Rito romano
XXII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1° settembre 2013.
Sir
3, 19-21.30-31; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14
Assomigliare
a Cristo
Rito
ambrosiano
I
Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is
30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17
Il
pentimento come primo passo verso la somiglianza a Cristo
1)
Norma religiosa e non di galateo.
La
liturgia del rito romano ci propone nella prima lettura presa dal
libro del Siracide
una raccomandazione paterna: assumere un atteggiamento di attenzione
e di docilità, un atteggiamento da discepoli, di fronte a colui che
ci parla come un padre. Non solo riconoscerà in lui l'uomo ricco di
esperienza, ma avrà fiducia nei suoi consigli dettati da paterna
sollecitudine. La mitezza porta all'essere amato (v. 17), l’umiltà
apre l'uomo ai doni di Dio (v. 18), lo colloca di fronte a Dio, di
fronte alla grandezza della Sua potenza (v. 20) perché lo destina al
posto che gli compete e ne fa un testimone di Dio e della Sua grazia.
Passando
al Vangelo di Luca, osserviamo innanzitutto che è un fatto capitato
a Gesù. Arrivato a casa di un capo dei farisei che l’aveva
invitato, il Messia osserva che gli ospiti fanno ressa per
assicurarsi i primi posti. Sono persone convinte di avere diritto al
posto d'onore. Allora il Redentore racconta una parabola, con la
quale non intende ricordare una semplice regola di galateo, ma vuole
offrire una regola religiosa sul come comportarsi con Dio e, di
conseguenza, con gli uomini.
Per
dare questo suo insegnamento religioso, il Redentore afferma: “Quando
sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché
non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha
invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora
dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei
invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene
colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’.
Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque
si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”
(Lc
14,7-14).
Ci
sono due brani nel Nuovo Testamento che possono illuminare questa
parabola:
Il
primo è la lettera di San Paolo ai Filippesi
2,3-11 in cui la frase centrale è l'invito ad “avere
gli stessi sentimenti di Cristo Gesù... il quale... umiliò
se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di
croce... Per questo Dio lo esaltò...”.
La verità della parola di Gesù sull’umiltà
appare nel fatto che egli stesso ha vissuto questa parola nella sua
stessa persona a convalida della sua missione e della sua
predicazione: abbandonare il primo posto per prendere l'ultimo è
appunto il senso della sua incarnazione.
Il
secondo brano è il Magnificat
(Lc.
1,46-55 ): “Dio ha
guardato1
l’umiltà della sua
serva...”; questi
ultimi due termini (umiltà e serva) indicano chiaramente che la
straordinaria e unica missione affidata da Dio a Maria ha avuto
l'origine nella sua stessa umiltà
vissuta con semplicità e gioia, aperta e disponibile alla volontà
di Dio.
2)
A scuola dell’umiltà.
Andiamo
a scuola da Maria, per imparare da questa Madre umile a seguire suo
Figlio, per identificarci
con lo stesso Signore Gesù (che, dalla sua condizione di Figlio di
Dio, si è abbassato e umiliato fino ad assumere la nostra condizione
umana cfr Fil 2, 3-11), per potere con Lui e in Lui giungere alla
gloria della resurrezione.
Nella
Madonna, ma ciò va detto di ogni cristiano, l'umiltà
non riguarda la stima di se stessi, ma il rapporto con Dio,
che guarda in giù, verso la serva prediletta, il cui amore è umile
perché si mette a servizio dell’Amore e accetta di appartenere
all’Amore, dandoGli carne.
Dunque
l’umiltà2
insegnata e pratica dalla Madre Dio è il punto focale dove Dio fissa
il Suo sguardo, dove Egli può stabilire un rapporto profondo e
chiamare l’umile con il nome di “amico”.
E l’amico non è il conoscente, il complice, è l’umile fedele
alla Parola del Padre. Dunque, seguiamo Maria, per identificarci in
lei che, come umile
serva, ha accettato di
diventare dimora della Sua Parola, di custodirla nel suo cuore e nel
suo corpo, e di offrirla a tutta l'umanità.
Se
la Madonna non fosse stata umile, “piccola”, non avrebbe potuto
accogliere la “grandezza” di Dio. Quel
piccolo che portò nel grembo è la cosa grande che noi, oggi e
sempre possiamo e dobbiamo accogliere come bene più grande da
condividere gratuitamente.
Dunque
accostiamoci ogni giorno (o almeno il più frequentemente possibile)
all’Eucaristia, con un cuore puro e umile, quindi completamente
libero e disponibile ad accogliere in noi il Dio vivente, a
concepirLo e a darGli la vita tramite la nostra fragile carne redenta
da Lui. Cristo è l’avvenimento dove l’alleanza voluta da Dio con
ciascuno di noi si compie. Dio con l’uomo. Dio nell’uomo e
mediante l’uomo diventa un “personaggio” concreto della storia
umana e la redime.
3)
Gratuità senza frontiere.
Dopo
la parola ai convitati, Gesù dice anche una parola al padrone di
casa: “Quando vai a
un pranzo, non invitare gli amici o i ricchi vicini, ma i poveri”.
Perché
invitare sempre soltanto parenti ed amici? Siamo sempre all'interno
di un amore interessato, all'interno di una concezione chiusa della
vita: ci si invita fra amici, fra persone alla pari, oggi io invito
te e domani tu inviti me. E i poveri restano sempre fuori, sempre
esclusi.
Il
Vangelo vuole, invece, una fraternità con due caratteristiche ben
precise: la gratuità e l'universalità.
Devi
dare anche a coloro dai quali non puoi sperare nulla in cambio. Gesù
sta pensando alla sua futura comunità: la sogna come un luogo di
ospitalità per tutti gli esclusi. Non si tratta certo di un
insegnamento nuovo. Gesù l'ha già rivolto a tutti nel discorso
della montagna (Lc
6.32-34): se amate soltanto coloro che vi amano, qual è il vostro
merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano.
C'è la
beatitudine per chi è povero (“beati voi poveri, perché vostro è
il Regno di Dio”) e c'è anche la beatitudine per chi trasforma i
propri beni in occasione di ospitalità, ma deve trattarsi di
un'ospitalità anche verso gli esclusi (“sarai beato perché non
hanno da ricambiarti”).
Ma
questa ospitalità è possibile solamente se accogliamo l’altro,
come la Madonna ha verginalmente accolto l’Altro con una fede e un
amore così grandi, che i suoi occhi ed il suo cuore si sono aperti
alla Carità di Dio e “il
Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”
(Gv
1, 14).
La
vita cristiana, quindi, non è in primo luogo meditare e praticare le
virtù, ma ospitare e vivere della presenza di Cristo, che ci ama di
amore infinito. Se
viviamo la realtà di questo mistero di carità, viviamo già in
Paradiso. Le persone consacrate vivono già in Paradiso. Infatti, la
vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come
una anticipazione della vita del cielo.
Si
dice che le suore di vita contemplativa vivono in clausura. Non è
vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la
libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina.
Anche
per le appartenenti all’Ordo Virginum il loro luogo è l’immensità
di Dio. Non sono chiuse in casa o nei luoghi di lavoro. Sono chiusi
quelli che sono nomadi, vagabondi nel mondo e non vivono altro che la
loro piccola vita nel piccolo mondo, granello minuscolo
dell’Universo. La loro anima respira l’Infinito. Vivono in Dio e
Dio è l’immenso, vivono nel Cristo e Cristo è l’Amore infinito
fatto carne. “Dio
è il Dio del cuore umano” (San Francesco di Sales3,
Filotea
o Trattato dell’Amore
di Dio, I, XV)
1
Il verbo greco utilizzato dal Vangelo di Luca andrebbe tradotto
letteralmente: “ha
guardato in giù”,
verso la bassezza dell’umile sua schiava, perché doùlos
in greco vuol dire schiavo.
2
Da humus
parola
latina che vuol dire terra.
Essere umili è riconoscere che noi siamo polvere di terra amata da
Dio.
3
“Dio è il Dio del cuore umano” (Trattato
dell’Amore di Dio,
I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta
della spiritualità di un grande maestro quale fu ed è san
Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 e
morto nel 1622, in una regione francese di frontiera, visse a
cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé
il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo
che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la
spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. Fra i
vari suoi scritti segnalo anche uno dei libri più letti nell’età
moderna, l’Introduzione
alla vita devota.
Lettura
Spirituale
FILOTEA
- Introduzione alla vita devota
di
San Francesco di Sales
Vescovo
e Dottore della Chiesa
Capitolo
V
L’UMILTA’
INTERIORE
“Tu,
Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho
detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello
dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti
non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente,
non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e
nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino
dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei
suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi
proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio
quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua
giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha
fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come
dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare
alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i
doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre
presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da
noi.
Rifletti:
i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali
solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti
al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E
se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il
contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la
conoscenza genera la riconoscenza.
Ma
se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in
qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile:
pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla
nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio
non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad
imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne
proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il
merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La
Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto
per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore,
dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso
diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la
spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla
lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’
proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo
perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli
ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma
soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà
vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà;
perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma
soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse
lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe
atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere
completamente ignorata e nascosta.
Eccoti
il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure
diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle
parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non
giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero.
Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione;
aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che
cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno;
questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta
della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso
di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta
male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune
espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non
sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che
le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare
rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un
significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di
male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente
preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente
possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e
dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità
affettuosa.
L’uomo
sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché
lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a
nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di
cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia
contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti
affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti
perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il
coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono
sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere
causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della
loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro
talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono
la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di
qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri.
Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di
umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con
molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o
almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria
opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda
a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del
mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo
domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso.
Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando
d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole
dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è
orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è
obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo
perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più
possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite
ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova
tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più
diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in
Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra
debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra
miseria.
Molto
umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato
opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la
responsabilità della nostra anima.
Pensare
di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il
sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è
una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente
nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando
lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e
dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile
all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà
nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando
lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà
richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte
chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude
soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che
questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e
nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire
solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo,
non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù
sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di
umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non
vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà
mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi
impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria
all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la
finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E
anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per
essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per
lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto
motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a
trarre conclusioni per noi.
Davide,
saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti
all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto
semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la
gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando
sua moglie Micol glielo rimproverò come una follia, non fece caso
all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale
schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di
disprezzo per il suo Dio.
Per
questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta
devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o
pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non
ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.”