà, persino il coraggio di correre i rischi necessari.
Guardando a Colui che “ha fatto nuove tutte le cose” siamo –purtroppo- più spaventati che illuminati. Ecco allora che la parabola dei talenti stimola alla libertà e alla gratuità, che scaturisce dal riconoscimento della pura gratuità di un incontro. Questo incontro è, sì, desiderato dall’uomo, come lo fu per Zaccheo, ma è realizzato dalla bontà e dall’amore di Dio che venne a casa sua e vi portò la salvezza. Fu l’avvento di Cristo in casa di un peccatore pentito.
 
3) Venuta = Avvento.
  Tutti i cristiani latini fanno coincidere l’avvento con il periodo di 4, per il rito romano, oppure di 6 settimane per il rito ambrosiano, ma molti ignorano l’origine della parola “avvento” e alcune “curiosità” storiche che questo termine porta con sé e che vale la pena ricordare.
Cominciamo dalla parola “Avvento”, che deriva dal latino, e che letteralmente significa “arrivo”, “venuta”. La usavano i sovrani dell’epoca antica, soprattutto in Oriente, per indicare il rituale con il quale volevano che fosse celebrato il loro arrivo solenne (appunto, il loro “avvento”) in una città, e pretendevano di essere accolti come benefattori e divinità. Quella della Liturgia cristiana fu dunque una scelta coerente alla mentalità dei tempi antichi, quando volle usare questo termine per indicare la “venuta” di Gesù Cristo, vero donatore di salvezza e redenzione, in mezzo agli uomini, nella grande città di questo mondo,
Il vero “avvento” dunque, quello in senso proprio, di per sé coinciderebbe con la festa di Natale, che è il giorno in cui si festeggia la venuta di Qualcuno e non qualcosa. Poi la parola avvento si allargò a indicare il periodo di preparazione alla festa del 25 dicembre. Di conseguenza ci si pose questo problema: quanto deve durare la preparazione al Natale? La soluzione più antica, che il rito ambrosiano ha conservato fino a oggi, fu quella di “costruire” il periodo di preparazione al Natale su imitazione del periodo di preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima. E dunque, come la Quaresima è scandita su sei domeniche, così anche l’Avvento venne “costruito” su sei domeniche3.
Domeniche destinate a tener viva la vigilanza dell’attesa, perché Cristo non ci trovi indolenti e pigri e il demonio ci derubi di questo tesoro. Domeniche in cui ci è ricordato che aver fede significa far fruttare il talento, che è stata posto nelle nostre mani.

4) Chi ama vive nell’attesa vigile.
Per accogliere e custodire la presenza di Cristo in noi occorre la vigilanza del cuore, che il cristiano è chiamato ad esercitare sempre, nella vita di tutti i giorni, caratterizzata in particolare nel tempo di Avvento in cui ci prepariamo con gioia al mistero del Natale.
L’ambiente esterno propone i consueti messaggi di tipo commerciale, anche se –forse- in tono minore a causa della crisi economica. Il cristiano è invitato a vivere l’Avvento come tempo dell’attesa senza lasciarsi distrarre dalle luci dei negozi e dei supermercati, ma di guardare -con gli occhi del cuore- Cristo, vera Luce.
Infatti se perseveriamo “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode” (Prefazio I domenica di Avvento), i nostri occhi saranno in grado di riconoscere in Lui la vera luce del mondo, che viene a rischiarare le nostre tenebre.
La Vergine Maria ci è maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio. Sull’esempio della nostra Madre Celeste le vergini consacrate testimoniano quotidianamente come vivere questa attesa mostrando che il talento più grande è l’Amore di Dio, il suo Regno e la sua giustizia.
La vergine è la persona in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi completamente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni alla chiesa nella piena verità della vita eterna. La persona vergine anticipa nella sua carne il mondo nuovo della risurrezione e testimonia nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e impoverimento. (cfr S. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n 16)
Le vergini consacrate nel mondo sono, infine chiamate a testimoniare che il fatto di essere perseveranti e “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode” (Prefazio I domenica di Avvento), permette ai nostri occhi di essere in grado di riconoscere in Cristo la vera luce del mondo, che viene a rischiarare le nostre tenebre.
Il compito delle vergini consacrate è quello un costruire la vita sulla roccia di un Signore amato, ascoltato e atteso (cfr Mt 7,24-25).

1 Il talento non era una moneta, ma una unità di conto. Non si poteva coniare una moneta di quasi 27 chilogrammi! Indicava, in ogni caso, un valore molto grande, come enorme è il tesoro lasciatoci da Gesù. In effetti, un talento, valeva 60 mine e 6000 dracme. La dracma era parificata al denaro (che era la moneta del tempo) e un lavoratore non qualificato prendeva circa un denaro al giorno. La Misna dice che il minimo per una famiglia era 200 denari al giorno. Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere 30 anni.

2 Nella celebre parabola dei talenti riportata dall’evangelista San Matteo (cfr 25,14-30), Gesù racconta di tre servi ai quali, al momento di partire per un lungo viaggio, il padrone affida i propri soldi. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i talenti ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre apprezza quanto hanno fatto i primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto di come avesse “gestito” il dono ricevuto.

3 E quest’anno il 16 novembre è esattamente la sesta domenica prima di Natale: per l’appunto l’inizio dell’avvento ambrosiano. In epoca più recente il rito romano abbreviò questo periodo a “sole” quattro domeniche: ed ecco spiegata la differenza di calendario e la dicitura “avvento romano” per il giorno 30 novembre.


Lettura Patristica
San Girolamo
In Matth. IV, 22, 14-30


1. La simbologia dei talenti

       Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.

       "Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque" (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.

       "Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.

       "Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone" (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.

       "Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»" (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?

       "E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone - nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?

       "Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.

       "Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: "La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte" (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: "Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.

       "Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere" (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.
       "E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

venerdì 7 novembre 2014

La Chiesa, luogo dove si celebra la risposta all’amore e all’alleanza di Dio.

Rito Romano
Dedicazione della Basilica Lateranense
Ez 47, 1-2.8-9.12; Sal 45; 1Cor 3,9-11.16-17; Gv 2, 13-22

Rito Ambrosiano
Ultima Domenica dell’Anno Liturgico - Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
2 Sam 7,1-6.8-9.12-14a.16-17; Sal 44; Col 1,9b-14; Gv 18,33c-37

          1) La Chiesa è casa nostra
    Oggi si sarebbe dovuta celebrare la XXXII Domenica del Tempo ordinario. Poiché, quest’anno (2014), la domenica cade il 9 novembre1, la Liturgia ci chiede di solennizzare la dedicazione della chiesa-madre di Roma, la Basilica Lateranense, consacrata inizialmente al Santissimo Salvatore e in seguito anche ai santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista.
Le letture della Messa di oggi ci aiutano a cercare un rapporto vero e profondo di amore con il Signore, che si fa incontrare nelle chiese-templi di pietra, dedicati all’incontro con Lui, e specialmente in Cristo “Tempio del Dio vivente” e nella Chiesa edificata da noi. Tuttavia, prima di riflettere brevemente su tali testi, credo sia utile farsi questa domanda: “Perché è importante per i cristiani celebrare la dedicazione di una chiesa e l’esistenza stessa della chiesa, intesa come luogo di culto?” Per rispondere prendo spunto da queste parole del Vangelo: “È venuto il momento, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori”.
Però, queste parole fanno sorgere altre domande, quali: “A che titolo, allora, noi cristiani diamo tanta importanza alla chiesa di pietra, se ognuno di noi può adorare il Padre in spirito e verità nel proprio cuore, o nella sua casa? Perché questo obbligo di andare in chiesa ogni domenica?”.
La risposta è che Gesù Cristo non ci salva separatamente gli uni dagli altri. Lui è venuto a formarsi un popolo, una comunità di persone, che sono in comunione con Lui e tra di loro.
In effetti, è da tener presente che da sempre l’uomo religioso ha cercato in tutti i modi rendere presente e visibile la divinità, anche quando la fede affermava che si trattava di un Dio invisibile ed inaccessibile alle umane facoltà. Il Popolo eletto, per volere divino, costruì il famoso tempio di Gerusalemme per dare una dimora a Dio, godere della sua presenza e testimoniare la reciproca fedeltà all'alleanza. Nella cristianità, la chiesa di mura, quale nuovo tempio del Dio tra noi, ha assunto un significato più profondo: è il luogo, dove i fedeli celebrano, in comunione di fede, i divini misteri. E’ il luogo, dove Dio stesso si rende presente in mezzo a noi per intessere un dialogo perenne con noi, suoi figli, e dove, sotto le specie eucaristiche, ci nutre con il suo corpo e il suo sangue. È il luogo dove i misteri divini si svelano nelle celebrazioni liturgiche e dove la chiesa come edificio rende visibile la Chiesa vera, quella intesa come comunione di fedeli che, in Cristo, sperimentano la fraternità. È perciò anche il luogo della festa, che trova la più alta espressione nella celebrazione eucaristica, memoriale della morte e risurrezione del Signore.
Fin dalle prime lezioni di catechismo abbiamo imparato che con il battesimo ognuno di noi è diventato tempio di Dio e che Gesù ha insegnato che il tempio di Dio è, innanzitutto, il cuore dell'uomo che ha accolto la sua parola. Riferendosi a sé e al Padre suo celeste disse di ogni credente cristiano: “Noi verremo in lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23) e San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: “Non sapete che voi siete il tempio di Dio?” (1 Cor 3, 16). Se, dunque, il tempio di Dio è il credente, non va dimenticato che il luogo della presenza di Dio e di Cristo è anche quello, “dove due o più sono riuniti nel suo nome” (Mt 18, 20). Dal Concilio Vaticano II la famiglia cristiana è chiamata “chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), cioè divino tempio di famiglia, proprio perché, grazie al sacramento del matrimonio, essa è, per eccellenza, il luogo in cui “due o più” sono riuniti nel suo nome e lì c’è Lui.

2) La Chiesa luogo di una Presenza.

        Ormai il “luogo” nuovo in cui adorare il Padre è il corpo del Cristo risorto. Già l’accennava Gesù stesso nella discussione con i giudei, offesi grandemente per aver scacciato dal tempio i venditori di animali e cambiavalute. Come si legge nel Vangelo di oggi, gli Ebrei chiedevano un segno che spiegasse perché il Messia avesse fatto quel gesto così violento. E Gesù rispose con un segno profetico: “Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo, così ricordarono i discepoli dopo la sua risurrezione. Nel colloquio con la donna samaritana riaffiora il medesimo concetto. Alla domanda dove si doveva adorare Dio: sul monte Garizim o in Gerusalemme, Gesù, pur sapendo che la salvezza verrà dai giudei, si mette al di sopra di quelle questioni. Il luogo in cui l’uomo può entrare in contatto con Dio non è il monte Sion a Gerusalemme in Giudea, né il monte Garizim in Samaria, ma la persona di Gesù, che ha dedicato il suo Corpo sulla Croce e da allora ogni altare è monte sacrificale. “E’ giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (cfr. Vangelo di oggi). Dio è Spirito e Vita, come è Amore e Luce. I suoi adoratori non si prostrano con sacrifici di sangue e di animali bruciati (olocausti), ma si elevano a lui in Spirito, come figli amati che sanno amare. 
 
         3) Festa di Cristo e nostra. 

              Quella di oggi è una festa del Figlio di Dio che si è fatto uomo, ha messo la sua tenda – il suo corpo - tra noi. Le Chiese di pietra sono un segno di questa sua presenza: è lui che ci parla, dà se stesso in cibo, presiede la comunità raccolta in preghiera. Nella festa della dedicazione della Basilica Lateranense, ogni comunità locale, oltre a esprimere la propria comunione con la Sede di Pietro, ricorda e celebra anche la dedicazione della propria chiesa locale, piccola o grande che sia. Gesù insegna che il tempio di Dio è, innanzitutto, il cuore dell'uomo che accoglie la sua Parola. E ogni qual volta questa Parola sarà accolta, dice Gesù: “Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Dunque, non è una festa strana quella di oggi, anche se sembra onorare delle “mura” antiche e importanti, quelle della Basilica di San Giovanni in Laterano, mentre le letture della Messa ci invitano a spostare l’attenzione sul loro significato simbolico. Certo, questa festa ci ricorda il valore simbolico di questa particolare Cattedrale, che ci rimanda alla Cattedra di Pietro e dei suoi successori, i Papi, come punto di riferimento e garanti dell’unità della fede. Tuttavia oggi celebriamo, soprattutto, la Chiesa quale edificio spirituale, di cui, come ci ricorda San Paolo nella seconda lettura, siamo noi le pietre vive, costruite sopra il fondamento che è Cristo.
“Se casa di Dio siamo noi stessi, noi veniamo edificati in questa vita per essere dedicati alla fine del tempo. L’edificio o, meglio, la costruzione comporta fatica, la dedicazione è motivo di gioia. Quello che si è verificato mentre la chiesa veniva costruita, avviene ora che i credenti si sono radunati in Cristo. Come dal legno dei boschi e dalla pietre dei monti è nata la chiesa, dal battesimo e dalla catechesi le pietre vive sono state sgrossate, squadrate, levigata quasi trovandosi in mani di muratori e di artigiani” (S. Agostino, Serm. 336, In dedicatione Ecclesiae).
Le Vergine consacrate nel mondo vivono con particolare intensità questa dedicazione, offrendosi corpo e anima completamente a Cristo sull’esempio della Vergine Maria, Madre della Chiesa. La Madonna fu la prima tenda del Verbo di Dio, colei che, per prima e in modo unico, diede corpo al Corpo di Cristo. Suggerisco quindi di chiedere a Maria Santissima di poter custodire fedelmente nel nostro cuore Colui Che lei custodì anche sotto il suo cuore. La nostra preghiera alla Madonna e l’esempio delle Vergini consacrate ci aiuterà ad abbandonarci allo Spirito, perché soltanto nell’abbandono allo Spirito Santo si compie il mistero di questo prolungamento dell'Incarnazione che è la vita cristiana, di questo prolungamento di Incarnazione divina, che è il mistero stesso della Chiesa e della santità di ciascuno di noi.


1 Oggi, la liturgia celebra la ‘Dedicazione della Basilica Lateranense’, costruita dall'imperatore Costantino, sul colle Laterano e, a quanto risulta, questa festa, già dal XII secolo era celebrata il 9 novembre. Inizialmente fu una festa solo della città di Roma. In seguito la celebrazione fu estesa a tutte le Chiese dell'Urbe e dell'Orbe, come segno di comunione e di unità verso la cattedra di Pietro che, secondo S. Ignazio di Antiochia, ‘presiede a tutta l'assemblea della carità’ e, secondo S. Clemente di Alessandria, ‘presiede alla verità’.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354-430)
DISCORSO 337
NELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA

La costruzione della Chiesa va assai apprezzata al motivo di fede e di carità di chi la realizza.
1. Questo vede la fede, che ha nel cuore l'occhio della pietà religiosa: come si ripongono nei tesori del cielo le opere buone dei fedeli, realizzate con le loro sostanze temporali e terrene. Con esse, anche questi edifici, costruiti per accogliere le assemblee religiose, quando la fede li avrà osservati con l'occhio del corpo, si compiace intimamente di ciò che scorge all'esterno e, dalla luce visibile, riceve di che rallegrarsi della verità invisibile. La fede infatti non si preoccupa di esaminare quale sia la bellezza degli elementi di questo edificio, ma da quale esuberante bellezza dell'uomo interiore vengano in luce queste opere di misericordia. Il Signore perciò ricompenserà i suoi fedeli che realizzano tali opere in tanto fervore religioso, così piacevolmente e con devozione sincera, in modo da compaginarli, essi stessi, nella struttura della propria costruzione; ad essa concorrono, quali pietre vive, cui ha dato forma la fede, consistenza la speranza, compattezza la carità. L'Apostolo, da sapiente architetto, vi ha posto a fondamento Cristo Gesù 1, egli stesso sceltissima pietra angolare, come rievoca anche Pietro dagli scritti dei Profeti, scartata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio. Con l'aderire fortemente ad essa, ci viene comunicata la pace; saldamente appoggiati su di essa, passa in noi una corrente di forza. Egli è, ad un tempo, pietra di fondamento - perché a sorreggerci è lui - e pietra d'angolo, quale principio di connessione in unità. Egli è pure quella pietra, sulla quale, costruendo la sua casa, l'uomo prudente resiste, nella massima sicurezza, contro tutte le tentazioni di questa vita: né con l'irrompere di pioggia torrenziale viene rimossa, né è travolta dallo straripare delle acque, né la sua stabilità risente della violenza dei venti. Egli è - anche - la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo; in lui infatti non è la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura. Infatti questi due popoli sono simili a muri che avanzano in direzione opposta da una grande, reciproca distanza iniziale, finché, convergendo verso di lui, come verso un angolo, pure in lui si congiungono l'uno all'altro.

La costruzione nella fatica, la dedicazione nella gioia.
2. Pertanto, come questo edificio visibile è stato costruito per radunarci materialmente, così quell'edificio, che siamo noi stessi, è costruito per Dio che vi abiterà spiritualmente. Dice l'Apostolo: Santo è infatti il tempio di Dio che siete voi. A quel modo che costruiamo questo con ammassi di pietre, edificheremo quello mediante atteggiamenti di vita che vi corrispondano adeguatamente. Questo si dedica ora, nel corso di questa nostra visita, quello sarà dedicato alla fine del tempo con la venuta del Signore, quando questo nostro, corruttibile, si vestirà di incorruttibilità, e questo nostro, mortale, si vestirà di immortalità: conformerà infatti il corpo della nostra umiliazione al suo corpo glorioso. Considerate infatti il senso che vuole esprimere nel Salmo della dedicazione: Hai mutato il mio lamento in festa per me; hai lacerato la mia veste di sacco, mi hai rivestito di un abito di gioia: perché la mia gioia sia per te un canto, ed io non sia ferito. Infatti, mentre veniamo edificati, la nostra miseria rivolge a lui i suoi gemiti; ma quando saremo dedicati, la nostra gloria sarà un canto per lui: in realtà la costruzione comporta fatica, la dedicazione apporta letizia. Finché si cavano le pietre dai monti e gli alberi dai boschi, si dà loro forma, si sgrossano, si combinano insieme, è fatica e preoccupazione; ma quando si celebra la dedicazione dell'edificio compiutamente realizzato, al posto delle fatiche e delle preoccupazioni, c'è gioia e sicurezza. Così pure quanto alla costruzione spirituale: chi l'inabita, Dio, non sarà presente per qualche tempo, ma per l'eternità. Mentre gli uomini sono allontanati da una vita di infedeltà e portati alla fede, mentre viene reciso e portato via tutto ciò che in essi è l'opposto del bene e perversione, mentre si fanno connessure appropriate, senza attrito e con devozione, quante tentazioni non si temono, quante tribolazioni non si tollerano? Però, al sopraggiungere del giorno della dedicazione del tempio dell'eternità, quando ci si dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, quale mai sarà l'esultanza, quale la perfetta sicurezza? Sarà il canto della gloria, la debolezza non si sentirà ferita. Quando ci si rivelerà colui che ci ha amato e ha dato se stesso per noi, quando colui che si mostrò agli uomini in quel che si fece nella Madre, si manifesterà loro Dio Creatore secondo quel che era nel Padre, quando egli, eternamente presente nella sua casa, all'entrarvi la troverà perfetta, adorna, costituita nell'unità, nella veste dell'immortalità, colmerà di sé tutte le cose e in tutte risplenderà, così che Dio sia tutto in tutti.
Il desiderio di abitare nella casa di Dio; quanti vi abitano sono tempio di Dio.
3. Un uomo chiese al Signore soltanto una visione; quest'uomo appunto, se vogliamo, siamo noi. Fu stremato dal suo gemere per il desiderio di essa, per questo, ogni notte, inondò di pianto il suo letto e irrorò di lacrime il suo cuscino. A motivo di essa, infatti, le lacrime furono il suo pane giorno e notte, mentre di giorno in giorno gli si dice: Dov'è il tuo Dio? Egli stesso affermò: Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco, abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed esser protetto quale suo tempio. Per i suoi, egli che inabita, essi, la dimora. Infatti quanti abitano nella casa di Dio sono al tempo stesso dimora di Dio, che gusta la dolcezza di lui, ed è al riparo quale suo tempio e nascosto nel segreto del suo volto. Abbiamo questa speranza, non vediamo ancora la realtà. Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza, e con la perseveranza siamo edificati come tempio.