Rito romano
XXIX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 20 ottobre 2013
Es 17,
8-13a; Sal 120; 2 Tm 3, 14 - 4, 2; Lc 18, 1-8
La
preghiera deve essere insistente e costante
Rito
ambrosiano
Dedicazione
del Duomo di Milano,
Is
60,11-21; Sal 117; Eb 15-17.20-21; Lc 6,43-48
Uno
abita dove è amato.
1)
La preghiera deve essere insistente.
Nella
prima lettura e nel vangelo di oggi ci sono presentate due persone
che “usano” la preghiera1:
Mosè che fa vincere la battaglia agli ebrei e ottiene da Dio
giustizia contro i nemici, perché prega insistentemente tenendo le
mani alzate, e la vedova che con la sua insistente costanza ottiene
da un giudice ingiusto che le faccia giustizia.
Il brano evangelico di oggi ci
parla del Messia, il quale per dare un insegnamento sulla preghiera
si serve della figura di una donna vedova, che per la mentalità del
tempo è quasi un'emarginata. In effetti, nella Bibbia si difendono
“gli orfani2
e le vedove3”,
perché sono le persone più deboli e vulnerabili, le più esposte ad
ogni prepotenza, ad ogni ingiustizia: le più indifese. Gesù
valorizza questa povertà e racconta di questa donna indifesa, che da
tempo soffre delle ingiustizie, ma non si scoraggia e affronta un
giudice arrogante, uno di quelli che il grande profeta Isaia
stigmatizzava così: “Guai
a coloro che fanno decreti iniqui, e scrivono in fretta sentenze
oppressive, per negare la giustizia ai miseri, e per frodare il
diritto dei poveri, per far delle vedove la loro preda, e spogliare
gli orfani...”
(Is.10,1-2).
Con
stupefacente ostinazione la voce della vedova si leva contro
l’arroganza di questo magistrato: “Fammi
giustizia contro il mio avversario”
(Lc
18,3).
Nelle
parole della donna c'è una straordinaria forza di un’“orante”
che vuole raggiungere lo scopo a tutti i costi; c'è un'insistenza
che sembra importuna, fastidiosa, ma è il segno di una speranza che
non muore: è la profonda certezza che, prima o poi, la sua supplica
verrà esaudita. E così accade, infatti il giudice iniquo dice:
“Anche se non temo
Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto
fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a
importunarmi” (Lc
18, 5).
Se
un uomo ingiusto esaudisce una preghiera insistente, infinitamente di
più la preghiera instancabile e tenace sarà esaudita da Dio, il
Giudice giusto.
Dunque,
per la nostra preghiera, Gesù è interlocutore, amico, testimone e
maestro. Lui ci insegna a pregare, non
solo con la preghiera
del ‘Padre nostro’, ma
anche quando Lui
stesso, oltre al contenuto, ci mostra le disposizioni richieste per
una vera preghiera. Questi atteggiamenti sono:
“La purezza del cuore, che cerca il Regno e perdona i nemici; la
fiducia audace e filiale, che va al di là di ciò che sentiamo e
comprendiamo; la vigilanza, che protegge il discepolo dalla
tentazione”
(Compendio del
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 544). Oggi il Cristo aggiunge un’altra disposizione:
l’insistenza, e
chiede una cosa apparentemente impossibile: quella di pregare sempre.
San
Tommaso d’Aquino insegna che per ottenere con certezza quello che
ciascuno domanda con la preghiera “si
richiede il concorso di queste quattro condizioni: 1- che preghi per
se stesso, 2- che chieda cose necessarie per salvarsi, e lo faccia 3-
con pietà e 4- con perseveranza”4.
2)
La preghiera deve essere fatta sempre.
In
effetti, l’insegnamento a pregare con perseverante insistenza è
abbastanza facile da capire ed da mettere in pratica, ma
l’affermazione all’inizio del vangelo di oggi “Bisogna
pregare sempre, senza stancarsi5
mai”(Lc
18,1), senza scoraggiarsi, non solo sembra difficile, pare
impraticabile. Poiché è Gesù stesso a dirlo, noi osiamo dire che
ci impossibile mettere in pratica questa indicazione, perché la
nostra attenzione non riesce a concentrarsi a lungo in un'azione6
così alta come la preghiera.
C'è
un salmo che, più di altri, ci aiuta a capire sostanzialmente cosa
sia pregare sempre:
è il salmo, in cui l'orante è presentato come un bambino che
“compie l’azione” di stare tra le braccia della madre: “Io
sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l'anima mia. Speri Israele nel Signore, ora
e sempre”
(Sal
130 (131), 2-3). Questo bambino è l'uomo di preghiera, cioè l'uomo
che spera sempre nel Signore, come un bambino spera sempre in suo
padre ed in sua madre.
E il paragone biblico del bambino è
perfetto perché la preghiera, pur essendo l'azione più alta e
sublime, è anche la più semplice; anzi, nel pensiero del Salmista,
essa è la più naturale, come è naturale che un bimbo ancora
piccolo, tra le braccia della madre, contempli sempre e per prima
cosa il volto di lei che lo rassicura, e avverta attorno a sé quelle
braccia, che lo accolgono, lo proteggono, gli danno fiducia e gli
trasmettono amore.
La
preghiera semplice e fiduciosa è la certezza che lo sguardo di Dio è
su di noi, come quello di nostra madre. Pregare è fare esperienza
dell'amore di Dio, che ci avvolge come le braccia di chi ci ha messi
al mondo, che ci tiene per mano e ci guida anche quando ci sembra di
essere soli.
Al
nostro gesto di preghiera Dio risponde con il suo amore. Lui ci
prende in braccio teneramente, quando cresciamo, ci prende per mano,
quando cadiamo ci risolleva e ci mette sulle sue spalle, quando
sembra che i flutti della vita ci sommergano, lui ci tende la mando e
ci salva dalla morte. Come ricorda oggi il Salmista: “Non
lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode,
perché non prende sonno il custode di Israele... Il Signore è il
tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra... Il
Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita...”
(Sal
120 (121) 3).
La
preghiera è come respiro della vita ed esprime la certezza
indubitabile che Dio è con noi, che Dio è per noi e noi siamo la
creatura a lui più cara. Quindi la preghiera va fatta sempre,
costantemente.
All’obiezione
che è impossibile pregare sempre, risponderei non con un discorso,
ma con il consiglio di non essere avari nel dare tempo a Dio. Più si
prega e più si rimarrà nella preghiera.
A
chi le chiedeva come imparare a pregare Madre Teresa rispondeva:
“Pregando”.
Per Padre Pio da Pietrelcina “pregare
sempre”
era diventato “Rosari
sempre”,
cioè Maria sempre nella sua vita. Don Luigi Giussani spiegava il
“pregare
sempre”
con l’affermazione “pregate
più che potete”.
Il Beato Stefan, maronita fratello laico, visse ripetendo a sé e
agli altri “Dio
ti vede”:
cioè si santificò, vivendo costantemente nella consapevole certezza
che Dio ha sempre il suo sguardo di amore su ciascuno essere umano.
Nella tradizione
delle Chiese d’Oriente come preghiera incessante è quella usata
particolarmente nel movimento monastico esicasta7,
che è una preghiera strettamente legata alla preghiera del cuore, è
chiamata la preghiera di Gesù e consiste nel dire il più
frequentemente possibile “Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore”.
Questo modo di pregare usando la preghiera “Signore Gesù Cristo,
Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore” come giaculatoria così
frequente da farla coincidere con il respiro del corpo è
particolarmente pratico ed è, secondo la teologia spirituale
orientale, necessario e addirittura indispensabile per l’efficacia
della preghiera: esso è alla portata di tutti i cristiani che vivono
con pietà e cercano la salvezza, siano essi monaci o laici.
La
preghiera è un rapporto. Pregare vuol dire rivolgersi a qualcuno; è
vivere questo rapporto, un rapporto che diventa sempre più grande,
più intimo e più vero, così da trasformarci in Colui che
preghiamo, così da divenire una sola cosa col Cristo.
A
questo sono chiamate le Vergini consacrate come il Vescovo prega su
di loro durante la preghiera di consacrazione: “Che
brucino di carità e non amino niente al di fuori di Te … In Te
possiedano tutto perché è Te che loro preferiscono a tutto”
(Rito della
consacrazione delle Vergini,
n. 24). Queste donne sono chiamate a dare testimonianza di fedeltà
alla preghiera personale e liturgica perché non ci si lasci prendere
dall'attivismo vorticoso.
Con
l’esempio di
una preghiera non saltuaria, ma costante, piena di fiducia in
Dio-Amore “che
ci concede quello che ci fa chiedere”
(cfr Sant’Anselmo), le Vergini consacrate comunicano alle persone
che stanno loro vicine, a coloro che incontrano in parrocchia o sul
lavoro, la gioia dell’incontro costante con il Signore, luce per
l’esistenza del mondo intero.
Con
la fedeltà alla via della preghiera queste persone consacrate
aiutano anche gli altri a percorrerla: anche per la preghiera
cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini di verità e
amore infiniti, il cui vertice è il rapporto di comunione che si fa
preghiera.
1
Si veda la voce preghiera
nel Dizionario
critico di Teologia
(Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la
direzione di Jean-Yves Lacoste.
2
dal greco ὀρϕανός
(orphanòs), dal latino
ŏrphănus,
,affine all'etimologia
del latino orbus
cioè "privo",
colui a cui sono rapiti i genitori dalla morte, quindi indica il
bambino senza
famiglia, un piccolo essere che non è di nessuno e di cui nessuno
si cura.
3
Dal latino viduus/a
che
propriamente vuol dire “privo”, quindi essere
vuoto, mancare di qualcosa o di qualcuno.
Anche il termine greco χῆρος, -α, -ον [chéros] vuol dire
“privo, vuoto, mancante” e quindi senza marito o moglie.
Pertanto “vedova” vorrebbe dire “è senza”, cioè manca
della sua parte. Ora siccome la sposa è tale se ha lo sposo, senza
sposo è ciò che è niente, la vedova è senza ciò che la farebbe
essere ciò che è: “sposa”.
4
Summa Theologica, IIa-IIae, q. 83, a 15 ad 2.
5
Nel testo greco c’è ἐγκακεῖν (egkakeìn),
vuol dire essere
completamente abbattuto, sfinito, esausto,
quindi mè
egkakeìn
è tradotto senza
stancarsi
in italiano e senza
scoraggiarsi
in francese, ma si potrebbe tradurre letteralmente “senza perdersi
d’animo”.
6
Ho scritto azione e non discorso, perché la preghiera non è un
puro e semplice parlare, è un lavoro (cfr Divo Barsotti, Preghiera
lavoro del cristiano,
Milano 2005, pp . 144).
7
Gli
esicasti praticano la cosiddetta preghiera
di Gesù
o preghiera
del cuore,
che consiste nella ripetizione incessante della questa formula, fino
a farla coincidere con il ritmo del respiro:
“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me
peccatore”.
A condizione che ci si metta al riparo dalle distrazioni e che si
custodisca la pace dell’anima, questa pratica permette di
avvicinarsi a Dio e di unirsi a Lui.
L’esicasmo
(dal greco
ἡσυχασμός hesychasmos,
da ἡσυχία hesychia,
calma,
pace, tranquillità, assenza di preoccupazione)
è una dottrina
e pratica ascetica
diffusa tra i monaci
dell'Oriente
cristiano
fin dai tempi dei Padri
del deserto (IV secolo). Scopo dell'esicasmo è la ricerca della
pace interiore, in unione con Dio
e in armonia con il creato. Divulgata da Evagrio
Pontico (IV
secolo) e da altri maestri spirituali tra cui nel VI
secolo spicca San
Giovanni Climaco autore della Scala
del Paradiso,
la pratica dell'esicasmo è ancora viva sul Monte
Athos e in altri monasteri ortodossi.
Sull'Athos essa ricevette un impulso decisivo dall'opera di Gregorio
Palamas (morto nel 1359)
e nei secoli successivi dagli scritti di teologi e mistici raccolti
nella Filocalia.
Si
veda la voce esicasmo
nel Dizionario
critico di Teologia
(Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la
direzione di Jean-Yves Lacoste.
Lettura
Patristica
Sant’Agostino
d’Ippona
Preghiere
dalle Confessioni
Come
invocare Dio?
Tu sei grande, Signore, e ben
degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza
incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato,
che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la
prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure
l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo
stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e
il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi,
Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti,
prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non
ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque
ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno
colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà
l'annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché
cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi,
Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo
annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai
dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l'opera
del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).
Perché
invocare Dio?
Ma come invocare il mio Dio, il
Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma
esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di
me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la
terra? C'è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di
comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai
creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla
esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende?
E poiché anch'io esisto così, a che chiederti di venire dentro di
me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli
inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso
all'inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei
affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in
te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così,
Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove
verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra,
perché di là venga in me il mio Dio, che disse: "Cielo e terra
io colmo?" (1, 2, 2).
Cosa
sei, Dio mio?
Cosa sei dunque, Dio mio?
Cos'altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore
all'infuori del Signore, chi Dio all'infuori del nostro Dio? O sommo,
ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e
giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo,
stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai
decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i
superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli
senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi,
che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e
tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le
opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai
indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si
presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua?
Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere
nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita
mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure
sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri (
1, 4, 4)
Tu
sei la mia salvezza!
Chi
mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a
inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene
abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io
parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti
e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure,
quasi fosse una sventura lieve l'assenza stessa di amore per te? Oh,
dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di'
all'anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l'oda. Ecco, le
orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile
e di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce
io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per
non morire, per vederlo ( 1, 5, 5).
La
mia anima è la tua casa
Angusta è la casa della mia
anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina:
restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista,
lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi
griderò, se non a te: "purificami, Signore dalle mie brutture
ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri"?
Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro
di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità
del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non
voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità
s'inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a
considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).
Signore,
che io ti ami fortissimamente
Ascolta, Signore, la mia
implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina,
non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione,
con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più
dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami
fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano;
che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu,
Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto
di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di
parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).
Grazie,
Signore, per i tuoi doni!
Eppure, Signore, a te
eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell'universo, a te Dio
nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché
anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la
preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità
da cui provenivo; vigilavo con l'istinto interiore sulla
preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su
piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato,
avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo
all'amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l'ignoranza. Cosa vi
era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti
sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e
tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio
bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da
fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non
cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli
altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei
dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e
onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però
conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai
donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con
te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).
O
mia gioia tardiva!
Assordato dallo stridore della
catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia
anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e
mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie
fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre
procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi
delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della
mia spossatezza (2, 2, 2).
Tu
sei sempre vicino
Tu, Signore, regoli anche i
tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine
bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è
lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).
Signore,
che dài per maestro il dolore
Tu eri sempre presente con i tuoi
pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le
mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non
ripugna. Dove l'avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore,
te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi
per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).
Ti
amerò, Signore!
Come rimunerare il Signore del
fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne
è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò
il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così
grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il
dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua
grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto
fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi
peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che
sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso (2, 7, 15).
Voglio
te
Voglio te, giustizia e innocenza
bella e ornata delle tue pure luci e di un'insaziabile sazietà.
Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra
in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si
troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te
ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote
dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria (2,
10, 18).
Dio
mio, sconfinata misericordia mia!
Pure, la tua misericordia mi
aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono
corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità
sacrilega, che doveva precipitarmi nell'abisso infido e nel culto
ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti.
E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle
affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua
chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali?
Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla
rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio,
rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa
alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle
tue strade, invaghito della mia libertà di evaso (3, 3, 5).
O
Verità, Verità!
O Verità, Verità, come già
allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te,
mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo
suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei
vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si
presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre
creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature,
poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee,
sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature,
bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né
ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano
ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato
meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole, vero almeno
per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli
occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le
credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il
tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e
senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così
il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i
dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi
somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti
conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi.
Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della
carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli
li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche
immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da
essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti,
come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore
mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che
vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo
un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo
ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora,
fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono
le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i
corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l'anima,
che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più
alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle
vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell'anima
mia (3, 6, 10).
Cosa
sono io senza di te?
Cosa sono io per me stesso senza
te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene,
cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te,
vivanda incorruttibile? è chi è l'uomo, qualsiasi uomo, come uomo?
Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci
confesseremo a te (4, 1, 1).
Ascolta
il mio pianto
Ed ora, Signore, tutto ciò è
ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da
te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l'orecchio del mio
cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli
infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da
te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi
ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere
contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza.
Come può essere dunque che dall'amarezza della vita si coglie un
soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La
dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade
giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di
giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un
lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né
invocavo con le mie lacrime il ritorno dell'amico alla vita, ma
soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più
non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il
disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).
Dio,
speranza mia
Eccolo il mio cuore, mio Dio,
eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza
mia, tu che mi purifichi dall'impurità di questi sentimenti,
dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei
piedi (4, 6 ,11).
Dio
delle virtù, volgiti a me
Dio delle virtù, rivolgi noi a
te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L'animo dell'uomo si
volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore,
anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non
esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e
svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono
per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte
invecchiano, ma tutte muoiono... Ti lodi per quelle cose la mia
anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare
dall'amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).
Ascolta,
anima mia...
Non essere vana, anima mia, non
assordare l'orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta
tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della
quiete imperturbabile è dove l'amore non conosce abbandoni, se lui
per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per
far posto ad altre e costituire l'universo inferiore nella sua
interezza. "Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da
qualche parte?". Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui
quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d'inganni; affida
alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai.
Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno
guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate
strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso,
rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente
stabile e durevole (4, 11, 16).
Amiamolo,
amiamolo!
Se ti piacciono i corpi loda Dio
per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di
spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime,
in Dio amale, poiché sono mutevoli anch'esse, ma in lui si Fissano
stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale
dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di' loro:
"Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne
è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute
da lui, in lui sono. Dov'è? Dove si assapora la verità? E'
nell'intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate
nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati.
Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo.
Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva
da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece
giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò
che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e
continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi
la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è 11, dove voi cercate.
Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come
potrebbe essere una vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).
Fino
a quando questo peso nel cuore?
Discese nel mondo la nostra vita,
la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l'uccise con la
sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal
mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno
di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la
nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi
di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante
per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a
parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l'ascesa,
gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi
affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed
eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha
lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito,
perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e
venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa
a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. "Figli
degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la
vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se
siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per
ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell'ascendere contro
Dio". Di' loro queste parole, anima mia, affinché piangano
nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo
spirito di Dio t'ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco
della carità (4, 12, 19).
O
dolce verità!
Pure tendevo queste orecchie, o
dolce verità, alla tua melodia interiore nell'atto stesso di
meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di
stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia
alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del
mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi
faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio
udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate
(4, 15, 27).
Tu,
ci proteggi e ci sorreggi
O
Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu
proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora
canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è
fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre
accanto a te, e nell'avversione a te è la nostra perversione.
Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il
nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo
lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui
siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra
assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).
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