Rito romano
XXX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2013
Sir 35,
15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Rito
ambrosiano
I
Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At
13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20
1)
La preghiera deve essere umile.
La
Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato che la
preghiera per essere vera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e
costante. Oggi la stessa Liturgia completa l’insegnamento,
sottolineando che la preghiera è vera quando è umile.
Nell’introduzione
al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La
preghiera deve essere umile perché Dio “si
volge alla preghiera dell'umile
e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la
parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di
Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei
derelitti” (Gdt 9,11).
E questa umiltà è osservata nel Padre
nostro. Infatti, si
ha vera umiltà quando uno
non presume assolutamente nelle proprie forze, ma
aspetta tutto dalla potenza divina
alla quale si rivolge supplichevole”.
Per
pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e
avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è
vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti,
riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia"
(Sal 33/34, 19 e 23).
Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola
evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc
18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della
preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate
dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si
riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che
diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come”
viviamo il nostro rapporto con Dio.
Di
conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera
non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra
relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di
raccoglimento dicendo: “Signore,
prima di parlare con me, perdonami”
(Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona
ambrosiana).
Esaminiamo
ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
Iniziamo
dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero
praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della
sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta
dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un
giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
Però
Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché?
Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere
accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro
della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non
attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono
gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il
dovere compiuto. Dice: «O
Dio, ti ringrazio» e
Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante,
facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di
fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è
Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto
abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti
ringrazio» detto all'inizio non prega: non guarda a Dio, non si
confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si
concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli
duramente. In questo suo atteggiamento non c'è nulla della
preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Passiamo
ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al
tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l'opposto di
quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O
Dio, abbi pietà di me peccatore»1
(Lc
18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei
romani invasori e pagani, ed è esoso nell'esigere le tasse. E’
certamente un peccatore, ma è consapevole di esserlo, si sente
bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere
nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere.
Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha
il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende
la misericordia.
La conclusione è chiara e
semplice: l'unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella
preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi
costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere
buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è
il caso di fare confronti con gli altri.
2)
Il perdono ricrea
Dunque, il pubblicano “tornò
a casa sua giustificato”.
Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non
si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una
porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo
peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con
il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come
quello di un bambino.
Come Dio ha reso “giusto” il
pubblicano peccatore, Egli è “propizio” a noi quali peccatori
sinceramente pentiti, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi
nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita
di fede.
Il fariseo è condannato.
Perché? Perché disse “non
sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini”
– e fin qui la genericità non offende nessuno - ma proseguì “o
anche come questo Pubblicano”
(Lc
18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino,
nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva
detto: “Misericordia
voglio più che sacrificio”
(Os
6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate
e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio”
(Mt
9,13) e insistito: “Se
voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che
sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti”
(Mt
12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del
fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque
si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato
(Lc
18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi
che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc
14, 11).
Imitiamo Cristo che non esaltò
se stesso anzi si “svuotò” la sua Divinità nella più abbietta
umiliazione, quella della croce. Per questo Dio l'ha esaltato sopra
ogni altro nome (cfr. Fil
2.)
Le Vergini consacrate sono
chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella
preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo
particolare l’invito del Salvatore: «Imparate da me che sono mite
e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt
11, 29). “E
se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è
chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il
suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía
oppure metriótês.
Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo
stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si
gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo»
- il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -;
l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella
condanna del diavolo» (I
Tm 3, 6).«Ha
guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice
Maria - perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza
e del nascondimento”. (Origene,
Omelie sul Vangelo di
Luca, VIII, 5-6).
Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo
particolare lo spirito della Vergine Maria e “se
secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede
tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il
Verbo di Dio”
(Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2,
26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù
nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi
doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda”
(Rituale di
Consacrazione delle Vergini,
n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita
ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra
vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo
nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel
mondo intero.
1
Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La
formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono
dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più,
perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente.
Inoltre lui sa che le parole a nulla servirebbero. Si rimette
semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui
scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole,
tutto perdona: tutti riconcilia.
Lettura
spirituale
Card.
John-Henri Newman
Umiltà
di spirito e santità
estratto
dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind,
1856 SVO, 2, 15-29
Le
parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore
» (Lc, 18,
13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica
della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme
di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e
in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di
una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono
non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati
al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli
della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di
espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la
particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della
fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si
connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti
esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed
altro non possono essere che creature redente, peccatori
riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati
è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo
l’estatica, aperta confessione.
È
una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o
di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente
comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto
mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello
spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica
né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da
sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati
delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel
sangue dell’Agnello (Ap.,
7, 14), mai non dimenticano la
propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e
della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto
grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le
hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma
essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi
continuano a parlare solo delle proprie infedeltà. I giovani
senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha
peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi
volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica
supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa
profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei
servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto
a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt.,
9, 13), lo riconosce e lo
conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato
e chi si umilia sarà esaltato » (Lc,
18, 14).
Siamo,
lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della
colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle
antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel
mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo
singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli
stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In
taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di
chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una
funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza
alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze
in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che
sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di
perfezione proprio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è
alcun giusto, neppure uno » (Rom.,
3, 10) - « Tutti hanno
peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom.,
3, 23) - « Egli ci salvò non
per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia »
(Tt., 3,
5) - insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie
hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono
anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti
poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e
lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad
una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e
immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti
sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo
assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè
alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e
l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.
Il fariseo era rigido nel corpo e nello spirito, il pubblicano flesso nella postura corporale e nell'anima.
RispondiEliminaIl fariseo parlava a se, il pubblicano a Dio.
Il Dio del fariseo era interno, quello del pubblicano esterno.
Il fariseo pensava di possedere Dio, il pubblicano no.
Il criterio di giudizio del fariseo era se stesso, quello del pubblicano era Dio.
Il fariseo giudicava gli altri in generale e nel particolare il pubblicano, il pubblicano esaminava se stesso.
Il fariseo stava nei primi posti, il pubblicano negli ultimi.
Il fariseo elencava meriti inesistenti, il pubblicano si riconosceva peccatore.
Il fariseo si esaltava, il pubblicano si umiliava.
Il fariseo non tornò giustificato, il pubblicano sì.
Entrambi tornarono a casa con convinzioni errate: il fariseo di essere a posto, il pubblicano di non aver ottenuto il perdono.
Ambedue ottengono quello che chiedono: il fariseo è confermato nella diversità rispetto al pubblicano, (qui risiede l’aspetto ricorsivo), l’esattore delle tasse è perdonato delle proprie colpe.
Cfr. Ebook di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.