giovedì 22 giugno 2023

Il cristiano non ha paura, ha fede e sa che Dio lo custodisce costantemente.

 XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A -  25 giugno 2023

Rito Romano

Ger 20,10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33

 

Rito Ambrosiano

Gen 2,4b-17; Sal 103; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21

III Domenica dopo Pentecoste

 

            1) Evangelizzazione e compassione.

La fede ci dice che la nostra vita è custodita dall’amore di Dio, che è Padre e, perciò, è provvidenza.

Il Vangelo di oggi conferma questa fede e Cristo ci ricorda che se Dio che si prende cura anche dei passeri, delle cose deboli come i nostri capelli, certamente si prende cura di noi, ogni giorno. 

            Dio non è mai assente, è con noi in ogni istante della nostra vita e lo sarà fino alla fine del mondo. Sappiamo di essere nelle mani di Dio, che ha fatto suo il dramma dell’uomo, facendosi carne per salvarci. Lui è sempre presente, si commuove e piange, partecipa, si china sulle nostre ferite, asciuga le nostre lacrime, si china su ciascuno.

 Eppure viviamo spesso nella paura. In effetti, la consolante verità che Dio, con volto sereno e mano sicura guida la nostra storia, trova paradossalmente nel nostro cuore un duplice, contrastante sentimento: da una parte siamo portati ad accogliere e ad affidarci a questo Dio Provvidente, così come afferma il Salmista: “Io sono tranquillo e sereno. Come un bimbo in braccio a sua madre è quieto il mio cuore dentro di me” (Sal 130, 2). Dall’altra, però, abbiamo paure e esitiamo ad abbandonarci a Dio, Signore e Salvatore della nostra vita, o perché, offuscato dalle cose, ci dimentichiamo di Dio provvidente, o perché, feriti dalla varie sofferenze e difficoltà della vita, dubitiamo di lui come Padre. In tutte e due i casi la Provvidenza di Dio è come chiamata in causa dalla nostra fragile umanità.

Su questo crinale sottile fra speranza e disperazione si colloca la parola di Dio così splendida da essere umanamente quasi incredibile, così vera da rafforzare immensamente le ragioni della speranza,. La parola di Dio non assume mai tanta grandezza e fascino come quando si confronta con la massima domande dell’uomo, di ciascuno di noi che si chiede: “Qual è e dov’è il mio destino?”. Il Vangelo ci dice che Dio è qui, che è l’Emmanuel, il Dio-con-noi (Is 7, 14). Dio mostra di aver “piantato la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14) in Gesù di Nazareth morto e risorto, Volto buono del destino, Figlio di Dio e fratello nostro. 

Se accogliamo questa affermazione che Cristo è il Figlio di Dio che dimora in noi e noi in Lui, non avremo più paura perché la paura è vinta dal nostro essere radicati nell’Amore, dalla nostra fiducia nell’Amore.

Se, oggi accogliamo l’invito di Cristo, che per tre volte ci ripete di non avere paura, non solo vivremo nella pace perché il nostro cuore è consolato, ma saremo testimoni del suo Vangelo di letizia, di compassione portando nelle piazze delle nostre città e nell’intimo delle nostre case la lieta notizia che Dio è tra noi e ci dice: “Non avere cura di te, lascia che di te abbia cura il Signore.

La missione nasce dalla compassione ricevuta da Dio e condivisa tra di noi. Questa compassione non è solo dire che qualcuno ci fa pietà. La parola “compassione” viene da due parole (greca ed ebraica) che fanno riferimento alle viscere, all'utero della madre. Sentire compassione allora è un qualcosa che ci prende dentro, qualcosa di viscerale e mi pare che sia questa l'unica condizione per poter cogliere l'invito di Gesù a non temere, a non avere paura, a confidare in Dio. La missione, il predicare, come dice il vangelo di oggi dalle terrazze, è possibile solo nella misura in cui essa non diventa un fatto di organizzazione, ma di compassione.

Dunque, è giusto (o almeno lo spero) affermare che allora il primo grande invito che ci fa la Liturgia della Parola di questa domenica: confidare in Dio. Già nella prima lettura il profeta Geremia afferma: “il Signore è al mio fianco... il Signore ha liberato la vita del povero”, ma anche nel brano di Vangelo, che – attraverso delle immagini -  ci racconta di una vita, la nostra, custodita dall'amore di Dio. Di una vicenda, quella di Geremia, assediato da amici e nemici: anche gli amici ce l'hanno con lui, e perché? Unicamente perché ha annunciato il volto di Dio e ha esortato le persone che lo ascoltavano a confidare unicamente in Dio. Per questo Geremia viene preso, legato, frustato nel tempio. Per questo, Cristo è stato crocifisso.

Ma la vita di Geremia e quella di Cristo mostrano che vale la pena confidare in Dio. E’ ragionevole vivere questo abbandono totale e questa amorosa confidenza. Quando lo facciamo, facciamo esperienza di una pace e gioia profonde. E nei momenti di fatica guardiamo a Cristo e alla lunghissima teoria di santi e sante che l’hanno seguito. Come esempio, questa volta cito Nicodemo, che va da Gesù di notte, per paura. La notte è il momento ideale per chi non vuole essere visto. Per chi non vuole farsi vedere a parlare con qualcuno. Chi ha vergogna di mostrare se stesso trova nella notte il momento ideale. La notte di Nicodemo, forse indica la paura di essere se stesso. Indica la paura di essere vero. La notte di Nicodemo indica la sua incapacità e la sua paura di essere libero. Bellissimo poi, che nel momento più difficile Nicodemo vada a chiedere il corpo di Gesù in pieno giorno: come se lo chiedesse urlando da un tetto.

 

2) Martiri: testimoni esemplari della Provvidenza, confidenti in Dio fino a morirne.

Mi piace molto che nel vangelo di oggi ci sia scritto anche che nulla rimarrà nascosto, di sconosciuto a Dio, nemmeno la sofferenza più piccola. Per noi “figlio” è una garanzia che anche il disagio o la sofferenza o, al limite, il martirio entrino nel disegno di Dio Padre. L’affermazione : “Non cade un passero senza che Dio lo sappia e lo voglia” non vuole dire: non ci accadrà mai di cadere, ma che tutto è parte del disegno provvidente del Padre onnipotente e provvidente. Ma significa: se vi accade di cadere, Dio lo sa. Dentro alla nostra sofferenza Dio c’è, non siamo abbandonati, c'è la sua presenza come presenza di salvezza, anche se evidentemente non viene percepita, e anche se a livello psicologico non fa un grande effetto, non si sente una grande consolazione; ma dentro ad una dimensione di fede c'è la possibilità di vivere ugualmente questa dimensione di presenza di amore dell’Emmanuele, il Dio sempre con noi .

San Paolo paragona le sofferenze umane e cosmiche a una sorta di “doglie del parto” di tutta la creazione, sottolineando i “gemiti” di coloro che possiedono le “primizie” dello Spirito e aspettano la pienezza dell’adozione, cioè “la redenzione del nostro corpo”. Ma aggiunge: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio . . .” e più oltre: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”, fino a concludere: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita . . . né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 22-39). Accanto alla paternità di Dio, manifestata dalla Provvidenza divina, appare anche la pedagogia di Dio: “È per la vostra correzione (“paideia”, cioè educazione) che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto (educato) dal padre? . . . Dio lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità” (cf Eb 12, 7. 10) (S. Giovanni Paolo II).  Vista dunque con gli occhi della fede la sofferenza, anche se può ancora apparire come l’aspetto più oscuro del destino dell’uomo sulla terra, lascia però trasparire il mistero della divina Provvidenza, contenuto nella rivelazione di Cristo, e in particolare nella sua croce e nella sua risurrezione. 

L’importante è scoprire mediante la fede la potenza e la “sapienza” del Dio Padre che con Cristo ci conduce sulle vie salvifiche della divina Provvidenza. Si conferma allora il senso delle parole del salmista: “II Signore è il mio pastore . . . Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me” (Sal 22, 1. 4). 

Qualsiasi esperienza ci sia portata da ciò che “umanamente” chiamiamo il destino, dobbiamo cristianamente chiamarla Provvidenza, e con fiducia superare la nostra ignoranza e con amore collaborare all’opera redentiva del Dio Figlio. Il suo santo Spirito possa testimoniare nel nostro cuore che siamo veramente figlio di Dio, e che è ragionevole accettare tutti gli avvenimenti della  “mano” di Dio. 

Il testamento scritto dall’Abate di Tiberine alcuni mesi prima di essere martirizzato ci è di esempio sublime: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

 La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

 Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito” (si veda il testo completo che è proposto al posto della lettura patristica)

A questo punto non ci resta che pregare perché nella certezza dell’amore di Dio noi troviamo la risposta quelle domande a cui nessuna sapienza umana può rispondere. Preghiamo dunque così: “Che tu mi ami è risposta a ogni domanda — fa’ che io lo senta quando giunge l’ora della prova” (Romano Guardini)»

 

3) Le vergini consacrate: testimoni della Provvidenza.

Nei due paragrafi precedenti ho cercato di spiegare che la Provvidenza divina si rivela come il camminare di Dio a fianco dell’uomo. 

Tenendo presente l’Antico Testamento[1], ho cercato di mostrare che le parole di Cristo raggiungono una pienezza di significato ancora maggiore. Le pronuncia infatti il Figlio che “scrutando” tutto ciò che è stato detto sul tema della Provvidenza, rende testimonianza perfetta al mistero del Padre suo: mistero di Provvidenza e di cura paterna, che abbraccia ogni creatura, anche la più insignificante, come l’erba del campo o i passeri. Quanto più l’uomo, dunque. 

Ma c’è da tenere presente che ciascuno di noi non solo deve essere grato per l’azione provvidente del Creatore verso di noi, ma abbiamo anche il dovere di cooperare col dono ricevuto dalla Provvidenza. Egli non può quindi accontentarsi dei soli valori del senso, della materia e dell’utilità. Deve cercare soprattutto “il regno di Dio e la sua giustizia” perché “tutte queste cose (i beni terreni) vi saranno date in aggiunta” (cf. Mt 6, 33). 

            Un esempio di questa cooperazione al disegno di amore provvidente di Dio è la consacrazione delle vergini, che con il dono totale di se stesse a Dio diventano il riflesso del pensiero e dell’amore di Dio nelle cose e nella storia, lasciandosi impregnare dalla carità sapiente di Dio e di condividerla con i fratelli e sorelle in umanità

Per questo il Vescovo che presiede il rito di consacrazione dell’OV prega: “O Dio, che ti compiaci di abitare come in un tempio nel corpo delle persone caste e prediligi le anime pure e incontaminate… volgi lo sguardo su queste figlie, che nelle tue mani depongono il proposito di verginità di cui sei l'ispiratore, per farne a te un'offerta devota e pura. Guida e proteggi queste nostre sorelle, che implorano il tuo aiuto nel desiderio ardente di essere fortificate e consacrate dalla tua benedizione … Concedi, per il dono del tuo Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella bontà, austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella carità nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza ambire la lode; a te solo diano Gloria nella santità del corpo e nella purezza dello spirito; con amore ti temano, per amore ti servano. In te, Signore, possiedano tutto, poiché hanno scelto te solo al di sopra di tutto” (RCV 38).

Lettura “quasi” patristica

 

Testamento di Padre Christian De Chergé,

priore dell’Abbazia di Tibihrine,

Questo Monaco fu martirizzato con altri sei monaci trappisti in Algeria nel maggio 1996.

 

“Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese.


Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.


Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta?
Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.


La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia.


Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio.


Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.


So di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo. E’ troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un anima.
L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione,giocando con le differenze.


Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto.


In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!


E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.


E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen! Inch’Allah”.


Algeri, 1° dicembre 1993


Tibihrine, 1° gennaio 1994

 



[1] Per esempio, il Salmo 90: “Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente, di’ al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido» . . . Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora . . . Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura” (Sal 90, 1-2. 9. 14-15),

giovedì 15 giugno 2023

L’amore è dare tutto, è donare se stessi (S. Teresa di Lisieux)

XI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A -  18 giugno 2023

 

Rito Romano

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

 

Rito Ambrosiano

III Domenica dopo Pentecoste

Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12

 

 

 

            1) L’Amore sotterrato nella terra

            Il seme per essere produttivo deve essere messo sotto terra. Così Dio, perché il suo Regno nasca e cresca, ha messo il suo Amore dentro la terra, nel giardino del grembo della Vergine Maria: “così è germinato questo Fiore”(Dante, Il Paradiso Canto XXXIII).  Il vero e grande Seminatore continua a “gettare” il Figlio, il seme divino, sulla terra. Ma noi terreni, siamo terra fertile come la Madonna? 

            Guardando la nostra estrema fragilità, ci viene immediato dire che non lo siamo. Guardandoci nel Cristo diciamo di sì. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo, Parola di Dio, non viene a noi solamente come dono, ma come perdono. 

            A noi il compito di aprire la terra del nostro cuore, mendicando la misericordia che ricrea. Una bella antifona della liturgia ambrosiana dice: “Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei”: “Prima di parlare con me, Signore, perdonami, secondo la tua grande misericordia (cfr Sal 50), secondo la tua giustizia rivestita di pietà e tenerezza”.

            Questa tenerezza di Dio ci prende come il ramoscello, di cui parla il profeta Ezechiele nelle prima lettura romana di oggi: Così dice il Signore Dio: prenderò dalla cima dei cedro, dalle punte suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d'Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all'ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore.

            Nelle mani di Dio, ogni uomo che accolga il Suo dono, che viva della sua Parola, che cammini sui passi del suo Figlio, può diventare annunciatore di salvezza e operaio intraprendente del Regno di amore, di giustizia e di pace a cui l’umanità intera anela.

            Certo, Dio Padre ci prende con le sue “mani” e ci pianta il alto. Certo, Dio Padre è il Seminatore, il Verbo è la Semente, il terreno è l'uomo. Ma in questo processo il terreno non è affatto passivo. La qualità del raccolto dipende infatti dalla buona predisposizione della terra, insomma dalla fertilità del terreno profondo e insondabile che è il cuore dell'uomo. Come ben si esprime un famoso esempio della Scrittura, la Parola ha sempre la sua efficacia come la pioggia che discende dal cielo (cfr Is 55, 10 - 11): essa ha in sé qualità per irrigare e predisporre alla crescita, ma se il terreno è arido e refrattario, non potrà che dare  pochi frutti. 

            Il terreno dell'uomo si predispone sulla base della volontà e della predisposizione dell'uomo stesso, che di fronte alla Parola non deve mai mostrarsi sospettoso o diffidente, ma considerarla come un Dono, aprendosi deliberatamente con fiducia e lasciandosi formare da essa. 

            Tuttavia, credo che ancor prima della buona volontà e della fiducia, dobbiamo essere puri ed umile per accogliere il seme, come ce ne ha dato un esempio grande la Madonna. Lei, l’Immacolata da sempre, si è messa umilmente a servizio della Parola, noi, a cui il dolore  ed il perdono tolgono il peccato, possiamo fare altrettanto. Maria con la sua purezza immensa e la sua umiltà senza limiti ha nobilitato a tal punto l’umana natura che “il suo Fattor non disdegnò di farsi sua Fattura”(Dante, Il Paradiso Canto XXXIII) . Noi possiamo diventare terra degna, nobile e feconda, imitando la Madonna nella sua umiltà, grazie alla quale non era definita dall’esito delle cose da fare, ma dall’amore di Dio. E, resi puri dal perdono implorato, saremo vera dimora di Dio.

 

 

2) L’amore seminato nel cielo.

            Il frutto che nasce dalla terra permette, a chi lo mangia, di vivere, ma non gli impedisce di morire. Cristo, seme seminato nel cielo mediante la Croce, “produce” il pane di immortalità. 
            Se noi lo seguiamo fino là, la Parola divina si insinua nella nostra vita, per trasformarla secondo il suo progetto d'amore, proprio come il seme che, “caduto” e disperso fra le “zolle” di cielo, si dipana misteriosamente e il nostro cuore, terra prima incolta e abbandonata in un campo fruttuoso di raccolti: il seme cresce un po' alla volta, viene alimentato dalla terra e dal clima appropriato della stagione, si tramuta prima in piccole spighe finché il terreno celestizzato non diventa grano pronto per la mietitura. 

            Non dimentichiamo che prima di essere seminato in cielo mediante la Croce, Gesù si è inginocchiato davanti agli uomini, lavandolo loro i piedi. Imitiamo anche in questo il Redentore che con il gesto della lavanda dei piedi ha mostrato l’amore divino con tutte le componenti umane: simpatia, tenerezza, generosità, commozione e servizio, con quella vibrazione umana, che rende Gesù vicino a tutti e ne conquista i cuori.

            Come un granellino di senape, Gesù si è fatto piccolo, povero e indifeso, condividendo la condizione dei deboli e dei reietti e per questo è stato esaltato con un nome al di sopra di ogni altro nome (Fil 2, 9). Una volta morto e sepolto, Gesù ha apportato la crescita del Regno che aveva già diffuso in germe con le sue parole e con le sue opere: per mezzo delle sue apparizioni da Risorto, nell'Ascensione al Cielo e nella realizzazione della promessa del dono dello Spirito a Pentecoste e nella continuità del suo annuncio per mezzo della Chiesa, Cristo fa crescere costantemente il seme del Regno e ne dispiega i fruttuosi raccolti dappertutto.

            Come afferma infatti il vangelo di oggi, noi non conosciamo né saremo mai in grado di conoscere tempi e modalità con cui Dio fa crescere il suo seme, non ci è dato sapere quali procedimenti, tempi, sentieri Dio metta in atto per far crescere la propria semente, non sapremo mai quanti passi sono necessari fino al conseguimento dell'obiettivo. Nessuno può illudersi di pronosticare futuri risultati o di anticipare eventi e soluzioni. Occorre semplicemente lasciare fare a Dio, le cui vie e i cui sentieri sono differenti dai nostri (Is 55, 5) e saper attendere nell'umiltà, nella fede e nella speranza. 

            Affidarci a Dio nellessere seminatori nel suo nome comporta certamente l'essere piccoli e crescere progressivamente, senza bruciare le tappe. Chi si trova oggi a godere di una buona posizione di successo o a fare l'inventario delle copiose risorse acquisite ha dovuto iniziare con poco, affrontare le dure lotte e gli immancabili sacrifici che ogni traguardo comporta.

            Il versetto successivo, in ogni caso e in tutti i campi, inizia con una serie di fallimenti, di frustrazioni e di incomprensioni altrui, conosce insidie a volte precostituite, richiede costanza, fiducia e perseveranza nella prova e nella tentazione di voler abbandonare. Ma quando finalmente l'obiettivo è raggiunto, ebbene i risultati sono paragonabili alla pianta che è scaturita da un insignificante granellino di senapa: ora è talmente grande da torreggiare su tutta la flora antistante e da diventare sede di numerosi nidi di uccelli. 

            Prendere parte attiva alla novità del Regno realizzata da Cristo vuol dire seguire le sue orme instancabilmente e conseguire i medesimi premi di gloria anche se la tappa necessaria e inevitabile è sempre la Croce, dove Cristo manifestò che l’amore folle di Dio ha vinto il male, dove la morte è stata vinta dalla Vita. 

Riceviamo Cristo come il Cielo l’ha ricevuto quando gli uomini l’hanno messo in Croce.

            In modo particolare le Vergini Consacrate nel mondo devono essere la terra divenuta cielo grazie alla consacrazione. Queste donne si inseriscono nel solco di quelle consacrate, che subirono il martirio per rimanere fedeli al Signore.  Esse furono numerosissime, specialmente i primi tre secoli della vita della Chiesa.

Il ricordo delle vergini consacrate martiri deve rimanere per queste donne un vivo richiamo al dono totale di sé che la consacrazione verginale richiede. (cfr Ecclesiae Sponsae Imago, Introduzione, 8 giugno 2018).      

 

 

 

 

 

Lettura Patristica

San Cipriano, vescovo e martire

Dal trattato «Sul Padre nostro» di 
(Nn. 4-6; CSEL 3, 268-270)


Per coloro che pregano, le parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in sé silenzio e timore. Pensiamo di trovarci al cospetto di Dio. Occorre essere graditi agli occhi divini sia con la posizione del corpo, sia con il tono della voce. Infatti come è da monelli fare fracasso con schiamazzi, così al contrario è confacente a chi è ben educato pregare con riserbo e raccoglimento. Del resto, il Signore ci ha comandato e insegnato a pregare in segreto, in luoghi appartati e lontani, nelle stesse abitazioni. E` infatti proprio della fede sapere che Dio è presente ovunque, che ascolta e vede tutti, e che con la pienezza della sua maestà penetra anche nei luoghi nascosti e segreti, come sta scritto: Io sono il Dio che sta vicino, e non il Dio che è lontano. Se l'uomo si sarà nascosto in luoghi segreti, forse per questo io non lo vedrò? Forse che io non riempio il cielo e la terra? (cfr. Ger 23, 23-24). E ancora: In ogni luogo gli occhi del Signore osservano attentamente i buoni e i cattivi (cfr. Pro 15, 3).
E allorché ci raduniamo con i fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile e devoto contegno. Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore. Non è necessario gridare per richiamare l'attenzione di Dio, perché egli vede i nostri pensieri. Lo dimostra molto bene quando dice: «Perché mai pensate cose malvage nel vostro cuore?» (Mt 9, 4). E un altro luogo dice: «E tutte le chiese sapranno che io sono colui che scruta gli affetti e i pensieri» (Ap 2, 23).
Per questo nel primo libro dei Re, Anna, che conteneva in sé la figura della Chiesa, custodiva e conservava quelle cose che chiedeva a Dio, non domandandole a gran voce, ma sommessamente e con discrezione, anzi, nel segreto stesso del cuore. Parlava con preghiera nascosta, ma con fede manifesta. Parlava non con la voce ma con il cuore, poiché sapeva che così Dio ascolta. Ottenne efficacemente ciò che chiese, perché domandò con fiducia. Lo afferma chiaramente la divina Scrittura: Pregava in cuor suo e muoveva soltanto le sue labbra, ma la voce non si udiva, e l`ascolto il Signore (cfr. 1 Sam 1, 13). Allo stesso modo leggiamo nei salmi: Parlate nei vostri cuori, e pentitevi sul vostro giaciglio (cfr. Sal 4, 5). Per mezzo dello stesso Geremia lo Spirito Santo consiglia e insegna dicendo: Tu, o Signore, devi essere adorato nella coscienza (cfr. Bar 6, 5).
Pertanto, fratelli dilettissimi, chi prega non ignori in quale modo il pubblicano abbia pregato assieme al fariseo nel tempio. Non teneva gli occhi alzati al cielo con impudenza, non sollevava smodatamente le mani, ma picchiandosi il petto condannando i peccati racchiusi nel suo intimo, implorava l'aiuto della divina misericordia. E mentre il fariseo si compiaceva di se stesso, fu piuttosto il pubblicano che meritò di essere giustificato, perché pregava nel modo giusto, perché non aveva riposto la speranza di salvezza nella fiducia della sua innocenza, dal momento che nessuno è innocente. Pregava dopo aver confessato umilmente i suoi peccati. E così colui che perdona agli umili ascoltò la sua preghiera.

 

 

 

mercoledì 7 giugno 2023

Nell’Eucaristia Cristo si fa cibo, medicina e amico della nostra conversazione.

Corpus Domini – Anno A - 11 giugno 2023

Rito Romano

Dt 8,2-3.14-16; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58

 

Rito Ambrosiano

Dt 8,2-3. 14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6, 51-58

 

 

 

1)    Stupore per un dono immenso.

Domenica scorsa abbiamo celebrato la Trinità, mistero di Amore, che è fonte inesauribile di Vita che incessantemente si dona e si comunica, e che fa di noi Sua dimora, dove ogni cosa ritrova Dio, ascolta Dio, sussurra Dio, spera e ama Dio. “Dio è amore: per questo Lui  è Trinità… L’amore suppone uno che ama, ciò che è amato e l’amore stesso” (Sant’Agostino, De Trinitate, VIII, 10, 14). Il Padre è, nella Trinità, colui che amala fonte e il principio di tutto; il Figlio è colui che è amatolo Spirito Santo è l’amore con cui si amano.

Oggi, solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo o Corpus Domini come ancora si usa chiamarla, siamo inviatati a celebrare nello stupore il mistero della presenza reale del Signore nell’Eucaristia che ci dona il cibo e la bevanda del cielo, per alimentare questa nostra vita terrena e per affrontare il cammino verso la vita celeste.

            Oggi, la Chiesa non solo celebra l’Eucarestia, ma la reca solennemente in processione. Quello che il Redentore ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti. 

Oggi annunciamo pubblicamente che il Sacrificio di Cristo è per la salvezza del mondo intero. E ciò non vale solo per il passato. Il fatto che Dio ha amato gli uomini al punto tale da mandare il suo Figlio a riscattarli dalla loro misera condizione, non è un passato da rimpiangere come ormai concluso: esso infatti si riversa nel presente. Quell’amore è attuale, vivo e operante oggi in modo stupefacente. 

Oggi la Chiesa ci invita ad entrare con stupore in questo “mistero della fede”, che il sacerdote, ogni volta che celebra la Messa così sintetizza, con le ineffabili parole di Gesù in cui si compie il grande dono di Sé: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete questo è il calice del mio sangue. Fate questo in memoria di Me” (Lc22, 16).

Nella sua enciclica sull’Eucarestia San Giovanni Paolo II così scriveva manifestando questo stupore: “Quando penso all'Eucarestia, guardando alla mia vita di sacerdote, di vescovo, di successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti e i tanti luoghi in cui mi è successo di celebrarla... la cattedrale di Wawel, la basilica di San Pietro... in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde di laghi, sulle rive dei mari, l'ho celebrata in altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città. Questo scenario così variegato, me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico. Perché quando viene celebrata sul piccolo altare di campagna, l'Eucarestia è sempre celebrata, in un certo senso, sull'altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla... Davvero è questo, il Mysterium Fidei, che si celebra nell’Eucarestia; il mondo, uscito dalle mani di Dio creatore, torna a Lui, redento da Cristo” (Lett. Enc. Ecclesia de Eucaristia, n. 8).

Nella Messa e per il dono di Gesù nell'Eucarestia ognuno di noi deve vivere la stessa meraviglia, gioia e gratitudine, di cui parla S. Giovanni Paolo II nel brano che ho appena citato.

Mettiamoci in adorazione davanti a questo Mistero grande e di misericordia. Il Cristo non poteva fare di più per noi. Davvero, nell’Eucaristia, il Redentore ci mostra un amore che va fino “all’estremo” (cfr. Gv 13,1), un amore che non conosce misura e confini.

Questo aspetto di carità universale del Sacramento eucaristico è fondato sulle parole stesse del Salvatore. Istituendolo, egli non si limitò a dire “Questo è il mio corpo », « questo è il mio sangue », ma aggiunse “dato per voi...versato per voi” (Lc 22,19-20). Non affermò soltanto che ciò che dava loro da mangiare e da bere era il suo corpo e il suo sangue, ma ne espresse anche il valore sacrificale, rendendo presente in modo sacramentale il suo sacrificio, che si sarebbe compiuto sulla Croce alcune ore dopo per la salvezza di tutti. 

 

2)    Mendicare il Corpo di Cristo crocifisso.

Nell’Eucarestia Gesù è presente non come una cosa, ma come una Persona, cioè come un “Io” che si dona a un “tu”, che lo mendica.

Quando andiamo a ricevere la Comunione, tendiamo la mano per ricevere il Signore della vita, siamo, quindi, dei mendicanti che tendono la mano per chiedere la carità del Pane di vita eterna. Riconosciamo di essere poveri che riceviamo tutto. Anzi riceviamo il Tutto, che non è qualcosa ma Qualcuno, che si dona a noi. Il ricevere il Pane di vita è comunione di persone, incontriamo Cristo e il suo Cuore parla al nostro cuore.

      In questo incontro eucaristico il Redentore non solo ci parla, ma agisce: “E’ Cristo che lì agisce, che è sull’altare. E’ un dono di Cristo, il quale si rende presente e ci raccoglie attorno a sé, per nutrirci della sua Parola e della sua vita. Attraverso l’Eucarestia, Cristo vuole entrare nella nostra esistenza e permearla della sua grazia. Viviamo quindi l'Eucarestia con spirito di fede, di preghiera, di perdono, di penitenza, di gioia comunitaria, di preoccupazione per i bisognosi e per i bisogni di tanti fratelli e sorelle, nella certezza che il Signore compirà quello che ci ha promesso: la vita eterna” (Papa Francesco). La vita è la relazione d’amore col Padre che la dona e coi fratelli che sono figli come te e questa è già vita eterna, è la vita di Dio, ed è quella che Gesù ci vuol comunicare.

Attraverso l’Eucaristia, si attua una relazione di comunione piena tra Gesù e noi perché possiamo sperimentare quel Dio che ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio, perché il mondo viva. “Mangiare il pane vivo...mangiare il corpo...”: mangiare la carne, mangiare l'Amore, mangiare Dio: tutto è estremamente concreto e tutto è di una densità infinita. Mangiare l'Amore incarnato di Dio perché Dio continui ad incarnarsi e la carne dell'uomo sperimenti la vita di Dio: l'amore dell'uomo diventi l'Amore di Dio risplenda la sua Gloria. Tutto è Dio e tutto è così concretamente umano. Tutto è stupendo: tutto richiede “soltanto” il coraggio di credere l’ “Amore” infinito di Dio nell'oscurità della Croce di Gesù.

            L’Ostia è strettamente legata alla Croce. “Nell'Eucaristia Cristo attua sempre nuovamente il dono di sé che ha fatto sulla Croce. Tutta la sua vita è un atto di totale condivisione di sé per amore” (Papa Francesco). 

            L’Eucarestia è il Sacramento della Passione e Morte di Cristo per eccellenza. Gesù l’istituì in un “eccesso” d’amore, nella notte in cui fu tradito, quando, dopo avere benedetto e spezzato il pane e dopo aver benedetto il vino, li distribuì agli Apostoli dicendo: “Fate questo in memoria di me”. La Santa Messa rinnova misticamente la Morte di Cristo, ne proclama la Risurrezione nell’attesa della Sua venuta. 

Va però tenuto presente che il sacrificio di Cristo è un sacrificio di comunione e di lode.

 Già nell’Antico Testamento fra i vari tipi di sacrifici vi era quello chiamato “sacrificio di comunione” o “offerta di pace” perché voleva esprimere l’unione tra Dio e il donatore attraverso un’offerta di ringraziamento[1]. La vittima veniva spartita tra Dio, il sacerdote e l’offerente. La parte destinata a Dio veniva bruciata sull’altare. Il fedele mangiava dinanzi a Jahwé, quasi in sua compagnia. Era il pasto sacrificale, nel quale si stabiliva una comunione spirituale, un’alleanza tra Jahwé e l’offerente. E’ chiara qui l’idea di “mangiare[2] alla mensa del Signore”, con Lui, come suoi commensali. 

Nella Messa il rendimento di grazie è l’aspetto più significativo e sorprendentemente si trova fin dall’inizio. Notiamo che Gesù, anche prima di risuscitare Lazzaro, alza gli occhi e dice: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato” (Gv 11,41). Ringrazia prima di compiere il miracolo, sicuro che il Padre lo compirà.

Trasformando la propria morte in sacrificio di ringraziamento, Gesù ci fa capire che per lui la passione è un dono del Padre, è la sua glorificazione (cf Gv 12,28-33; 13,31-32). La morte stessa viene trasformata in vittoria; Gesù vince la morte con la morte; la morte sua diventa sacrificio di ringraziamento.

L’Eucaristia domenicale o quella quotidiana dovrebbero avere l’effetto di trasformare tutta la vita in perenne sacrificio di ringraziamento per mezzo di Cristo, e farci vivere ogni evento come un dono. Dico dovrebbe, perché spesso ci accostiamo con distrazione, per abitudine, o con pretesa, per vanità. L’Eucarestia è un dono di misericordia che possiamo ricevere dopo avere chiesto perdono e aver detto: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”.

La Chiesa ha scelto, come ultimo momento in preparazione al ricevimento dell’eucarestia, di riprendere le parole del centurione romano di Cafarnao quando chiese a Gesù di guarire il suo servo fedele, purtroppo paralizzato e molto sofferente: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). L’atteggiamento di estrema umiltà e di profonda fiducia che caratterizzò la domanda di questo ufficiale pagano nel richiedere l’intervento salvifico di Cristo nella sua casa - una vera e propria professione di fede - vuole e deve essere l’atteggiamento di tutti noi, sacerdoti e fedeli (queste parole devono essere dette dal prete insieme con i fedeli) nel momento in cui stiamo per ricevere il Signore nel nostro cuore.

 

3)    Le Vergini consacrate e l’Eucarestia.

Di sicuro nessuno di noi è “degno” di Gesù, della sua presenza e del suo amore, ma sappiamo nella fede che ci basta anche solo un suo cenno, una parola, un solo sguardo ed Egli ci può salvare.

Attente a questa parola e con gli occhi del cuore aperti per ricevere questo sguardo, le Vergini consacrate sono testimoni significative di questa umiltà che fa sì che Cristo prenda dimora nel cuore umano e sia portato nel mondo.

Al sacrificio eucaristico di Cristo queste donne uniscono il loro sacrificio nel dono esclusivo di loro stesse a Cristo, in questo modo manifestano in modo speciale la dimensione eucaristica della vita quotidiana di ogni cristiano.

Il sacrificio è necessario alla vera vita, che per essere tale va vissuta eucaristicamente. A nessuno sfugge la forza che questa tentazione possiede nell’odierno panorama culturale. Le sirene del nostro tempo cantano la melodia di una vita senza sacrificio negli affetti, nel lavoro… E in questo modo, di fatto, condannano gli uomini a rimanere incagliati nelle prove della vita quotidiana, illudendoli che queste non dovrebbero esistere.

Come capire e vivere questa  “strana necessità del sacrificio”? Facendo esperienza del dono di sé e della gratuità.

C’è un rapporto tra la rinuncia e la gioia, tra il sacrificio e la dilatazione del cuore. Il sacrificio compiuto dall’amore casto  spalanca il cuore,  attesta l’amore preferenziale per il Signore e simboleggia, nel modo più eminente e assoluto, il mistero dell’unione del corpo mistico al suo corpo, della sposa all’eterno suo sposo. La verginità consacrata, infine, raggiunge, trasforma e penetra l’essere umano fin nel suo intimo, mediante una misteriosa somiglianza con il Cristo, che nell’Eucaristia ci offre il suo Corpo, Pane di vita.

 

 

 

 

 

 

 

Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Cons. Evan. 303

 

Cominciamo l'analisi seguendo Matteo, che scrive: Mentre cenavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzo e lo diede ai discepoli dicendo: " Prendete e mangiate; questo è il mio corpo " (Mt 26,26). Le stesse cose narrano Marco e Luca (Mc 14,17-22 Lc 22,14-23); solo che Luca parla due volte del calice, una volta prima della distribuzione del pane e un'altra dopo. La prima volta è un'anticipazione, frequente in lui; la seconda volta, da non confondersi con quella ricordata prima, sta veramente a posto suo. Il racconto cosi combinato delle due volte rende bene il pensiero com'è espresso anche dagli altri. Quanto a Giovanni, egli in questo contesto non parla affatto del corpo e del sangue del Signore, ma, com'è risaputo, in un altro capitolo ci informa che il Signore tenne su questo tema un amplissimo discorso (Jn 6,12-21). Al presente egli racconta del Signore che si alza da mensa e lava i piedi ai discepoli spiegando loro anche il motivo del gesto che aveva compiuto (Jn 13,2-22).

Nel proporre questo motivo il Signore, ricorrendo a una testimonianza scritturale, indica velatamente che il traditore era uno che stava mangiando il pane con lui (Mt 22,21 Mc 14,17 Lc 22,14). Terminata questa digressione, egli si unisce al racconto riportato concordemente dagli altri tre. Scrive: Detto questo, Gesù si turbo nello spirito, s'indigno e disse: " In verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà ".



E continua ancora Giovanni: I discepoli si guardavano l'un l'altro, incerti di chi parlasse (Jn 13,21-22). Matteo e Marco scrivono: Rattristati, cominciarono a chiedergli uno dopo l'altro: " Sono forse io? "(Mt 26,22 Mc 14,17). Rispondendo Gesù disse (cosi Matteo): " Colui che insieme con me bagna la mano nel piatto è lui quello che mi tradirà ". E continua ancora Matteo inserendo le seguenti parole: Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato! (Mt 26,23-24 Mc 14,20-21). In questo racconto concorda anche Marco, che procede nello stesso ordine. Poi Matteo aggiunge: Rispondendo a Giuda, che lo tradiva e gli chiedeva: " Rabbi, sono forse io? ", gli rispose: " Tu l'hai detto " (Mt 26,25). Nemmeno qui è detto espressamente che fosse proprio lui il traditore. Infatti queste parole potrebbero intendersi come: Ma io non ho detto ecc. , e la frase poté essere pronunciata da Giuda - come del resto la risposta del Signore - in modo che non tutti se ne accorgessero.



3. Matteo continua con il racconto del mistero del corpo e del sangue del Signore dato ai discepoli, e lo stesso riferiscono Marco e Luca (Mt 26,26-28 Mc 14,22-24 Lc 22,17-20). Quand'ebbe consegnato il calice il Signore torno di nuovo a parlare del traditore, come segnala Luca: Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell'uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell'uomo dal quale è tradito! (Lc 22,21-22) Da cio si lascia ben comprendere che seguirono a questo punto le parole riportate da Giovanni e omesse dagli altri evangelisti. Del resto anche Giovanni: tralascia dei particolari che gli altri invece riferiscono. Il Signore pertanto passo il calice ai discepoli e poi proferi le parole di cui Luca: Ma ecco che la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. A queste parole sono da collegarsi quelle riportate da Giovanni; Uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava, stava reclinato sul petto di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: " Di', chi è colui a cui si riferisce? ". Ed egli, reclinandosi cosi sul petto di Gesù, gli disse: " Signore, chi è? ". Rispose allora Gesù: " E colui per il quale intingero un boccone e glielo daro ". E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, satana entro in lui (Jn 13,23-27).



4. A questo riguardo c'è da esaminare in che senso Giovanni non sia in contrasto con Luca, se costui, parlando di Giuda, segnala che il diavolo era entrato nel suo cuore già prima, quando cioè contratto con i Giudei e, ricevuto il denaro, s'incarico di tradire il Maestro (Lc 22,3-5). Non solo, ma Giovanni sembrerebbe essere in contraddizione con se stesso, in quanto sopra dice che prima di ricevere il pezzetto di pane, quando era terminata la cena, il diavolo aveva già cacciato nel cuore di Giuda il proposito di tradirlo (Jn 13,2). Come puo infatti il diavolo entrare nel cuore dei malvagi se non cacciando nei loro disegni perversi altri suggerimenti perversi? Ne segue che in questo secondo momento Giuda dovette esser invasato dal demonio in una maniera più radicale: come, in senso diametralmente opposto, accadde agli Apostoli nel ricevere lo Spirito Santo. Essi lo avevano già ricevuto dopo la resurrezione del Signore quando egli, alitando su di loro, disse: Ricevete lo Spirito Santo (Jn 20,22). Che se poi il giorno di Pentecoste lo Spirito fu loro inviato dall'alto, vuol dire che lo ricevettero in misura più abbondante (Cf. At 2,1 ss). Preso dunque il boccone di pane, non c'è dubbio che anche allora satana entro in Giuda e, come immediatamente prosegue Giovanni, in seguito a questo gli disse Gesù: " Quello che devi fare fallo al più presto ". Nessuno dei commensali capi perché gli aveva detto questo; alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: " Compra quello che ci occorre per la festa ", oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Preso il boccone egli subito usci. Ed era notte. Quand'egli fu uscito, Gesù disse: " Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. E Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito "(Jn 13,27-32).

 

 

 

 

 

 



[1]  Zebah selamin in ebraico, eucharisto in greco,

[2] Ciò si compie nel gesto di Gesù che mangia con i peccatori e soprattutto nell’Eucaristia. Il sacrificio di lode (tôdâ = grazie) descritto in Lv 7,11-17, ricorre spesso nei Salmi (cf Sal 22; 116; 107 ...). Lo schema è semplice: una persona si trova in un pericolo, invoca il Signore promettendo un sacrificio di rendimento di grazie, arriva l’aiuto desiderato, la persona va al tempio per offrire il sacrificio promesso.

 

giovedì 1 giugno 2023

Trinità: vuol dire che Dio è unico ma non solitario..

 Solennità della Trinità – Anno A -  4 giugno 2023

 

Rito Romano

Es 34,4-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18

 

Rito Ambrosiano
Es 3,1-15; Sal 67; Rm 8,14-17;Gv 16,12-15

 

 

            1)“Il Padre è l’Amante, il Figlio è l’Amato, lo Spirito Santo è l’Amore” (S. Agostino).

Il dogma della Trinità non è il frutto di fantasie poetiche, non è il risultato di elucubrazioni filosofiche. Non è neppure una fredda formulazione teologica, che offre il pretesto di dire che è un mistero così distaccato dalla nostra vita che più di un cristiano si sente tranquillamente autorizzato a ignorarlo. Il Mistero della Trinità è sì un Mistero grande, che supera la nostra mente, ma che parla profondamente al nostro cuore, perché nella sua essenza altro non è che l'esplicitazione di quella densa espressione di San Giovanni: “Dio è amore” (1 Gv 4, 8.16).  Se Dio è amore, non può essere solitudine in se stesso. Perché per un rapporto d’amore occorre essere almeno in due. Amare soltanto se stessi non è amore, è egoismo. Dio Amore è, allora, almeno uno che ama da sempre e uno che da sempre è amato e ricambia l’amore: un eterno Amante. un eterno Amato e un eterno Amore. 

L’Amante è Dio Padre nell’amore, infinitamente libero e generoso nell’amare, da null’altro motivato all’amore che dall’amore. 

L’Amato, l’eterno Amato, è Colui che accoglie da sempre l'amore: è l'eterna gratitudine, il grazie senza principio e senza fine, è il Figlio nell’amore. 

L’Amore è lo Spirito Santo, nel quale il Loro amore è sempre aperto a donarsi, a “uscire da sé”: perciò lo Spirito è detto dono di Dio, fonte viva dell'amore, fuoco che accende in noi la capacità di ricambiare l’amore con l'amore.

Questo mistero d’amore è concreto e a noi vicino più di quanto pensiamo,  e lo viviamo nella pratica quando, soprattutto nei momenti più importanti o critici in cui abbiamo più bisogno di Dio, facciamo il segno della croce. Segnandoci con questo santo segno, quasi senza esserne pienamente consapevoli, invochiamo Dio Uno e Trino dicendo: “Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo”. Non solo invochiamo Dio Trinità perché ci aiuti, ma Lo lodiamo con la preghiera “Gloria al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo … Amen”, che Santa Teresa di Calcutta spesso recitava così: “Gloria al Padre–Preghiera, e al Figlio-Povertà, e allo Spirito Santo-Zelo per le anime. Amen-Maria”.

 

            2) Liturgia di lode.

Oggi, dunque, la Liturgia della Chiesa ci invita a celebrare la solennità della Santissima Trinità, che non è un dogma astratto, che non incide sulla dalla nostra vita. Il dogma di Dio Uno e Trino ci insegna che Dio è Amore eterno e infinito: “Dio è amore” (Id.), rivelandoci che  Dio, “è comunione di Persone divine le quali sono una con l’altra, una per l’altra, una nell’altra: questa comunione è la vita di Dio, il mistero d’amore del Dio Vivente” (Papa Francesco), e che noi, fatti a immagine e somiglianza di questo Dio, siamo chiamati a vivere questa comunione con Dio, in Lui e per Lui, e tra di noi. D’altronde l’amore è veramente se stesso nella relazione con un altro che lo costituisce: “Per essere carità, l’amore deve tendere verso un altro” (San Gregorio Magno).

Oggi, la Chiesa non solamente ci fa contemplare il mistero stupendo da cui proveniamo e verso il quale andiamo, ci rinnova l’invito a vivere ogni giorno “la comunione con Dio e tra di noi sul modello della comunione divina. Siamo chiamati a vivere non gli uni senza gli altri o contro gli altri, ma gli uni con gli altri e per gli altri” (Papa Francesco).

Oggi, la Liturgia della Chiesa ci fa celebrare la festa della Trinità quale lode a Dio non solamente per quello che Lui fa per noi, ma per come Lui è in se stesso e per noi. Lui è amore purissimo, infinito ed eterno. Dio è Creatore e Padre misericordioso, Dio è Figlio Unigenito, eterna Sapienza incarnata, morto e risorto per noi, Dio è Spirito Santo che tutto muove, la storia e il mondo, verso la piena ricapitolazione finale, per far sì che tutti gli uomini possano dire con tutto il loro essere “Padre nostro”.

Oggi, in questa Solennità, da una parte, siamo chiamati a “contemplare, per così dire, il Cuore di Dio, la sua realtà profonda, che è quella di essere Unità nella Trinità, somma e profonda Comunione di amore e di vita” (Benedetto XVI). Dall’altra siamo invitati a pregare perché il Dio Uno e Trino sostenga la nostra fede, “ci ispiri sentimenti di pace di speranza, e ci dia la grazia per impegnarci negli avvenimenti quotidiani” (Papa Francesco), rendendoci lievito di comunione e di consolazione, di misericordia e di perdono, di grazia e di compassione. 

Questo implica prendere sul serio l’invito che Cristo anche oggi ci rinnova, accogliendo e testimoniando il Vangelo dell’amore. Vivere l’amore di Dio e verso il prossimo, condividendo gioie e sofferenze, imparando a chiedere e concedere perdono.

Ci è chiesto di edificare la Chiesa affinché sia sempre più “popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa bella definizione di San Cipriano (De Orat.Dom. 23; cfr LG 4) ci introduce nel mistero della Chiesa, resa comunità di salvezza dalla presenza di Dio Trinità. Come l’antico popolo di Dio, essa è guidata nel suo nuovo Esodo dalla colonna di nube durante il giorno e dalla colonna di fuoco durante la notte, simboli della costante presenza divina. 

 

2) La Trinità nella nostra vita.

Tutta la vita cristiana è accompagnata dalla Trinità. Direi di più, e spero di dire bene, la Trinità è la “stoffa” della nostra vita. In effetti, siamo battezzati (=immersi)  nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e siamo chiamati ad aver parte alla vita della Beata Trinità, quaggiù nell'oscurità della fede, e, oltre la morte, nella luce eterna” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 263).

E non il Battesimo soltanto, ma anche tutti gli altri Sacramenti della Chiesa sono conferiti con il segno della Croce e nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 

In effetti, siamo stati confermati con l’unzione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 

Nel sacramento della Penitenza Siamo perdonati per i nostri peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 

Sempre in questo nome gli sposi sono uniti in Matrimonio ed il loro amore è elevato in quello di Dio che si fa garante della loro reciproca fedeltà.

Nell’Eucaristia il Dio Trinità, che in se stesso è amore (cfr 1 Gv 4,7-8), si coinvolge pienamente con la nostra condizione umana. Nel pane e nel vino consacrati è l'intera vita divina che ci raggiunge e si partecipa a noi nella forma del Sacramento. 

Nell’Ordinazione Sacerdotale i preti sono consacrati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Grazie a ciò il sacerdote si trova inserito nella dinamica trinitaria con una particolare responsabilità. La sua identità scaturisce dal ministero della Parola e dei Sacramenti, il quale è in relazione essenziale con il mistero dell’amore salvifico del Padre (cfr. Gv 17,6-9.24; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1), con l’essere sacerdotale di Cristo, che sceglie e chiama personalmente il suo ministro a stare con Lui (cfr Mc 3,15), e con il dono dello Spirito (Cfr Gv 20,21)” (Congregazione per il Clero, Direttorio per il Ministero e la vita dei Presbiteri, 11 Febbraio 2013).

            Nella malattia e nell’ultima ora,  quando il sacerdote ci ungerà , lui raccomanderà l’anima nel nome del Padre che ci ha creati, del Figlio che ci ha redenti e dello Spirito Santo che ci ha santificati.

            In questo modo tutta la nostra esistenza di cristiani si trova sotto l’irradiazione della Trinità, che abita in noi in stato di grazia: “Noi verremo a lui – ci ha promesso Gesù – e fare la nostra dimora in Lui”.

            Se quella di essere dimora di Dio, abitazione vivente della Trinità, è vocazione di ogni cristiano, lo è in modo particolare per le Vergini consacrate.

Con dono completo di se stesse nelle mani del Vescovo, queste donne  testimoniano in modo speciale la dimensione trinitaria della vita cristiana.

            In effetti, la verginità è in qualche modo la deificazione dell’uomo: “Non si può fare miglior elogio della verginità se non mostrando che essa deifica, per così dire, coloro che partecipano ai suoi puri misteri, al punto di farli comunicare alla gloria di Dio, il solo veramente santo e immacolato, ammettendoli nella propria familiarità grazie alla purezza e alla incorruttibilità” (San Gregorio di Nissa, De Virginitate,  1, 1-2; 256 s.)

 

La verginità ha dunque origine dalla Trinità e si vive nella Trinità, legata com’è alla generazione del Figlio da parte del Padre, portata come dono agli uomini dal Verbo che viene nel mondo allo stesso modo con cui è generato dal Padre, ossia verginalmente, da una Vergine. È così che nel cristiano la verginità produce effetti analoghi a quelli verificatisi “in Maria, l’Immacolata, quando tutta la pienezza della divinità che era nel Cristo risplendette in lei (...). Gesù non viene più con la sua presenza fisica, ma vive spiritualmente in noi e, con sé, ci porta il Padre” (Ibid., 2).

Che questo ideale di vita caratterizzato dalla verginità almeno spirituale venga proposto a tutti i cristiani, anche sposati, come esigenza di perfezione, è chiaro. Ma il Nisseno e gli altri Padri vedono chiaramente che chi sceglie, sempre per dono di Dio, la verginità anche corporale astenendosi dal matrimonio, imitando Gesù e Maria, ritrova l’integrità originaria nella quale l’uomo è stato creato o, come dice il santo vescovo di Nissa, la condizione “del primo uomo nella sua prima vita” (Ibid., 12, 4. 4; 416 s).

 

Lettura Patristica

Salviano di Marsiglia (405 – 451)

De gubernatione, 4, 9-10


       Chi lavora un campo, lo lavora per conservarlo coltivato. Chi pianta una vigna, la pianta per custodirne le viti. Chi mette insieme un gregge, lo fa per dedicarsi poi a moltiplicarlo. E chi edifica una casa o pone delle fondamenta, anche se già non vi abita, abbraccia il lavoro a cui si sobbarca nella speranza della futura dimora. E perché debbo fermarmi a parlare dell’uomo, quando gli stessi animali più piccoli fanno tutto per la brama di beni futuri? Quando le formiche nascondono nei loro cunicoli sotterranei chicchi di ogni genere, li depositano, li ammassano tutti per amore della loro stessa vita? Le api, quando costruiscono il fondo dei favi o colgono il polline dei fiori, perché vanno in cerca del timo se non per desiderio del miele? E perché si affannano dietro i fiori, se non per amore della futura prole? Dio dunque, che infonde anche agli animali più piccoli l’amore per le loro opere, avrà privato solo se stesso dell’amore per le sue creature? Tanto più che l’amore per ogni realtà buona discende in noi dal suo amore sublime. È lui infatti la fonte, l’origine di tutto; e poiché, come sta scritto: "In lui viviamo, ci muoviamo e siamo" (Ac 17,28), da lui abbiamo ricevuto tutto l’affetto con cui amiamo le nostre creature.



       Ma tutto il mondo, tutto il genere umano è una sua creatura. Così dall’amore con cui amiamo le nostre creature egli ha voluto che noi comprendessimo quanto egli ama le sue creature. Infatti, come leggiamo, "l’intelletto contempla la Sua realtà visibile per il tramite di ciò che è stato fatto" (Rm 1,20); così egli volle che noi comprendessimo il suo amore per noi dall’amore che egli ci ha dato per i nostri cari. E come volle - come sta scritto - "che ogni paternità e in cielo e in terra prendesse nome da lui" (Ep 3,15), volle anche che noi riconoscessimo il suo affetto paterno. E dirò solo paterno? Anzi più che paterno. Lo prova la voce del Salvatore nel Vangelo, che dice: "Tanto infatti Dio ha amato questo mondo da dare il suo Figlio unico per la vita del mondo" (Jn 3,16). E l’Apostolo dice: "Dio non perdonò a suo Figlio, ma lo sacrificò per noi. Come dunque con lui non ci avrà donato tutto?" (Rm 8,32).

       Ecco dunque, come ho detto: Dio ci ama più che un padre il proprio figlio. Ed è evidente che il suo affetto per noi è maggiore dell’affetto per i figli, perché per amore nostro non risparmiò il suo Figlio. E che più? Aggiungo: il Figlio giusto, il Figlio unigenito, il Figlio di Dio. Che si può dire ancora? Per noi: cioè per i malvagi, per gli iniqui, per gli empi. Chi potrà dunque misurare l’amore di Dio verso di noi?