Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa di Mezzanotte
25 dicembre 2021
Premessa.
Con la Messa della Notte, la liturgia ci introduce nel grande Mistero dell’Incarnazione. Il Natale, infatti, non è un semplice anniversario della nascita di Gesù. E’ anche questo, ma è di più, è celebrare un Mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo: Dio stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), si è fatto uno di noi. E’ un Mistero che interessa la nostra fede e la nostra esistenza: un Mistero che viviamo concretamente nelle celebrazioni liturgiche, in particolare nella Santa Messa.
Tuttavia, in molti nascono queste domande: “Come è possibile che io viva adesso questo evento così lontano nel tempo? Come posso prendere parte fruttuosamente alla nascita del Figlio di Dio avvenuta più di duemila anni fa?”.
Il ritornello al Salmo Responsoriale della Messa di questa Notte ci fare ripetere varie volte:: “Oggi è nato per noi il Salvatore”. Questo avverbio di tempo, «oggi», ricorre più volte in tutte le celebrazioni natalizie ed è riferito all’evento della nascita di Gesù e alla salvezza che l’Incarnazione del Figlio di Dio viene a portare. Nella Liturgia tale avvenimento oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo e diventa attuale, presente; il suo effetto perdura, pur nello scorrere dei giorni, degli anni e dei secoli. Indicando che Gesù nasce «oggi», la Liturgia non usa una frase senza senso, ma sottolinea che questa Nascita investe e permea tutta la storia, rimane una realtà anche oggi alla quale possiamo arrivare proprio nella liturgia. A noi credenti la celebrazione del Natale rinnova la certezza che Dio è realmente presente con noi, ancora “carne” e non solo lontano: pur essendo col Padre è vicino a noi. Dio, in quel Bambino nato a Betlemme, si è avvicinato all’uomo: noi Lo possiamo incontrare adesso, in un «oggi» che non ha tramonto.
In questo Bambino Gesù, il Figlio di Dio, Dio stesso, Dio da Dio, si è fatto uomo. A Lui il Padre dice: “Tu sei mio figlio”. L’eterno oggi di Dio è disceso nell’oggi effimero del mondo e trascina il nostro oggi passeggero nell’oggi perenne di Dio. Dio è così grande che può farsi piccolo. Dio è così potente che può farsi inerme e venirci incontro come bimbo indifeso, affinché noi possiamo amarlo. Dio è così buono da rinunciare al suo splendore divino e discendere nella stalla, affinché noi possiamo trovarlo e perché così la sua bontà tocchi anche noi, si comunichi a noi e continui ad operare per mezzo di noi.
Questo è Natale: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. Dio è diventato uno di noi, affinché noi potessimo essere con Lui, diventare simili a Lui. Ha scelto come suo segno il Bimbo nel presepe: Egli è così. In questo modo impariamo a conoscerLo. E su ogni bambino rifulge qualcosa del raggio di quell’oggi, della vicinanza di Dio che dobbiamo amare ed alla quale dobbiamo sottometterci - su ogni bambino, anche su quello non ancora nato.
1) Di notte, in una grotta, la Vergine Maria dà alla luce la Luce.
Il primo Natale1 di Gesù fu celebrato in grotta utilizzata come stalla, perché Dio ha voluto entrare nel mondo dal punto più basso. In questo modo nessun essere umano è più in basso di lui e, a partire da chi è più in basso, tutti sono raggiunti dal Suo abbraccio di luce, di amore e di pace. Sì, il Figlio di Dio nasce per noi in una stalla a Betlemme. Lui, che è luce pura, splendore della verità e dell’amore, comincia a splendere in un umile, povera, vera stalla. Il primo luogo dove il Figlio di Dio fatto Uomo è accolto è dove l’uomo mette gli animali. Una stalla con paglia e fieno e con l’odore acre e sgradevole che tanto esprime la nostra piccolezza di fronte alla grandezza di Dio. Un Dio che non ha paura di farsi avvolgere da quegli odori e che accoglie ogni uomo nella sua debolezza e fragilità. Questa stalla reale diventa un’abitazione regale, dove il neonato Re dei re è accolto. Questo piccolo, che è armato della sua Innocenza, è deposto nella mangiatoia, segno del destino di questo Bambino che si fa pane per essere mangiato dagli uomini.
Andiamo anche noi con la mente e con il cuore a Betlemme (che vuol dire Casa del Pane). Questo bambino è stato “messo” in una mangiatoia. Mi pare che questo segno abbia anche questo significato: Gesù neonato “mette” fra noi la presenza delicata e pacificante di Dio, perché Lui è il Dio fra noi, Lui è l’Emmanuele, , il “Dio con noi” per sempre.
E’ un bambino avvolto in fasce, che non può fare niente. E’ un infante (=non parlante), che non può dire niente: “può” solamente essere presente. Non è un’utopia, è una presenza, che porta la pace senza imporla con le armi: questo Bambino è Dio potente, ma disarmato.
E’ pacificante e disarmato il Figlio di Dio: Gesù (che vuol dire Dio salva) ci salva per mezzo della sua mitezza e umiltà, che il mistero del suo Natale in una stalla esprime molto bene.
E’ nostro Fratello: “Gesù neonato è nostro fratello di sangue” (Card. Albert Vanhoye, S.I.), dunque, la sua presenza è una presenza fraterna. Gesù ci dona questa presenza fraterna, che ci riconcilia con la nostra modesta esistenza quotidiana e ci riconcilia con gli altri. Investire in fraternità è l’unico investimento che produce una vera crescita umana.
E così il sogno utopico dell’umanità cominciato nel Paradiso terrestre - quello di voler essere come Dio, di potere tutto e di non morire - si realizza in modo inaspettato non per la grandezza dell’uomo che non può farsi Dio, ma per l’umiltà di Dio che scende e così entra in noi nella sua umiltà e ci eleva alla vera grandezza del suo essere.
Nel silenzio della notte, lontano dai rumori e dalle luci della mondanità, raccogliamoci per scorgere la luce della salvezza che inizia. Con le orecchie del cuore ascoltiamo l’invito degli angeli a riconoscere che il nostro Dio è Luce vera e Vita d’Amore e vuole indicarci la sua Via per raggiungerla. Allora anche noi ci uniremo al canto degli Angeli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”.
2)Scossi dalla luce e dal canto degli Angeli.
La notte del primo Natale fu illuminata da luce e canti. Ma prima che ciò accadesse, per Maria e Giuseppe dovette certamente comportare turbamento e insicurezza il fatto di trascorrere la notte a Betlemme, cittadina periferica dell’Impero romano, in una grotta-stalla, perché non c’era posto nell’albergo. Ma è corretto pensare che tali sentimenti siano scomparsi man mano che cresceva in loro la gioia portata dal Bambino Gesù, che si trovavano ad accogliere in un luogo così povero e periferico.
Scossi dalla luce e dal canto angelico, anche i pastori furono sorpresi dalla gioia. Quella notte che deve essere stata di sorpresa e turbamento divenne notte di luce, di gioia e contentezza inesprimibili, quando arrivarono trafelati alla mangiatoia. Hanno dato ascolto all’annuncio degli angeli non per ubbidire a un comando, ma per esigenza di infinito del loro cuore. Il cielo e la terra finalmente si incontrano.
Raggiunta la grotta, i pastori videro il Bambino e credettero. Lo guardano con gli occhi e contemplarono con il cuore puro, semplice e povero, è così seppero riconoscere negli occhi del Neonato quelli di Dio, nella Sua fame quella di Dio, nella Sue manine tese le mani tese di Dio verso di loro. E perciò i pastori fecero festa perché era loro “apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri umani e a vivere con sobrietà, pietà e giustizia in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nuovo grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tito 2, 11-14).
Anche noi siamo invitati a fare festa e che ogni nostra festa provi ad assomigliare a quella festa i cui i pastori, uomini semplici e poveri, si sono rallegrati con Giuseppe e Maria per la nascita di quel bambino che è venuto a portare la gioia e la pace nel mondo. La luce festosa del Bambino non sta semplicemente davanti a loro ma li avvolge, entra nella loro vita, essi accolgono quell’annuncio che non è per loro soli, ma è una luce che è per tutto il popolo. Custodi di un gregge ora sono custodi di un mistero da conoscere e poi irradiare a tutti. Imitiamoli.
Come imitarli ci è detto dalle letture della Messa della Notte, citate all’inizio. I testi sacri della liturgia ci dicono che quando si ascolta la Parola e la si accoglie come hanno fatto la Madonna, Giuseppe e i pastori, la fede ci fa camminare nelle tenebre. Se questa Parola poi è calata nella nostra vita, essa ci fa muovere come accadde la notte del primo Natale. Questo cammino si trasforma in un incontro che nella notte di Natale diventa vero, perché il Verbo si è fatto carne, ma non come possiamo immaginare noi, ma in un bambino piccolo e fragile che deve crescere.
Il brano di Isaia ci parla di una grande “luce”, che è scesa sulla terra. Il Profeta ci presenta la figura di un liberatore che reca con sé i doni della luce, della gioia e della liberazione, per un popolo che è nelle tenebre e non ha più speranza. Finalmente quella luce è arrivata: è nato il figlio di Dio, Gesù, venuto a portare la gioia e la pace, che devono nascere in primo luogo nel nostro cuore per poi propagarsi a tutti quelli che incontriamo ogni giorno in famiglia, negli ambienti di lavoro, nelle nostre comunità, nella Chiesa.
Dio, che si è fatto come noi per farci come lui, ci offre questo bambino che è fratello nostro; noi dobbiamo riconoscerlo, amarlo, curarlo, sostenerlo e lasciarlo tra noi e in noi. Oggi il Verbo si fa carne per aiutarci a crescere ogni giorno.
Colui che nel prologo del suo Vangelo San Giovanni chiama in greco “O Logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” - significa anche “il Senso”. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo” (Benedetto XVI). Il “Senso o Significato” si è fatto carne. Non si tratta di un’idea per spiegare il mondo, è “Parola” rivolta a noi. E’ la Parola che dà la vita, che è la vita. E’ la comunicazione fatta ad ogni essere di qualcosa della vita di Dio. Non è un linguaggio morto e sclerotizzato, un ordine stabilito una volta per tutte come l’ordine di un cimitero. E’ una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme e che per tutti gli essere umani è luce, luce d’amore, d’amore misericordioso e di gioia.
Apriamo gli occhi a questa luce e cerchiamo di portarle nel mondo ai nostri fratelli e sorelle in umanità, mettendo tutta la nostra vita sotto il segno della misericordia e della fedeltà.
Le Vergini consacrate nel mondo sono speciali testimoni di questa vita vissuta sotto il segno della misericordia e della fedeltà. Queste donne hanno consacrato se stesse perché sanno che l’amore di Cristo, loro Sposo, è ricco di inesauribile fedeltà e misericordia.
Misericordia cioè perdono e giustizia che ricrea il cuore dell’essere umano e lo rende capace di donare gratuitamente.
Fedeltà, cioè impegno perseverante e incondizionato. Dio si è donato una volta per tutte nella sua Parola. Consacrazione verginale e donarsi completamente e solamente alla sua Parola, impegnarsi verso Colui che si è impegnato verso di noi senza ripensamenti. Ciò implica essere fedeli, perseveranti, tenaci in tutto, sapendo che la fedeltà umana ha il suo nido nel cuore di Dio.
Essere vergini consacrate vuol dire essere segno della misericordia e della fedeltà, essere “luogo” di misericordia dove vita di Cristo donata genera vita qui sulla terra e per l’eternità.
1 Siamo nel tempo liturgico del Natale, che inizia la sera del 24 dicembre con la vigilia e si conclude con la celebrazione del Battesimo del Signore. L’arco dei giorni è breve, ma denso di celebrazioni e di misteri e si raccoglie tutto intorno alle due grandi solennità del Signore: Natale ed Epifania. Possiamo quasi dire che nella festa del Natale si sottolinea il nascondimento di Dio nell’umiltà della condizione umana, nel Bambino di Betlemme. Nell’Epifania, invece, si evidenzia il suo manifestarsi, l’apparire di Dio attraverso questa stessa umanità.
Letture Patristiche
Basilio di Cesarea
Epist. 234, 2
La conoscenza di Dio
«Ma, dice, se ignori la sua essenza (di Dio), ignori lui». Tu però controbatti: «Se dici di conoscere l’essenza, non conosci lui». Infatti, chi, morso da un cane rabbioso, vede il cane nel bicchiere, non vede meglio di quelli che sono sani; ma proprio per questo è degno di compassione, in quanto crede di vedere ciò che non vede. Non ammirarlo dunque per ciò che promette, ma stimalo degno di pietà per la sua follia. Pertanto, abbi certo che la frase: «Se ignori l’essenza di Dio, veneri ciò che ignori», è di gente che vuol scherzare. Io invece so che esiste: quale ne sia poi l’essenza, la ritengo cosa al di sopra dell’intelligenza. Come mi salvo dunque? Attraverso la fede? La fede basta a farci sapere che Dio c’è, non a dirci cosa egli sia; e che egli ricompensa quanti lo cercano. La conoscenza dell’essenza (di Dio) consiste dunque nella considerazione che non possiamo comprenderlo. Veneriamo ciò di cui sappiamo non quale sia l’essenza, ma che questa essenza esiste.
Leone Magno
Sermoni, 21
Cristo potenza e sapienza di Dio
Il Verbo di Dio, dunque, Dio, Figlio di Dio che "era all’inizio presso Dio e per mezzo di cui tutto è stato fatto e senza di lui nulla è stato fatto" (Jn 1,2-3), si è fatto uomo, per liberare l’uomo dalla morte eterna; e si abbassò ad accettare la nostra umiltà, senza diminuire la sua maestà, in modo che restando quello che era e assumendo quello che non era, unì in sé una vera natura di servo alla natura sua, nella quale è identico a Dio Padre. Le unì con un legame tanto stretto, che la gloria non consumò la natura inferiore né l’assunzione diminuì la natura superiore. Restando integra ogni proprietà di ambedue le nature e convenendo in un’unica persona, dalla maestà viene assunta l’umiltà, dalla forza l’infermità, dall’eternità la mortalità; e per cancellare il debito della nostra condizione, la natura passibile si è unita alla natura inviolabile: il Dio vero e l’uomo vero sono presenti nell’unico Signore; così, come richiedeva la nostra redenzione, l’unico e identico mediatore tra Dio e l’uomo poté morire per l’uno e risorgere per l’altro. A buon merito dunque il parto salutare non recò corruzione all’integrità verginale: preservò il pudore e propagò la verità. Una tale nascita si convenne a Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio: per essa, fu simile a noi nell’umanità e tanto superiore a noi nella divinità. Se infatti non fosse stato vero Dio, non avrebbe portato a noi rimedio; se non fosse stato uomo vero, non ci avrebbe dato l’esempio. Per questo gli angeli, esultando, alla nascita del Signore cantano: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli" mentre si annuncia "sulla terra pace agli uomini di buona volontà" (Lc 2,14). Vedono infatti che con le genti di tutto il mondo vien costruita la celeste Gerusalemme; e di questa ineffabile opera della divina bontà, quanto deve rallegrarsi l’umiltà degli uomini, dato che tanto gode la sublimità degli angeli?
Perciò, carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre, per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, che per la sua grande misericordia con cui ci amò ha avuto pietà di noi ed "essendo noi morti al peccato, ci vivificò in Cristo" (Ep 2,5), affinché fossimo in lui una nuova creatura, una nuova struttura (Ep 2,10). Spogliamoci dunque del vecchio uomo con le sue azioni (Ep 4,22 Col 3,8) e, partecipi della nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne.
Riconosci o cristiano la tua dignità e, consorte ormai della divina natura, non tornare alla bassezza della tua vita antecedente, depravata. Ricordati di quale capo e di quale corpo tu sei membro. Rammenta che sei stato strappato dal potere delle tenebre e sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio. Col sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo (1Co 3,16): non cacciare da te con le azioni cattive un ospite tanto degno e non assoggettarti di nuovo alla schiavitù del demonio: il tuo prezzo è il sangue di Cristo. Ti giudicherà nella verità, come ti ha redento per misericordia, egli, che con il Padre e lo Spirito Santo regna nei secoli dei secoli.
Agostino
In Ioan. 15, 19
Dio luce della mente
Dunque, fratelli miei, avere l’anima, e non avere l’intelligenza - cioè non farne uso né vivere secondo essa -significa vivere da bestie. C’è in noi qualcosa di bestiale, in effetti, per il quale viviamo nella carne: ma l’intelletto deve governarlo. L’intelletto, infatti, governa dall’alto i moti dell’anima che si muove secondo la carne e brama effondersi senza freno nei piaceri carnali. A chi dev’essere dato il nome di marito? A colui che governa, o a colui che è governato? Senza alcun dubbio, quando la vita è ben ordinata, l’anima è governata dall’intelletto, che appartiene all’anima stessa. L’intelletto non è infatti qualcosa di diverso dall’anima; esso è qualcosa dell’anima; come l’occhio non è qualcosa di altro dalla carne, ma è qualcosa della carne. Ma pur essendo l’occhio qualcosa della carne, esso solo gioisce della luce; le altre membra del corpo possono esser inondate dalla luce, ma non possono percepirla. Soltanto l’occhio può essere inondato dalla luce e insieme gioirne. Così nella nostra anima c’è qualcosa che è chiamato intelletto. Questa parte dell’anima che è chiamata intelletto e spirito, è illuminata da una luce superiore. Questa luce superiore da cui la mente umana è illuminata, è Dio. Era la vera luce che illumina ogni uomo che viene al mondo (Jn 1,9).