14ª
Domenica del Tempo Ordinario Pentecoste – Anno A – 5 luglio 2020
Rito
Romano
Zc
9,9-10; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30
Rito
Ambrosiano
4ª
Domenica dopo Pentecoste
Gen
6,1-22; Sal 13; Gal 5,16-25; Lc 17,26-30.33
Premessa.
Prima
di commentare il vangelo di questa XIV domenica del Tempo Ordinario,
è utile illustrare brevemente la preghiera di Gesù a Dio Padre che
è proposta oggi.
Prima
di tutto il Figlio di Dio benedice il
Padre. Benedire vuol dire dir bene in pubblico,
vuol dire essere contento di lui ed esprimere questa gioia su di lui.
La preghiera è fondamentalmente
benedizione, essere contenti di Dio. Lui bene-dà,
noi bene-diciamo,
il che vuol dire che riconosciamo
il bene che Lui ci dà
come dono, e che sperimentiamo in tutte le
cose che ci dà
il suo amore. Nella benedizione noi, invece
di fermarci alla cosa che dà,
facendone un feticcio, andiamo a lui e al
suo amore. E quando non benediciamo, in
fondo, ci
appropriamo delle cose in modo
idolatrico ed
esse diventano il nostro
Dio.
Dunque,
la benedizione è ciò
che ci toglie dall’idolatria.
Solamente Dio va
benedetto, poi anche tutti gli
essere umani perché
sono suoi figli. E questo Dio si chiama Padre. La parola Padre, in
ebraico Abbà, è da considerare il
centro di tutta la rivelazione cristiana. Abbà
è il primo balbettare del bambino. E come
attraverso “ba, ba; ba, ba.” il
bambino entra in comunione col Padre, così dicendo “Abba”
per noi Dio è riconosciuto come Padre.
Gesù
ha posto sulle nostre labbra
e nel nostro cuore questa parola
“Abba”, che Dio è
Padre con tutto ciò che comporta il
termine Padre.
Alla
luce di queste annotazioni, potremmo domandarci: “Cosa
è venuto a portarci Gesù?
Il Figlio di Dio fatto uomo è venuto a portarci un
rapporto diverso con Dio. Proprio attraverso la parola più
fondamentale, anzi è la prima parola
appunto che il bambino dice e che è
rivolta a una persona e che non esprime solamente un
bisogno o lamento. Dicendo “papà”
realizziamo vera comunicazione, una
comunicazione di fiducia, di tenerezza, di amore.
Gesù
è venuto a restituirci ciò
che siamo: siamo figli e noi, esseri
umani, non possiamo esistere
se non quando possiamo abbandonarci
ad un amore infinito. Prima
di aver sperimentato questo e in
cerca di questo, non abbiamo motivo
sufficiente per esistere. Siamo
sempre in stato di abbandono
e di ricerca di conferme
di amore, di valore. Il nostro valore è
infinito, è l’amore infinito che Dio ha
per il Figlio: “Li hai amati come ami me”
dice Gesù di ciascuno di noi, cioè
Dio ci ama di un amore unico e totale, come
il Padre ama il Figlio e Gesù è
venuto a rivelarci questo e a donarcelo. Ne deriva
un atteggiamento di libertà.
Il Figlio è Figlio
perchè libero di amore, di abbandono, di
tenerezza, di dono. Dicendo il
“Padre Nostro” riceviamo il sorriso del Padre
sulla nostra vita, che
-quindi- è
nella sicurezza, nella fiducia.
Dopo
il cammino della Quaresima, della Passione (la Via della Croce) e
della Pasqua (la Via della Luce), dopo le solennità della Trinità
(Comunione d’Amore e di Luce) e del Corpo di Cristo (il dono della
Sua vita per la nostra), la Liturgia riprende i passi del “tempo
ordinario”. La Liturgia ci offre la Parola di Dio per continuare il
percorso iniziato a gennaio, invitandoci a seguire Gesù e ad
ascoltare quello che ha da dirci nella vita ordinaria di oggi.
Oggi
le parole di Cristo sono davvero consolanti: “Venite a me, stanchi
e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro
per la vostra vita” (Mt 11, 29-30). All’umiltà del Figlio
di Dio che si incarna bisogna rispondere con l’umiltà della nostra
fede. L’umiltà di riconoscere che per vivere ci è necessaria la
bontà misericordiosa di un Dio che perdona ogni giorno. E noi ci
rendiamo simili a Cristo, l’unico Perfetto, nella misura più
grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia,
imitando Lui che è mite e umile di cuore.
Non
dobbiamo, poi, dimenticare le parole del profeta Zaccaria: “Così
dice il Signore: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila,
figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo Re. Egli è giusto e
vittorioso; umile, cavalca un asino,
un puledro, figlio di asina.
Farà sparire i carri di Efraim e i cavalli di Gerusalemme, l'arco di
guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio
sarà da mare a mare,
e dal fiume ai confini della terra” (Zc
9,9-10 – Prima lettura della Messa di oggi). Parole che fanno da
cornice a quelle di Gesù che oggi ci sono proposte, come a quelle
della beatitudine in cui Lui dice: “Beati i miti perché
possiederanno la terra” (Mt 5,5). Se teniamo unita questa
beatitudine all’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di
cuore” (Mt 11, 29), ne deduciamo che le beatitudini non sono
solo un bel programma etico che il maestro traccia, per così dire a
tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesù. È lui
il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la
giustizia, è lui il vero re di pace che ristora i suoi sudditi e li
protegge con lo scettro della Croce, scettro di potente mitezza.
In
effetti, la prova più alta della mitezza regale di Cristo è la sua
passione. Nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non
rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta” (1
Pt 2, 23). Questo tratto della persona di Cristo si era talmente
stampato nella memoria dei suoi discepoli che san Paolo, volendo
scongiurare i Corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro:
“Vi esorto per la mitezza e la benignità di Cristo” (2 Cor
10, 1). Ma Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e
pazienza eroica; ha fatto della mitezza il segno della vera
grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli
altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli
altri. Sulla Croce, dice Sant’Agostino, egli rivela che la vera
vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima,
“Vincitore perché vittima (Victor quia victima)” (Le
Confessioni, 10, 43).
2)
Umili di cuore.
In
un mondo in cui tutti dicono che bisogna farsi avanti, il Vangelo
invita a farsi indietro. “Imparate da me che sono mite e umile
di cuore e ecco troverete ristoro per le vostre anime” (Mt
11, 29). “Mite e umile” sono due termini che Gesù applica
a se stesso. E giustamente, perché indicano il suo atteggiamento
verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio un atteggiamento di
confidenza, obbedienza e docilità. Verso gli uomini un atteggiamento
di accoglienza, pazienza, discrezione, disponibilità e perdono,
addirittura di servizio. E anche l'aggiunta “di cuore” non è
senza importanza. Indica che le disposizioni di Gesù - verso il
Padre e verso i fratelli - si radicano nel profondo del suo cuore e
coinvolgono tutta la sua Persona.
E’
vero che l’umiltà, come la povertà, appare una condizione perché
l’uomo possa vivere un rapporto con Dio, anzi è la condizione
essenziale a viverlo. Ma, come San Francesco d’’Assisi l’intuì,
è altrettanto vero che l’umiltà è una caratteristica di Dio.
Quando
un essere umano s'inginocchia davanti a Dio, il Signore del cielo,
non è umiltà, è soltanto realismo. Quando Dio si china sul malato,
sul peccatore, quando s’inchina per lavare i piedi all’uomo,
questa è umiltà divina. Incarnandosi, il Figlio di Dio non rinnega
la sua dignità infinita, la manifesta in un modo sublime, delicato e
pieno di amore. Dio si abbassa per donarsi totalmente all’uomo, per
salvarlo. Si fa “nulla”, perché l’uomo sia tutto.
E
ciò non avvenne solamente una volta più di duemila anni fa, avviene
ogni volta che Egli si fa presente nella Messa sotto le specie del
pane e del vino per donarsi, per essere mangiato: la Messa trova il
suo compimento nella comunione eucaristica nella quale Egli
totalmente si dà, cosi da sparire. E tutto per ciascuno di noi e in
ciascuno di noi.
Dio
è umiltà perché amore, insegna San Francesco d’Assisi, che
conosceva Dio in modo sublime, sia perché ne aveva esperienza, sia
perché meditava nella Chiesa le Sacre Scritture. In effetti, già
nell'Antico Testamento Dio afferma che “le sue delizie (di Dio)
sono nell'essere coi figli degli uomini”. Pensiamo alla gioia del
Padre di essere nel cuore di Gesù, pensiamo alla gioia di Gesù per
il fatto che Dio si è compiaciuto di nascondere la sua grandezza ai
grandi per rivelarla invece ai piccoli e ai dimenticati fino al punto
di farsi garante di questa nostra povera, fragile vita umana, e
subirne la sorte. San Paolo accenna a questo mistero quando dice:
“Lui che sussistendo in forma di Dio, non ritenne come geloso
possesso l’essere a pari con Dio, ma spogliò se stesso, prese
forma di servo in somiglianza di uomini ridotto, e all’aspetto
trovato come uomo... Per questo Dio lo sopraesaltò e gli diede un
nome che è sopra ogni nome” (cfr. Fil 2, 6-9). Ecco
l'umiltà di Dio, cioè la sua Condiscendenza a ciò che al suo
cospetto è nulla; possibile solo, perché egli è l’Onnipotente.
Ecco l’umiltà di Gesù Cristo “Anche Lui, il Figlio di Dio, si
abbassa per ricevere l’amore del Padre” (Papa Francesco, omelia
del 27 giugno 2014).
Insomma,
l’amor cristiano, quell’amore che la vita di Gesù porta, e che
secondo San Giovanni è Dio stesso, riposa sull’umiltà.
3)
Umiltà fondamento della vita spirituale.
Concludiamo
accennando al fatto che l’umiltà è il fondamento della vita
spirituale in particolare per le Vergini consacrate nel mondo.
La
vita spirituale implica sempre il sentimento del proprio nulla nei
confronti di Dio, un nulla che non esclude il fatto che la
creatura esista. Esclude però ogni sentimento di opposizione, ogni
sentimento di alterità, ogni sentimento che dia all’uomo la
coscienza di essere qualche cosa indipendentemente da Lui e non in
Lui e per Lui. La creatura per tutto quello che è, è da Dio ed è
in Dio.
Con
il riconoscimento di Dio come Signore è implicato dunque un certo
annientamento interiore del nostro io. Nella luce infinita di Dio,
l’uomo scompare; come il sole, che non appena sale all'orizzonte,
eclissa le stelle.
Dio
si rivela a noi attraverso la creazione, ma la sua rivelazione più
perfetta è Gesù Cristo. E Cristo, per Francesco d’Assisi, è
umiltà. Egli non sa riaversi dallo stupore provocato da una sua
contemplazione del mistero cristiano come mistero di suprema umiltà:
l’umiltà del Cristo nella sua nascita, nella sua passione,
nell’Eucaristia.
Con
particolare affetto e devozione le Vergini consacrate nel mondo
coltivano con la Vergine Maria, modello di ogni sequela e di ogni
consacrazione, l’umile confidenza filiale, la preghiera di
intercessione, la contemplazione dei misteri del suo Figlio Gesù.
Esse testimoniano nella Chiesa che la fedeltà del cristiano ha il
suo nido nella fedeltà di Dio, che manifesta l’umiltà del suo
cuore: Gesù non è venuto a conquistare gli uomini come i re e i
potenti di questo mondo, ma è venuto ad offrire amore con mitezza e
umiltà.
Queste
donne si lasciano avvolgere dalla fedeltà umile e dalla mitezza
dell’amore di Cristo, rivelazione della misericordia del Padre. La
loro vocazione è quella di servire Dio nel mondo con umile coraggio,
con tutta la forza del loro cuore, realizzando nella vita quotidiana
la preghiera di consacrazione che il Vescovo da su di loro: “Con la
grazia dello Spirito Santo, ci siano sempre in loro prudenza e
semplicità, mitezza e delicatezza, umiltà e libertà” (Rituale
della Consacrazione della Vergini, n 24)
1
Per
scoprire chi sono i miti proclamati beati da Gesù, è utile passare
brevemente in rassegna i vari termini con cui la parola miti
(praeis) è resa nelle traduzioni moderne. L’italiano ha due
termini: miti e mansueti. Quest’ultimo è anche il termine usato
nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti. In francese la
parola è tradotta con doux, alla lettera “i dolci”, coloro che
possiedono la virtù della dolcezza. (Non esiste in francese un
termine specifico per dire mitezza; nel “Dictionnaire de
spiritualité” questa virtù è trattata alla voce douceur,
dolcezza).
In
tedesco si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva il termine
con Sanftmuetigen, cioè miti, dolci; nella traduzione ecumenica
della Bibbia, la Eineits Bibel, i miti sono coloro che non fanno
alcuna violenza – die keine Gewalt anwenden-, dunque i
non-violenti; alcuni autori accentuano la dimensione oggettiva e
sociologica e traducono praeis con Machtlosen, gli inermi, i senza
potere. L’inglese rende di solito praeis con the gentle,
introducendo nella beatitudine la sfumatura di gentilezza e di
cortesia.
Ognuna
di queste traduzioni mette in luce una componente vera ma parziale
della beatitudine. Bisogna tenerle insieme e non isolarne nessuna,
per avere un’idea della ricchezza originaria del termine
evangelico. Due associazioni costanti, nella Bibbia e nella
predicazione cristiana antica, aiutano a cogliere il “senso pieno”
di mitezza: una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà,
l’altra quella che accosta mitezza e pazienza; l’una mette in
luce le disposizioni interiori da cui scaturisce la mitezza, l’altra
gli atteggiamenti che spinge ad avere nei confronti del prossimo:
affabilità, dolcezza, gentilezza. Sono gli stessi tratti che
l’Apostolo mette in luce parlando della carità: “La carità è
paziente, è benigna, non manca di rispetto, non si adira…” (1
Cor
13, 4-5).
Lettura
spirituale
San
Francesco d’Assisi
Lettera
al Capitolo Generale e a tutti i Frati
Invece
della lettura patristica questa volta propongo uno dei testi più
belli degli scritti francescani:
“Badate
alla vostra dignità, frati sacerdoti, e siate santi perché Egli è
santo. E come il Signore Dio onorò voi sopra tutti gli uomini, per
questo mistero, cosi voi più di ogni altro uomo amate, riverite e
onorate Lui.
Grande
miseria sarebbe, e miserevole male se, avendo lui così presente, vi
curaste di ogni altra cosa che fosse nell'universo intero!
L'umanità
trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando
sull'altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo Figlio di Dio
vivo.
O
ammirabile altezza, o degnazione stupenda! o umiltà sublime! o
sublimità umile, che il Signore dell'universo, Dio e Figlio di
Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca
apparenza di pane.
Guardate,
frati, L’umiltà di Dio, e aprite davanti a lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi, perché egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi,
tenete per voi; affinché vi accolga tutti colui che a voi si da
tutto” (Fonti Francescane 220).
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