venerdì 28 febbraio 2020

Quaresima: conversione d’amore.

Rito Romano – I Domenica di Quaresima – Anno A – 1° marzo 2020
Gn 2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5, 12-19; Mt 4, 1-11

Rito Ambrosiano – I Domenica di Quaresima
Is 58, 4b-12b; Sal 102; 2Cor 5, 18-6,2; Mt 4, 1-11
Fame di vita, fame di rapporti, fame di Dio


       1) Una Quaresima per convertirsi a un rapporto d’amore.

Sono passati pochi giorni dal mecoledì delle ceneri, durante il quale ci è stato ricordato che siamo polvere e che siamo chiamati alla conversione, cioè all’amore.
In questa prima Domenica di Quaresima la Chiesa ci fa pregare così: “Dio, Padre onnipotente, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nell’intelligenza del mistero d’amore di Cristo e di testimoniarlo con un vita degna” (Colletta della Messa). In effetti la carità fa entrare nella verità di Dio, è conversione, perché fa volgere tutto il nostro cuore e tutta la nostra mente a Dio, e compiere opere buone. Dunque la conversione non è solamente fare delle buone azioni, è un cambiare per palesare la verità ultima di noi stessi, fatti a immagine e somiglianza di Dio.
Nella conversione tutto l’essere umano, con il cuore e la mente, si rivolge tutto a Dio. Dicendo “convertitevi”, Gesù vuol dire che tutto l'essere nostro, il centro dell'essere, deve volgersi a Dio, e non solo la volontà, non solo l'intelligenza (non basta far della teologia e non basta nemmeno impegnarsi soltanto nelle virtù).
Conversione” vuol dire volgersi, quindi implica un nuovo senso, (da intendere non solo come direzione ma anche come significato) della vita. E che cosa implica questo volgersi? E’ il vivere in noi, nella nostra natura umana, quello che le tre Persone della Trinità vivono tra di loro: un pura relazione d’amore. La nostra conversione è un volgersi di tutto il nostro essere a Dio. Noi non viviamo senza amore: per ogni essere umano vivere vuol dire amare. Ma attenzione, possiamo amare solamente noi stessi, il nostro corpo, il nostro orgoglio, possiamo persino amare il male, ma possiamo amare anche Dio.
         La conversione è amore rivolto a Dio e in Lui al nostro prossimo. Dunque viviamo la Quaresima come cammino per volgerci a Dio, stabilmente. La conversione a cui siamo chiamati consiste quindi in un rapporto: “Tu ti rivolgi a Uno che ti chiama, ti incontri con Uno che ti parla; tu lo vedi, ti volgi a Lui e ti apri allamore” (Divo Barsotti)


2) Quaresima: 40 giorni di esodo per andare verso la Terra promessa: il Regno di Dio
            Il modo di vivere la conversione d’amore in questo periodo quaresimale è quello di ricordare e rivivere con Cristo i 40 giorni di digiuno e preghiera da Lui passati nel deserto e che si conclusero con il superamento di tre prove.
Le tre tentazioni diaboliche, che Cristo oggi supera riassumono i tre lati deboli della vita dell’uomo, che gli impediscono di amare in verità: 1 -il possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da trasformare in pane); 2 - la ricerca di un potere egoistico ed oppressivo (il possesso dei regni della terra); 3 - il desiderio di onnipotenza (rifiuto di adorare Dio). Per vincere queste prove l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio. A questo riguardo ricordiamo la frase di Sant’Agostino d’Ippona: “Quando sei colto dai morsi della fame - e mi permetto di aggiungere anche della tentazione - lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita”.
Nel racconto che Gesù stesso fece ai suoi discepoli, le tre tentazioni, che ricapitolano questo tempo di prova, lasciano abbastanza chiaramente capire che, in un combattimento che prefigurava la sua agonia, Lui scelse l’amore del Padre e la carità per noi e iniziò a bere il calice della Nuova Alleanza, che sarebbe stata sigillata con la sua offerta sulla Croce.
          Questo amore offerto e rifiutato ci è presentato già nella prima lettura, presa dal libro della Genesi, ci mostra che l’uomo è polvere plasmata dalle “mani creative” di Dio e animata dal Suo soffio di vita e di carità. Poche righe dopo, sempre il libro della Genesi illumina il dramma delle scelte sbagliate di fronte al bene e al male, un male che nasce nel cuore dell’uomo, dalle sue scelte, dai suoi rifiuti, dal suo ostinarsi a seguire i propri criteri, anziché i criteri di Dio. Ci viene chiesto di riflettere sulla gravità del rifiuto di inserirsi nel disegno di Dio, pretendendo un’autonomia assoluta nel decidere ciò che è bene e ciò che male. E’ la pretesa di essere alla pari di Dio, di essere Dio a noi stessi e agli altri.
         Poi, nella seconda lettura, ricavata dalla Lettera ai Romani, vediamo che San Paolo si riferisce al racconto della Genesi e mette a confronto il comportamento di Adamo e quello di Cristo e i risultati del loro agire. La ribellione e la disobbedienza del primo hanno causato la separazione da Dio e la morte di tutti gli uomini, l’obbedienza perfetta di Cristo, invece, ha ottenuto a tutti la pienezza della grazia e della vita. Adamo ed Eva sperimentano che la propria presunzione li ha allontanati tra loro, dal creato e da Dio. Gesù, invece, ricuce questo strappo e annulla questa distanza.
            Infine, la pagina del Vangelo di Matteo che ci è offerta oggi come terza lettura, ripropone la stessa tentazione di Adamo ed Eva, ma mostra come Gesù ne esce vittorioso e ci indica le vie per realizzare un’esistenza fedele a Dio, una vita libera dal male profondo che ci minaccia.
           Il diavolo mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù (“Se sei Figlio di Dio …”) che era stata affermata al momento del battesimo sulle rive del fiume Giordano. In effetti, la tentazione non riguarda né il pane, né le cose, perché quelle son quel che sono, ma come vivere la nostra relazione con le cose, con le persone, con Dio. La possiamo vivere da figli di Dio, come Gesù, oppure rifiutare la paternità amorosa di Dio che offre un rapporto stabile, vivo e vivificante con Lui.
            Dio offre un’alleanza tra due libertà: la sua, che è iniziativa d’amore infinito, e la nostra, che è chiamata a fiorire e vivere della e per la libertà amorosa di Dio.
            Se con la grazia superiamo la tentazione, Dio dilata il nostro cuore, che può così avere in dono Lui, che è l’Amore, e ci dona di bene operare per rendere tutta la vita una lode a Lui.
  1. Fame e deserto.
            Un dato non secondario è che il Vangelo di oggi  ci dice che Gesù è tentato da Satana dopo quaranta giorni e nottti di digiuno e, quindi, Gesù ha fame.
            Ma non si tratta solo di una fame corporale, come ogni essere umano Gesù ha:
a-     fame di vita, che tenta l’uomo al possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da trasformare in pane),
b-     fame di relazioni umane che possono essere d’amicizia o di potere, simboleggiate dall’offerta di potere,
c-     fame di onnipotenza, che spinge a soffocare il desiderio di Dio cioè l’anelito di infinito e di libertà senza limiti, inducendo alla tentazione di progettare la propria esistenza secondo i criteri umani della facilità, del successo, del potere, dell’apparenza, dell’immagine, vale a dire la tentazione di adorare il Menzognero (il diavolo) invece di adorare il Vero Amore provvidente.
            Gesù però sceglie un altro criterio, quello della fedeltà al progetto di Dio, a cui aderisce pienamente e di cui è Parola fatta carne per redimerci assumendo la nostra condizione, segnata dalla povertà e dalla sofferenza, scegliendo con coraggio di farsi servo di tutti. 
            Per vincere queste prove, questa fame di vita, di relazioni e di Dio l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio. Riscriviamo allora una frase di Sant’Agostino: Quando sei colto dai morsi della fame – e possiamo aggiungere anche della tentazione – lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita, lascia che Cristo sia il tuo Pane di Vita.
            A questo punto, penso sia giusto chiedersi perché per digiunare Gesù andò nel deserto.
            Nella tradizione biblica il deserto rappresentava il luogo della preparazione a una missione divina. Così era stato per Mosè, che conobbe la rivelazione di Jahvè (Esodo 3,1 e ss), per il popolo uscito dalla schiavitù che sperimentò la fatica della libertà e così fu per Elia, che vi ascoltò la parola divina (1a Re 19,18). Dunque anche Gesù rimase nella solitudine del deserto per quaranta giorni[2], prima di iniziare il suo ministero pubblico.
            Gesù l’ha fatto per insegnarci a vivere la vita come esodo nel deserto come è stato per il popolo ebraico e come deve essere la per la Chiesa, pellegrina verso il Cielo. Questo significa non poter programmare la propria vita, non poterne disporre, doversi abbandonare a una Parola di promessa. Dio dice anche a noi: “Nulla ti mancherà, ma tutto dovrai attendere da me”. È questo il significato della fede: non solamente l’assenso a un corpo di dottrine ma il fidarsi di un amore, il credere all’amore: a quell’amore che ha iniziato senza di te (l’uscita dall’Egitto come per noi l’uscita dal grembo di nostra madre), ma che potrà continuare soltanto se troverà la nostra adesione.
            Ci è chiesto di tradurre il nostro comportamento quotidiano, la “cura” di noi stessi, in quell’Altro che ci ha liberati.
            La quasi totalità di noi è chiamata a esistere domani non nella situazione di emergenza del deserto, ma nella situazione di normalità di una terra da coltivare e da abitare. Tuttavia tutti noi siamo chiamati a portarvi lo stesso atteggiamento di fondo: vivere su quella terra ma con un cuore di deserto.
            Questo cuore è chiesto particolarmente alle Vergini Consacrate, che nella solitudine fisica sono chiamate ad un tu per tu con Dio: parlare al cuore.
            Il deserto, la solitudine verginale è il luogo privilegiato, il luogo dove si sta a tu per tu con Dio.    Lo Sposo non può costringere la sposa ad amarLo. Il Signore però ha un mezzo infallibile, come lo descrisse, ad esempio il profeta Osea.  All’inizio, al cap 2, Osea parla di questo adulterio terrificante, il tornare ad adorare gli idoli che i vecchi padri hanno adorato; il Signore addolorato, angosciato, interviene e dice che ha un mezzo e lo metterà in azione, riporterà di nuovo il popolo nel deserto, gli indicherà di nuovo le strade antiche, parlerà di nuovo al suo cuore, nel deserto, appunto quando le categorie malefiche, i diaframmi opachi sono caduti; allora il cuore dell’uomo, cioè la sua intelligenza, ed il cuore di Dio, cioè la divina Sapienza stanno a tu per tu e l’incontro è immediato, possibile e fecondo.
            Le Vergini consacrate vivono il “deserto” della loro vocazione come della disponibilità totale. La loro è una spiritualità della disponibilità generosa verso gli altri, della disponibilità totale verso il Signore da cui attendono tutto.
       Con la preghiera, l’elemosina ed il digiuno, impariamo tutti questa disponibilità per camminiare uniti nel “deserto” quaresimale, e della vita, così la fame diventerà desiderio santo di Dio e saremo la Tenda dove l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, avrà stabile dimora.

NOTE
[1] L’interpretazione cristiana dell’Esodo è guidata da quella lettura che si è soliti chiamare “tipologica”: tutto ciò che riguarda Israele (vicende e personaggi, riti e istituzioni) è la figura – il typos, appunto – di quanto accade in Cristo e nella Chiesa. Riprendiamo brevemente le fasi principali dell’Esodo per vedere in che modo esse vengono riprese e reinterpretate in funzione dell’evento cristiano.
Prima tappa: l’Egitto (e il Faraone) è inteso come figura del peccato. Soprattutto di quella condizione universale di peccato che teneva schiava l’umanità prima di Cristo. Ma Egitto può essere anche colui, che provoca il peccato: Satana; oppure la sua trascrizione storica, l’idolatria pagana. Di conseguenza, la liberazione dall’Egitto attraverso il passaggio del Mar Rosso sarà la figura del battesimo, e l’agnello pasquale immolato assurgerà a simbolo di Cristo nella sua passione.
La tappa del deserto è ripresa come figura della vita del credente in cammino. In essa compaiono, come per Israele, la prova e la tentazione; ma anche la protezione divina vi si dispiega con particolare intensità: i miracoli dell’Esodo diventano il miracolo dell’esistenza sacramentale: la roccia-Cristo da cui zampilla l’acqua battesimale, e la manna diventata eucaristia. Il deserto può essere interiorizzato come cammino individuale dell’anima verso la contemplazione e la perfezione spirituale; o può essere vissuto come itinerario Quaresima in preparazione delle celebrazioni pasquali.
Il senso cristiano della Legge è riscontrato, sulla linea paolina, nella condensazione di tutte le leggi etico-sociali nella carità; mentre le leggi rituali trovano la loro verità nel culto cristiano.
Finalmente, la terra promessa ripropone il motivo sacramentale: il passaggio del Giordano, come già quello del Mar Rosso, rimanda al battesimo, mentre nel “paese dove scorre latte e miele” i Padri della Chiesa leggono una suggestiva figura del banchetto eucaristico. Accanto a questa, e ancor più frequente, è l’interpretazione della terra promessa come immagine della vita definitiva con Dio.
Si può riassumere il tutto dicendo che il senso tipologico dell’Esodo è l’itinerario del popolo cristiano dalla schiavitù del peccato attraverso il battesimo e l’esistenza in fede e carità fino alla patria celeste.
[2] Quaranta è un numero simbolico, in questo caso, oltre a collegarsi ai quarant’anni passati dal Popolo di Israele nel deserto, sta a significare tutta una generazione, cioè Gesù, facendosi uomo, è stato tentato per tutta la sua vita.


Lettura Patristica
San  Gregorio Magno
Hom. 16, 1-6

Le tentazioni del Redentore
       Non era indegno del nostro Redentore il voler essere tentato, lui che ;era venuto per essere ucciso. Era anzi giusto che vincesse le nostre tentazioni con le sue tentazioni, dato che era venuto a vincere la nostra morte con la sua morte. Ma dobbiamo sapere che la tentazione passa per tre stadi: la suggestione, la dilettazione e il consenso. Noi, quando siamo tentati, cadiamo per lo più nella dilettazione o addirittura nel consenso, perché siamo nati da una carne di peccato e portiamo in noi stessi ciò che ci muove tante battaglie. Ma Dio, che s’incarnò nel grembo della Vergine, venne nel mondo senza peccato e non provò in sè alcuna contraddizione. Egli poté dunque essere tentato per suggestione, ma l’anima sua non provò la compiacenza del peccato. Pertanto tutta quella tentazione diabolica fu all’esterno, non all’interno.

       Ma se guardiamo l’ordine secondo cui fu tentato, capiremo quanto bene noi siamo stati liberati dalla tentazione. L’antico avversario si rivolse contro il primo Adamo, nostro padre, con tre tentazioni, poiché lo tentò di gola, di vanagloria e di avarizia; ma tentandolo lo vinse, perché lo sottomise a sé mediante il consenso. Lo tentò di gola quando gli mostrò il frutto dell’albero proibito, perché ne mangiasse. Lo tentò poi di vanagloria quando disse: "Sarete simili a Dio" (Gn 3,5). Lo tentò di avarizia quando disse: "Conoscerete il bene e il male". L’avarizia infatti non riguarda soltanto il denaro, ma anche gli onori. Giustamente si dice avarizia il desiderio smodato di stare in alto. Se il carpire onori non appartenesse all’avarizia, Paolo non direbbe, riguardo al Figlio unigenito di Dio: "Non stimò una rapina la sua uguaglianza con Dio" (Ph 2,6). In ciò poi il diavolo attrasse il nostro padre alla superbia, poiché lo spinse a quel tipo di avarizia che è il desiderio di eccellere.

       Ma con quegli stessi mezzi coi quali abbattè il primo Adamo, fu vinto dal secondo Adamo da lui tentato. [Il diavolo] lo tenta infatti nella gola quando dice: "Comanda che queste pietre diventino pane". Lo tenta di vanagloria quando dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati di sotto. Lo tenta con l’avarizia degli onori quando mostra tutti i regni del mondo, dicendo: "Tutto io ti darò, se ti prostri e mi adori". Ma è vinto dal secondo Adamo proprio con quei mezzi coi quali si vantava di aver vinto il primo, così da uscire dai nostri cuori, scornato, passando per quella stessa strada per la quale si era introdotto, per dominarci. Ma c’è un’altra cosa, fratelli carissimi, che dobbiamo considerare in questa tentazione del Signore; tentato dal diavolo, il Signore risponde con i precetti della Sacra Scrittura, e colui che, essendo quella Parola, poteva cacciare il tentatore nell’abisso, non mostrò la virtù della sua potenza ma soltanto ripeté i divini comandi della Scrittura, per darci così l’esempio della sua pazienza; di modo che, tutte le volte che soffriamo a causa di uomini malvagi, siamo portati a rispondere con la dottrina piuttosto che con la vendetta. Pensate quanto è grande la pazienza di Dio e quanto è grande la nostra impazienza! Noi, se siamo provocati con qualche ingiuria o con qualche offesa, ci infuriamo e ci vendichiamo quanto possiamo, o minacciamo ciò che non possiamo fare. Invece il Signore sperimentò l’avversità del diavolo e non gli rispose se non con parole di mitezza. Sopportò colui che poteva punire, affinché gli tornasse a maggior gloria il fatto di aver vinto il nemico non annientandolo, ma bensì sopportandolo.

       Bisogna fare attenzione a quello che segue, che cioè gli angeli lo servivano dopo che il diavolo se ne fu andato. Cos’altro si ricava da ciò se non la duplice natura nell’unità della persona? È un uomo, infatti, colui che il diavolo tenta, ma è anche Dio colui che è servito dagli angeli. Riconosciamo dunque in lui la nostra natura, in quanto se il diavolo non l’avesse conosciuto uomo, non l’avrebbe tentato, adoriamo in lui la divinità, in quanto se non fosse Dio che è al di sopra di tutte le cose, gli angeli non lo servirebbero.

       Ma poiché questa lettura si adatta al presente periodo - infatti, noi che iniziamo il tempo quaresimale, abbiamo udito che la penitenza del nostro Redentore è durata quaranta giorni -, dobbiamo cercar di capire perché questa penitenza è osservata per quaranta giorni... Mentre l’anno è composto di trecentosessantacinque giorni, noi facciamo penitenza per trentasei giorni, come se dessimo a Dio la decima sul nostro anno, affinché, dopo aver vissuto per noi stessi il resto dell’anno, ci mortifichiamo nell’astinenza in onore del nostro Creatore per la decima parte dell’anno stesso. Perciò, fratelli carissimi, come nella Legge ci è imposto di offrire le decime di tutte le cose (cf. Lv 27,30s), così dovete cercare di offrire a lui anche la decima dei vostri giorni. Ognuno, secondo quanto gli è possibile, maceri la sua carne e ne affligga le brame, ne uccida le concupiscenze disoneste, affinché, secondo la parola di Paolo, divenga una vittima viva (Rm 12,1). Certo la vittima è immolata ed è viva, quando l’uomo non muore e tuttavia uccide se stesso nei desideri carnali. La nostra carne, soddisfatta, ci portò al peccato; mortificata, ci conduca al perdono. Colui che fu autore della nostra morte trasgredì i precetti della vita mediante il frutto dell’albero proibito. Noi dunque, che ci siamo allontanati dalle gioie del paradiso per colpa del cibo, procuriamo di tornare ad esse grazie all’astinenza.

       Ma nessuno creda che l’astinenza da sola possa bastargli dal momento che il Signore dice per bocca del Profeta: "Non è forse maggiore di questo il digiuno che bramo?", aggiungendo: "Dividi il pane con l’affamato, e introduci in casa tua i miseri, senza tetto; quando vedrai uno nudo, soccorrilo, e non disprezzare la tua carne" (Is 58,6 Is 58,7). Dio dunque gradisce quel digiuno che una mano piena di elemosine presenta ai suoi occhi, quel digiuno che si congiunge all’amore del prossimo ed è ornato dalla pietà. Ciò che togli a te stesso, dallo a un altro, affinché cio di cui si affligge la tua carne serva di ristoro alla carne del povero. Così infatti dice il Signore per bocca del Profeta: "Quando avete fatto digiuni e lamenti, forse avete digiunato per me? E quando avete mangiato e bevuto, forse non avete mangiato bevuto per voi stessi?" (Za 7,5-6). Infatti mangia e beve per sé chi prende i cibi del corpo, i quali sono donati a tutti dal Creatore, senza parteciparli ai bisognosi. E digiuna per sé chi non distribuisce ai poveri quelle cose di cui si è privato temporaneamente, ma anzi le serba per darle al suo ventre in altra occasione. Perciò è detto per bocca di Gioele: "Santificate il digiuno" (Jl 1,14 Jl 2,15). Santificare il digiuno significa offrire un’astinenza dalle carni degna di Dio, dopo aver aggiunto altri doni. Cessi l’ira, si plachino i litigi. Invano la carne è afflitta, se l’animo non si frena nei suoi malvagi desideri, come dice il Signore per bocca del Profeta: "Ecco, nel giorno del vostro digiuno si trova la vostra volontà. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui, e ricercate tutti i vostri debitori" (Is 58,3). Né commette ingiustizia chi richiede dal suo debitore quanto gli aveva prestato; è bene tuttavia che quando uno si macera nella penitenza, si astenga anche da ciò che gli spetta con giustizia. Così Dio perdona a noi, afflitti e penitenti, ciò che abbiamo fatto di male, se per amor suo rinunciamo anche a ciò che giustamente potremmo esigere.

     


venerdì 21 febbraio 2020

L’amore è un “dovere” sempre, e l’odio non è mai un “diritto”.

Rito Romano 
VII Domenica del Tempo Ordinario – 23 febbraio 2020
Lv 19,1-2.17-18; Sal 102; 1 Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
Amare i nemici


Rito Ambrosiano – Penultima Domenica dopo l’Epifania
Bar 1,15a;2,9-15a; Sal 105; Rm 7,16a; Gv 8,1-11
Per Cristo i peccati nostri sono come polvere.           


1) “Amate i nemici”: un comando possibile da praticare?
Gesù chiede di amare i nostri nemici e per amare intende quell’amore oblativo che spinge ad offrirsi per il bene e la libertà dell’altro, senza attendere niente in cambio. E se non amiamo l’altro anche se ci è nemico, non amiamo il Padre, che è anche suo Padre.
Il Padre non ha nemici ha solo figli, e se abbiamo conosciuto il Padre e il suo paterno amore gratuito, non possiamo non amare il fratello nemico, realmente nemico. Questa è l’essenza del cristianesimo, cioè la religione del Figlio che è venuto a portare sulla terra: l’amore del Padre per tutti i fratelli. Evidentemente questo amore è il dono dello Spirito Santo, perché uno non può -umanamente parlando - amare il nemico. A stento riusciamo ad amare noi stessi, a fatica riusciamo ad amare l’amico di amore disinteressato. Come è possibile amare il nemico che ci perseguita?
Eppure, proprio nel nemico, si rivela la gratuità assoluta dell’amore e Dio ha rivelato a noi il suo amore perché quando ancora eravamo nemici tra di noi e con lui, lui ha dato la vita per noi. Quindi l’amore del nemico rivela l’essenza di Dio come amore gratuito, del suo Spirito, lo Spirito è la vita, la vita di Dio è l’amore gratuito. E l’amore gratuito che c’è tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo.
E’ realmente possibile amare i nemici, e amarli mentre manifestano la loro ostilità e inimicizia, il loro odio e la loro avversione? È umanamente possibile mettere in pratica questo comando di Cristo? L’amore per i nemici alla ragion comune sembra pazzia. Vuol dire che la nostra salvezza è nella pazzia? L’amore per i nemici rassomiglia all’odio per noi medesimi. Vuol dire che arriveremo alla beatitudine solo a patto di odiare noi stessi?
Insomma, perché Gesù chiede di amare i propri nemici, cioè chiede di praticare un amore che eccede le capacità umane?
Non è facile, ma — ha detto Papa Francesco durante la messa celebrata la mattina del 12 settembre 2018, nella cappella di Casa Santa Marta — è possibile: basta contemplare Gesù sofferente e l’umanità sofferente e vivere una vita nascosta in Dio con Gesù.
Sempre Papa Francesco spiega: “ Gesù sa benissimo che amare i nemici va al di là delle nostre possibilità, ma per questo si è fatto uomo: non per lasciarci così come siamo, ma per trasformarci in uomini e donne capaci di un amore più grande, quello del Padre suo e nostro. Questo è l’amore che Gesù dona a chi ‘lo ascolta’. E allora diventa possibile! Con Lui, grazie al suo amore, al suo Spirito noi possiamo amare anche chi non ci ama, anche chi ci fa del male» (24 febbraio 2019).
Per capire e fare ciò dobbiamo prendere sul serio l’invito dell’Apostolo Paolo: “Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5);“Fratelli, scelti da Dio, santi e amati. Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri” se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato così fate anche voi”(Col 3, 12-17).
Per poter amare nella carità di Cristo tutti, compresi i nemici, la strada è quella di stampare i nostri occhi su Cristo in Croce e così imparare a sentire come sentiva Gesù, conformare il nostro modo di pensare, di decidere, di agire con i sentimenti di Gesù. Se prendiamo questa strada, viviamo bene e prendiamo la strada giusta. In questa contemplazione dell’amore crocifisso avremo la conferma che Gesù, ci vuol bene. Questo bene è tenerezza e una grande consolazione per noi, è un conforto e anche una grande responsabilità giorno per giorno. E’ un bene che ci è donato e che non possiamo ottenere con lo studio o la pratica: è un dono gratuito di Dio da far responsabilmente fruttificare.
Il mondo – e noi nel mondo – condanna e giustizia, cioè elimina ogni nemico. Nel mondo si fa guerra al nemico, fino all’annientamento. Ma Cristo ci dice di amare il nemico, e la Sua Parola è verità. E’ realtà. Questa Parola d’amore qui ed ora si compie in noi, nemici di Dio intenti, ogni giorno, a eliminare i nemici, smarrendo per via pazienza, perdono e amore. Noi, ricchi di peccati, siamo amati e riamati infinitamente da Dio, ricco di misericordia.
Il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso il nemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienza di fede basilare da cui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico! Scrive Paolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori e nemici, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8-10).
La nostra vita perduta, riscattata e compiuta nel Suo perdono. Le Sue braccia aperte sono anche oggi il nostro rifugio, la nostra perfezione. Siamo dunque perfetti, compiuti solo nascosti tra le Sue ferite d’amore (cfr San Bernardo di Chiaravalle). “È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare” (Benedetto XVI, Deus caritas est n.12). Trafitti dalla Sua misericordia diventiamo noi stessi le Sue ferite aperte sul mondo, segno di salvezza, vita e perdono per ogni uomo. Le nostre piaghe quotidiane unite alle Sue piaghe sono la perfezione che salva il mondo.

2) Guardare dalla Croce.
Là, inchiodati alla nostra croce siamo perfetti. Là dove nessuno saluta, là dove si cela il sole e si trafuga la pioggia, laddove il mondo cancella gli ingiusti, i figli del Padre celeste offrono la vita, gratuitamente, per fede amorosa.
Là dove il mondo odia, i discepoli dell’Amore amano. La nostra vita è così compiuta sulla Croce, Crocifissi con Lui. “Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (cfr Gv 19, 34)” (Benedetto XVI, Deus caritas est n.7). E’ Lui vivo in noi ad amare ogni uomo, scende in noi all’ultimo posto, servo di questa generazione per aprire il Cielo ad ogni nemico, nel Suo sangue trasformato in amico. Di più, ogni nemico è fratello agli occhi di Cristo. Come lo siamo stati noi, appena un istante fa, o lo fummo ieri, o lo saremo domani. 
Dunque impariamo a guardare all’altro, al nostro prossimo non più soltanto con i nostri occhi e con i nostri buoni sentimenti, ma guardiamo dalla Croce, dal punto di vista di di Gesù Cristo.
Il suo amico è nostro amico. Al di là dell’apparenza esteriore, con una purezza da angeli potremo scorgere nell’altro la sua attesa di un gesto di amore, di attenzione. Se cerchiamo di guardare l’altro con gli occhi di Cristo, possiamo dargli ben più che le cose necessarie materialmente: possiamo donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno (cfr Benedetto XVI, Deus caritas est n.18). Gli occhi di Dio, che ama tutti donando a tutti il necessario, senza distinzione alcuna, sono gli occhi di Gesù posati su questa umanità attraverso i nostri stessi occhi.
C’è una bellissima intuizione di Berdiaeff: “All’inizio Dio disse a Caino: Cosa hai fatto di tuo fratello Abele? Nell’ultimo giorno non si rivolgerà più a Caino ma ad Abele dicendo: “Cosa hai fatto di tuo fratello Caino?”. Abele risorgerà non per la vendetta ma per custodire Caino. La terra nuova sarà quando le vittime si prenderanno cura dei loro carnefici. Questo è il cuore di Dio”. Con il suo infinito amore per noi, Cristo fece così per noi.
Per imparare da lui, occorre andare al Calvario e guardare il Redentore in Croce, poi occorre salire in Croce accanto a lui, e guardare dal suo punto di vista. A questo amore si arriva a attraverso un cammino, una ascesi.L’amore non è spontaneo: esso richiede disciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Così si perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraterna denunciando “costruttivamente” il male commesso da altri. L’amore del nemico non va confuso con la complicità con il peccatore.
Chi non serba rancore e non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare; e il perdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamente di rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti. Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia.
Ma perché tutto questo sia possibile è indispensabile che accanto al comando di amare i nemici ci sia la preghiera per i persecutori, l’intercessione per gli avversari: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44). Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si è fatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nella preghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona e della sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo. Ma dev’essere chiaro che l’amore del nemico è questione di profondità di fede, di “intelligenza del cuore”, di ricchezza interiore, di amore per il Signore, e non, semplicemente di buona volontà.
Questo amore a cui Dio ci chiama è un amore che non poggia in definitiva sulle risorse umane, è dono di Dio che si ottiene confidando unicamente e senza riserve sulla sua bontà misericordiosa.  
Ecco la novità del Vangelo, che cambia il mondo senza far rumore. Ecco l’eroismo dei “piccoli”, che credono nell’amore di Dio e lo diffondono anche a costo della vita. Cristo è il primo in questo amore per i nemici e i martiri lo hanno imitato nell’amare fino alla fine. Tuttavia teniamo presente che la vita consacrata è a questo riguardo un martirio incruento, ma quotidiano. Nell’Ordo Virginum le persone sono chiamate alla costante testimonianza, che è un martirio senza spargimento di sangue, perché vivono una esistenza totalmente dedicata alla fedeltà a Dio ed all’intercessione per i peccatori, che si pensano nemici di Cristo, che li ama e che invoca su di loro il perdono del Padre. Nel nascondimento di una vita quotidiana, semplice come quella della Madonna a Nazareth, mostrano che si può imitare l’esempio eminente della Madre di Cristo, nella quale Dio fu il protagonista e la sua verginità fu l’espressione, anche fisica, dell’apertura totale al progetto di Dio. La vocazione di queste donne è di umilmente lavorare e pregare per pacificare la terra, conciliare i fratelli nemici, far risorgere Abele, ricondurre all’amore Caino. (Cfr Due invocazioni della Preghiera litanica nel Rituale della Consacrazione delle Vergini, n. 20 – traduzione letterale dal latino:
O Signore,
mantieni e fai crescere nella tua Chiesa la fiamma della verginità beata, ti preghiamo, ascoltaci.
Poni tra i popoli una intesa e una pace sincere, ti preghiamo, ascoltaci.)


LETTURA PATRISTICA
Sant’Agostino, Vescovo di Ippona
Trattati sulla prima lettera di Giovanni” (1, 9-12)


In questo lo conosciamo se osserveremo i suoi comandamenti. Quali comandamenti? Chi dice di conoscerlo e non osserva i suoi comandamenti è menzognero e in lui non c’è verità. Ma tu torni a chiedere: quali comandamenti? Giovanni ti dice: Chi osserverà la sua parola, veramente in lui è perfetto l’amore di Dio(1 Gv 2, 3-5). Vediamo se questo comandamento non sia l’amore. Ci domandavamo quali fossero questi comandamenti e Giovanni ci risponde: Chi osserverà la sua parola, veramente in lui è perfetto l’amore di Dio. Esamina il Vangelo e vedi se non è questo precisamente quel comandamento. Dice il Signore: Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda (Gv 13, 34). A questo segno noi conosciamo di essere in lui, se in lui saremo perfetti (1 Gv 2, 5). Egli parla di perfetti nell’amore. Ma qual’è la perfezione dell’amore? E’ amare anche i nemici ed amarli perché diventino fratelli. Il nostro amore infatti non deve essere carnale. E’ buona cosa chiedere per un altro la salute del corpo; ma se questa mancasse, non deve scapitarne la salute dell’anima. Se auguri al tuo amico la vita, fai bene. Se ti rallegri per la morte del tuo nemico, fai male. Forse la vita che auguri all’amico è inutile, mentre quella morte del nemico di cui ti rallegri, può essere a lui utile. Non è certo se questa nostra vita sia utile o inutile, mentre è indubbiamente utile la vita presso Dio. Ama i tuoi nemici con l’intento di renderli fratelli; amali fino a farli entrare nella tua cerchia. Cosí ha amato colui che, pendendo sulla croce, disse: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34). Non che abbia detto: Padre, costoro abbiano una vita lunga; loro che mi uccidono abbiano a vivere; ma ha detto: Perdona loro perché non sanno quello che fanno. Egli li volle preservare da una morte perpetua con una preghiera piena di misericordia e di forza. Molti tra essi credettero e fu loro perdonato di aver versato il sangue di Cristo. Quando si mostrarono crudeli, versarono quel sangue; quando credettero, lo bevvero. In questo noi conosciamo che siamo in lui, se in lui saremo perfetti. Il Signore ci ammonisce ad essere perfetti quando ci parla del dovere di amare i nemici: Siate dunque perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste (Mt 5, 48). Chi dunque dice di rimanere in lui, deve camminare come lui camminò (1 Gv 2, 6). In quale modo, o fratelli? Che ammonizione è questa? Colui che dice di rimanere in lui– cioè in Cristo – deve camminare come lui camminò. Che ci ammonisca forse di camminare sul mare? No, evidentemente. Ci ammonisce invece di camminare nella via della giustizia. Quale via? L’ho ricordato. Egli, quando era inchiodato alla croce, camminava proprio su questa via, che è la strada della carità. Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Se dunque imparerai a pregare per il tuo nemico, camminerai sulla strada del Signore.

venerdì 14 febbraio 2020

La legge della libertà per camminare sulla via dell’amore.

Rito Romano – VI Domenica del Tempo Ordinario – 16 febbraio 2020
Sir 15,15-20; Sal 118; 1 Cor 2,6-10; Mt 5,17-37
La legge da riempire

Rito Ambrosiano -Domenica VI dopo l'Epifania
1Sam 21, 2-6a. 7ab; Sal 43 (42), 1. 3-5; Mt 12, 9b-21
La legge è per amare
 
  1. Riempire la legge
Prima di proporre delle riflessioni sul compimento della Legge, credo utile soffermarmi sul primo versetto del Vangelo di oggi, nel quale Gesù dice:  “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare il pieno compimento” (Mt 5, 17). Se partiamo dal testo greco e ne facciamo una traduzione letterale, ne risulterebbe questa frase: “ Non pensiate che io sia venuto a sciogliere la Legge o i Profeti; non son venuto per sciogliere, ma per riempire”. Ciò permette di capire che Gesù, il Messia, è colui che compie la legge, riempiendola d’amore.
L'Amore non distrugge, non annulla la Legge: è invece la forza e la luce per realizzarla e per insegnarla (prima per fare e poi per insegnare), sino alla perfezione. L'Amore è la raffinatezza della Legge.
Gesù è il primo uomo che vive la Parola di Dio, addirittura è la Parola di Dio fatta carne. Quindi Gesù si presenta come il compimento perfetto della legge. Non dimentichiamo che per gli Ebrei la legge è la Parola di Dio, è la volontà di Dio che l'uomo ha mai ha compiuto.
Finalmente il Messia è colui che la compie e dona all'uomo il cuore nuovo perché possa compierla. In questo versetto si afferma che il valore della legge è perenne, tutta deve essere compiuta, e in Gesù tutta si compie. Poi la grandezza dell’uomo dipende dalla sua osservanza o meno della Parola di Dio; chi la osserverà e insegnerà a fare altrettanto sarà grande, chi non la osserverà e insegnerà agli uomini a fare lo stesso, sarà minimo nel Regno dei cieli. Quindi la volontà di Dio viene ad essere la misura di realizzazione dell’uomo come giusto.
Ma poco dopo Cristo dice “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20).  Questa affermazione sembra contraddire quanto Gesù diceva prima, introduce le antitesi seguenti, dice: vedete gli scribi e farisei, sono quelli che conoscono bene la legge e la osservano perfettamente. Ora se la vostra giustizia non supera la loro non entrerete nel regno dei cieli. Ma allora, di che giustizia parla Cristo? Della giustizia che nasce dall’’amore. L’amore vero porta a fare bene. Quindi penso si corretto affermare che per giustizia in Gesù si intende quella che viene da un cuore nuovo. La giustizia cristiana non è riducibile all’osservanza dei codici legali, ma nasce dalla capacità di amare che fa vivere correttamente. Praticamente l’ottica nella quale Gesù mette è quella del cuore nuovo, del cuore del Figlio. Chi è figlio è chiaro che vive il rapporto filiale e rapporti fraterni con gli altri, ma non per via di una legge, ma per via dell’amore. Quindi in forza dell'amore osserva la legge. Di fatti chi ama nella verità non uccide, non ruba, non mente, almeno in quanto ama.
Quindi l’amore viene a essere il compimento di tutta la legge. La legge dice dove si sbaglia, ma non dà la vita, dice dove si muore; l’amore dà la vita e chi ama ha la vita e quindi compie la legge, non va contro la vita.

      2) La legge[1] e il suo compimento[2].
  
            Nel Vangelo di questa domenica, Gesù afferma di voler portare a “compimento la Legge e i Profeti”[3] (Mt 5, 17). In effetti il Cristo, il Verbo fatto nostra carne per nostro amore non è solamente la Parola della legge, cioè la Via per la quale dobbiamo andare, ma è anche la Verità che adempie la legge, e la Vita che ne premia il compimento.
Qual dunque è il “compimento” della legge? Pieno compimento della legge è l’obbedienza al comandamento dell’amore (cfr. Rm 13, 9-10). L’obbedienza diventa così il segno che si vive sotto la grazia dell’amore. “Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv 14,15), perché l’amore non sostituisce la legge, ma la osserva, la “compie”.
Anzi l’amore è l’unica forza che può osservare veramente la legge. Si può dire ancora di più: “E’ Gesù stesso il compimento della legge, in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso legge vivente, personale” [4] e luminosa.
  Già il salmo 18 paragona la legge di Dio alla luce del sole, quando afferma che i “comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi” (18/19,9).
  Il Libro dei Proverbi poi afferma che “il comando è una lampada e l’insegnamento è una luce” (6, 23).    Infine non va dimenticato che Gesù stesso presenta la sua persona come rivelazione definitiva usando la medesima immagine: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8, 12), la luce dell’amore. Cristo è Luce senza la quale non possiamo camminare che a tentoni. Lui è Luce che ci fa conoscere noi stessi, comprendere il mondo e sapere dove andiamo.
  Camminare alla luce di Cristo vuol dire accettare la croce quotidiana, e ricevere la pace.  La pace del cuore è la forza del credente: se siamo perseveranti nell’obbedire ai comandi di Dio, la nostra costanza sarà sorgente di felicità.
  Preghiamo il nostro Padre nei cieli perché Cristo, nostra Legge[5], illumini i nostri cuori, rinfranchi le nostre anime e ci doni la saggezza dei semplici, perché sappiamo sempre camminare nella sua luce anche quando ci sono difficoltà, affanni e pericoli.
  Gesù non cominciò a predicare dicendo: “Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi”; cominciò dicendo: “Il Regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo”. Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima il dono della salvezza e poi la conversione.
            Nel cristianesimo esistono i doveri e i comandamenti, ma il piano dei comandamenti, compreso il più grande di tutti che è amare Dio e il prossimo, non è il primo passo, ma il secondo; prima di esso, c’è il passo del dono, della grazia. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). È dal dono che scaturisce il dovere, non viceversa.

  3) La legge è un dono.

            Cristo non ci dice solo “cosa fare”, ma “chi dobbiamo essere” e, quindi, ci insegna anche come dobbiamo vivere per realizzare la comunione nell’amore a Dio ed ai fratelli. Con l’osservanza dei comandamenti, noi obbediamo con amore alla legge, che è radicata nell’amore di Dio e che indica la volontà di Dio di reggere la nostra vita con i suoi comandi di carità. Con questa osservanza alla sua legge di libertà noi diventiamo più “umani”, facendo risplendere in noi l’immagine e somiglianza di Dio che ci ha creati per la vita con Lui.
  La legge è la parola di Dio, che indica la sua volontà per la vita. Gesù è il primo che ha compiuto questa volontà, che è un dono che Dio ci dà per vivere da uomini nuovi nell’amore. Chi ama compie tutta la legge che è cammino della vita, osservandola sempre.
  Dicendo che Lui non è venuto ad abolire la legge ma a compierla, Gesù intende toglierci dalla paura della punizione e radicarci nell’amore fiducioso. Lui è l’Uomo e conosce l’uomo, comprendendone le debolezza. Sa che una legge imposta con la paura della punizione è rispettata, possiamo dire, tre volte su dieci. Sa pure che una legge che garantisce un premio è osservata sette volte su dieci. Lui vuole aiutarci ad osservarla dieci volte su dieci. Allora da buon fratello maggiore ci ricorda che non solamente la legge fu data da Dio a Mosè sul Monte Sinai, tra tuoni e fulmini, ma che essa è uscita dal Pensiero di Dio, che ce l’ha donata grazie al suo Amore e l’ha detta con la sua Parola. Gesù, Uomo che ha Dio come Padre, ci insegna che la santità non è un “mestiere” per pochi, ma la vocazione di tutti i battezzati.
  Santità non è separazione dalla vita quotidiana, dalla quotidiana fatica di vivere, ma vivere nella fiducia e nella confidenza come bambini nelle braccia della loro mamma.
  Un esempio significativo è quello di Santa Teresa del Bambin Gesù e del Volto Santo. Che cosa ha fatto questa che noi non possiamo fare? Questa piccola, grande Santa rispose all’amore come una giovane donna di 24 anni può fare. Non fece grandi cose[6].
  La grandezza delle nostre azioni dipende dalla fede che abbiamo nel Suo amore. Imitiamo la piccola Teresa, che credeva con certezza di essere amata da Dio, e così ha sconvolto il Cielo con i suoi “semplici, piccoli” atti di amore, con un sorriso, con un passo in più in giardino, un’offerta del suo dolore dovuto ad un tumore osseo, perché un missionario avesse la forza di riprendere il cammino di evangelizzatore.
  Anche i suoi genitori, i coniugi Martin, vissero come la piccola Teresa Martin del Bambin Gesù e, penso, furono loro ad insegnare quello stile di vita che la Santa carmelitana percorse come “piccola via”. La piccola via dell’infanzia spirituale di Teresa di Lisieux chiede un cuore puro e povero di una semplice persona come la piccola Teresa che seppe stare a mani vuote davanti a Dio, senz’altro appiglio che “la fiducia e nient’altro che la fiducia”. Quindi la santità e la felicità sono anche per noi una meta possibile, “basta” vivere ogni momento della nostra vita quotidiana offrendolo a Dio.
  Questo stile di vita è praticato in particolare dalle Vergini consacrate, le quali sono donne semplici, che esprimono i loro talenti nella dedizione a Dio e nel servizio agli altri nella normalità del quotidiano. Proprio nella donazione feriale queste donne scorgono la loro vocazione più profonda a farsi carico della vita anche là dove nessun sguardo umano giunge, ma solo lo sguardo di Dio.
          L’Ordo Virginum è un dono per la Chiesa di oggi, per rendere visibile il Regno di Dio in mezzo a noi.  Queste donne sono chiamate a “fare straordinariamente bene l’ordinario”, in quanto la verginità consacrata nel mondo non ha compiti operativi definiti se non la testimonianza chiara e coraggiosa del Vangelo in ogni ambiente. Loro si donano completamente a Dio rimanendo nel mondo. Esse hanno come segno distintivo quello di mostrare la compassione di Dio che si manifesta con la loro discreta presenza. Questa presenza che si dona, permette agli altri di incontrare la Presenza, che è dono.
La loro vita testimonia che non solamente è possibile fare agli altri quello che si vuole sia fatto a noi, ma fare agli altri quello che Dio fa a noi, amando con amore pulito e vigoroso. La legge dell’amore non è dare tanto o poco, ma dare con tanto amore. Con la bocca parliamo, con gli occhi guardiamo, con le mani facciamo, con la vita consacrata la bocca dice parole di lode a Dio, gli occhi contemplano l’amore di Dio e le mani si uniscono per pregare Dio e si aprono per donare.

NOTE

[1] E' importante ricordare che la Legge (in ebraico la Torah) per Israele non è un insieme di norme, come la intendiamo noi. E’ prima di tutto un dono che Dio ha fatto al suo popolo con lo scopo di far conoscere la sua volontà salvifica. In ebraico Torah deriva dal verbo istruire (yrh) con un particolare riferimento all'istruzione trasmessa dal Pentateuco (i primi 5 libri dell’Antico Testamento) e per estensione è attribuita poi a tutta la Scrittura. 
Naturalmente tale dono è di ordine pratico, comporta azioni concrete da compiere, e quindi la traduzione in greco con nomos legge è corretta.

[2] Il compimento portato da Gesù a tale Legge può essere inteso con riferimento a) al suo comportamento personale (ha osservato i precetti della Legge); b) al suo ruolo di adempimento delle Scritture, sottolineato da San Matteo (cfr. capitoli 1-2 e altri passi); c) alla portata del suo insegnamento come espresso nel comandamento dell'amore (cfr. Mt 22,40) dal quale tutti gli altri prendono forza e significato.

[3] Legge e Profeti erano le prime due grandi parti della Bibbia ebraica (la terza parte è costituita dai Salmi; per estensione, indicano tutto l'Antico Testamento ed è in questo senso San Matteo la usa (cfr. 7,12; 11,13; 22,40).

[4] B. Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, 15.

[5] La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. In essa, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). (J. Ratzinger,  La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Roma 1967, p 74)

[6] Ma poi quali cose sono grandi davvero davanti a Dio? Quale differenza c’è fra le imprese di Francesco Saverio e ciò che fece la piccola Teresa? Ogni differenza viene meno davanti alla grandezza infinita di Dio. La vita e la grandezza di una persona sono nulla davanti a Dio. Quello che invece fa grande l’atto dell’uomo è che ogni atto raggiunge un Dio che lo ama.


LETTURA PATRISTICA
San Bernardo di Chiaravalle
(1091-1153)
Monaco cistercense e Dottore della Chiesa
In Discorsi vari, n° 22, 5-6


“La grazia, un tempo nascosta e velata nell’Antico Testamento è stata rivelata nel Vangelo del Cristo secondo un'ordinatissima distribuzione dei tempi fatta da Dio, che sa disporre bene tutti gli eventi...

In tale mirabile coincidenza c'è questa grande differenza tra due epoche: nel Sinai, il popolo non osava accostarsi al luogo dove il Signore donava la sua legge; nel Cenacolo invece lo Spirito Santo discende su coloro ai quali era stato promesso e che per aspettarlo si erano riuniti insieme in un sol luogo (Es 19,23; At 2,1).

Prima il Dito di Dio operò in tavole di pietra; ora scrive nei cuori degli uomini (2 Cor 3,3).

Un tempo, la legge fu proposta esternamente e spaventava gli ingiusti, ora è data interiormente perché gli ingiusti fossero da essa giustificati. Infatti tutto ciò che fu scritto su quelle tavole: “Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare”, e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. L'amore non fa nessun male al prossimo:pieno compimento della legge è l'amore (Rm 13,9-10).

L'amore “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).”