Rito
Romano – I Domenica di Quaresima – Anno A – 1° marzo 2020
Gn
2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5, 12-19; Mt 4, 1-11
Rito
Ambrosiano – I Domenica di Quaresima
Is
58, 4b-12b; Sal 102; 2Cor 5, 18-6,2; Mt 4, 1-11
Fame
di vita, fame di rapporti, fame di Dio
Sono
passati pochi giorni dal mecoledì delle ceneri, durante il quale ci
è stato ricordato che siamo polvere e che siamo chiamati alla
conversione, cioè all’amore.
In
questa prima Domenica di Quaresima la Chiesa ci fa pregare così:
“Dio, Padre onnipotente,
con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della
nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere
nell’intelligenza del mistero
d’amore di Cristo e di testimoniarlo con
un vita degna” (Colletta della Messa). In effetti la carità fa
entrare nella verità di Dio, è conversione, perché fa volgere
tutto il nostro cuore e tutta la nostra mente a Dio, e compiere opere
buone. Dunque la conversione non è solamente fare delle buone
azioni, è un cambiare per palesare la verità ultima di noi stessi,
fatti a immagine e somiglianza di Dio.
Nella
conversione tutto l’essere umano, con il cuore e la mente, si
rivolge tutto a Dio. Dicendo “convertitevi”,
Gesù vuol dire che tutto l'essere nostro, il
centro dell'essere, deve volgersi a Dio, e
non solo la volontà, non solo l'intelligenza (non basta far della
teologia e non basta nemmeno impegnarsi soltanto nelle virtù).
“Conversione”
vuol dire volgersi, quindi implica un nuovo senso, (da intendere non
solo come direzione ma anche come significato) della vita. E che cosa
implica questo volgersi? E’ il vivere in noi, nella nostra natura
umana, quello che le tre Persone della Trinità vivono tra di loro:
un pura relazione d’amore. La nostra conversione è un volgersi di
tutto il nostro essere a Dio. Noi non viviamo senza amore: per ogni
essere umano vivere vuol dire amare. Ma attenzione, possiamo amare
solamente noi stessi, il nostro corpo, il nostro orgoglio, possiamo
persino amare il male, ma possiamo amare anche Dio.
La
conversione è amore rivolto a Dio e in Lui al nostro prossimo.
Dunque viviamo la Quaresima come cammino per volgerci a Dio,
stabilmente. La conversione a cui siamo chiamati consiste quindi
in un rapporto: “Tu ti rivolgi a Uno che
ti chiama, ti incontri con Uno che ti parla; tu lo vedi, ti volgi a
Lui e ti apri all’amore” (Divo
Barsotti).
2) Quaresima:
40 giorni di esodo per andare verso la Terra promessa:
il Regno di Dio
Il
modo di vivere la conversione d’amore in questo periodo
quaresimale è quello di ricordare e rivivere con
Cristo i 40 giorni di digiuno e preghiera
da Lui passati nel deserto e che si conclusero con
il superamento di tre prove.
Le
tre tentazioni diaboliche, che Cristo oggi supera
riassumono i tre lati deboli della vita dell’uomo, che gli
impediscono di amare in verità: 1 -il
possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da
trasformare in pane); 2 - la ricerca di un
potere egoistico ed oppressivo (il possesso dei regni della terra); 3
- il desiderio di onnipotenza (rifiuto di adorare
Dio). Per vincere queste prove l’uomo dispone di uno strumento
infallibile: la Parola di Dio. A questo riguardo ricordiamo la
frase di Sant’Agostino d’Ippona: “Quando sei
colto dai morsi della fame - e mi permetto di aggiungere
anche della tentazione - lascia che la Parola di Dio divenga il tuo
pane di vita”.
Nel
racconto che Gesù stesso fece ai suoi discepoli, le tre tentazioni,
che ricapitolano questo tempo di prova, lasciano abbastanza
chiaramente capire che, in un combattimento che prefigurava la sua
agonia, Lui scelse l’amore del Padre e la carità per noi e iniziò
a bere il calice della Nuova Alleanza, che sarebbe stata sigillata
con la sua offerta sulla Croce.
Questo
amore offerto e rifiutato ci è presentato già nella prima lettura,
presa dal libro della Genesi, ci mostra che l’uomo è polvere
plasmata dalle “mani creative” di Dio e animata dal Suo soffio di
vita e di carità. Poche righe dopo, sempre il libro della Genesi
illumina il dramma delle scelte sbagliate di fronte al bene e al
male, un male che nasce nel cuore dell’uomo, dalle sue scelte, dai
suoi rifiuti, dal suo ostinarsi a seguire i propri criteri, anziché
i criteri di Dio. Ci viene chiesto di riflettere sulla gravità del
rifiuto di inserirsi nel disegno di Dio, pretendendo un’autonomia
assoluta nel decidere ciò che è bene e ciò che male. E’ la
pretesa di essere alla pari di Dio, di essere Dio a noi stessi e agli
altri.
Poi,
nella seconda lettura, ricavata dalla Lettera ai Romani, vediamo che
San Paolo si riferisce al racconto della Genesi e mette a confronto
il comportamento di Adamo e quello di Cristo e i risultati del loro
agire. La ribellione e la disobbedienza del primo hanno causato la
separazione da Dio e la morte di tutti gli uomini, l’obbedienza
perfetta di Cristo, invece, ha ottenuto a tutti la pienezza della
grazia e della vita. Adamo ed Eva sperimentano che la propria
presunzione li ha allontanati tra loro, dal creato e da Dio. Gesù,
invece, ricuce questo strappo e annulla questa distanza.
Infine,
la pagina del Vangelo di Matteo che ci è offerta oggi come terza
lettura, ripropone la stessa tentazione di Adamo ed Eva, ma mostra
come Gesù ne esce vittorioso e ci indica le vie per realizzare
un’esistenza fedele a Dio, una vita libera dal male profondo che ci
minaccia.
Il
diavolo mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù (“Se sei
Figlio di Dio …”) che era stata affermata al momento del
battesimo sulle rive del fiume Giordano. In effetti, la tentazione
non riguarda né il pane, né le cose, perché quelle son quel che
sono, ma come vivere la nostra relazione con le cose, con le persone,
con Dio. La possiamo vivere da figli di Dio, come Gesù, oppure
rifiutare la paternità amorosa di Dio che offre un rapporto stabile,
vivo e vivificante con Lui.
Dio
offre un’alleanza tra due libertà: la sua, che è iniziativa
d’amore infinito, e la nostra, che è chiamata a fiorire e vivere
della e per la libertà amorosa di Dio.
Se
con la grazia superiamo la tentazione, Dio dilata il nostro cuore,
che può così avere in dono Lui, che è l’Amore, e ci dona di bene
operare per rendere tutta la vita una lode a Lui.
-
Fame e deserto.
Un
dato non secondario è che il Vangelo di oggi ci dice che Gesù
è tentato da Satana dopo quaranta giorni e nottti di digiuno e,
quindi, Gesù ha fame.
Ma
non si tratta solo di una fame corporale, come ogni essere umano Gesù
ha:
a- fame
di vita, che tenta l’uomo al possesso e l’accumulo spropositato
di beni materiali (le pietre da trasformare in pane),
b- fame
di relazioni umane che possono essere d’amicizia o di potere,
simboleggiate dall’offerta di potere,
c- fame
di onnipotenza, che spinge a soffocare il desiderio di Dio cioè
l’anelito di infinito e di libertà senza limiti, inducendo alla
tentazione di progettare la propria esistenza secondo i criteri umani
della facilità, del successo, del potere, dell’apparenza,
dell’immagine, vale a dire la tentazione di adorare il Menzognero
(il diavolo) invece di adorare il Vero Amore provvidente.
Gesù
però sceglie un altro criterio, quello della fedeltà al progetto di
Dio, a cui aderisce pienamente e di cui è Parola fatta carne per
redimerci assumendo la nostra condizione, segnata dalla povertà e
dalla sofferenza, scegliendo con coraggio di farsi servo di tutti.
Per
vincere queste prove, questa fame di vita, di relazioni e di Dio
l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio.
Riscriviamo allora una frase di Sant’Agostino: Quando sei colto dai
morsi della fame – e possiamo aggiungere anche della tentazione –
lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita, lascia che
Cristo sia il tuo Pane di Vita.
A
questo punto, penso sia giusto chiedersi perché per digiunare Gesù
andò nel deserto.
Nella
tradizione biblica il deserto rappresentava il luogo della
preparazione a una missione divina. Così era stato per Mosè, che
conobbe la rivelazione di Jahvè (Esodo 3,1 e ss), per il popolo
uscito dalla schiavitù che sperimentò la fatica della libertà e
così fu per Elia, che vi ascoltò la parola divina (1a Re 19,18).
Dunque anche Gesù rimase nella solitudine del deserto per quaranta
giorni[2], prima di iniziare il suo ministero pubblico.
Gesù
l’ha fatto per insegnarci a vivere la vita come esodo nel deserto
come è stato per il popolo ebraico e come deve essere la per la
Chiesa, pellegrina verso il Cielo. Questo significa non poter
programmare la propria vita, non poterne disporre, doversi
abbandonare a una Parola di promessa. Dio dice anche a noi: “Nulla
ti mancherà, ma tutto dovrai attendere da me”. È questo il
significato della fede: non solamente l’assenso a un corpo di
dottrine ma il fidarsi di un amore, il credere all’amore: a
quell’amore che ha iniziato senza di te (l’uscita dall’Egitto
come per noi l’uscita dal grembo di nostra madre), ma che potrà
continuare soltanto se troverà la nostra adesione.
Ci
è chiesto di tradurre il nostro comportamento quotidiano, la “cura”
di noi stessi, in quell’Altro che ci ha liberati.
La
quasi totalità di noi è chiamata a esistere domani non nella
situazione di emergenza del deserto, ma nella situazione di normalità
di una terra da coltivare e da abitare. Tuttavia tutti noi siamo
chiamati a portarvi lo stesso atteggiamento di fondo: vivere su
quella terra ma con un cuore di deserto.
Questo
cuore è chiesto particolarmente alle Vergini Consacrate, che nella
solitudine fisica sono chiamate ad un tu per tu con Dio: parlare al
cuore.
Il
deserto, la solitudine verginale è il luogo privilegiato, il luogo
dove si sta a tu per tu con Dio. Lo Sposo non può
costringere la sposa ad amarLo. Il Signore però ha un mezzo
infallibile, come lo descrisse, ad esempio il profeta Osea.
All’inizio, al cap 2, Osea parla di questo adulterio terrificante,
il tornare ad adorare gli idoli che i vecchi padri hanno adorato; il
Signore addolorato, angosciato, interviene e dice che ha un mezzo e
lo metterà in azione, riporterà di nuovo il popolo nel deserto, gli
indicherà di nuovo le strade antiche, parlerà di nuovo al suo
cuore, nel deserto, appunto quando le categorie malefiche, i
diaframmi opachi sono caduti; allora il cuore dell’uomo, cioè la
sua intelligenza, ed il cuore di Dio, cioè la divina Sapienza stanno
a tu per tu e l’incontro è immediato, possibile e fecondo.
Le
Vergini consacrate vivono il “deserto” della loro vocazione come
della disponibilità totale. La loro è una spiritualità della
disponibilità generosa verso gli altri, della disponibilità totale
verso il Signore da cui attendono tutto.
Con
la preghiera, l’elemosina ed il digiuno, impariamo tutti questa
disponibilità per camminiare uniti nel “deserto” quaresimale, e
della vita, così la fame diventerà desiderio santo di Dio e saremo
la Tenda dove l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, avrà stabile
dimora.
NOTE
[1] L’interpretazione
cristiana dell’Esodo è guidata da quella lettura che si è soliti
chiamare “tipologica”: tutto ciò che riguarda Israele (vicende e
personaggi, riti e istituzioni) è la figura – il typos,
appunto – di quanto accade in Cristo e nella Chiesa. Riprendiamo
brevemente le fasi principali dell’Esodo per vedere in che modo
esse vengono riprese e reinterpretate in funzione dell’evento
cristiano.
Prima
tappa: l’Egitto (e il Faraone) è inteso come figura del peccato.
Soprattutto di quella condizione universale di peccato che teneva
schiava l’umanità prima di Cristo. Ma Egitto può essere anche
colui, che provoca il peccato: Satana; oppure la sua trascrizione
storica, l’idolatria pagana. Di conseguenza, la liberazione
dall’Egitto attraverso il passaggio del Mar Rosso sarà la figura
del battesimo, e l’agnello pasquale immolato assurgerà a simbolo
di Cristo nella sua passione.
La
tappa del deserto è ripresa come figura della vita del credente in
cammino. In essa compaiono, come per Israele, la prova e la
tentazione; ma anche la protezione divina vi si dispiega con
particolare intensità: i miracoli dell’Esodo diventano il miracolo
dell’esistenza sacramentale: la roccia-Cristo da cui zampilla
l’acqua battesimale, e la manna diventata eucaristia. Il deserto
può essere interiorizzato come cammino individuale dell’anima
verso la contemplazione e la perfezione spirituale; o può essere
vissuto come itinerario Quaresima in preparazione delle celebrazioni
pasquali.
Il
senso cristiano della Legge è riscontrato, sulla linea paolina,
nella condensazione di tutte le leggi etico-sociali nella carità;
mentre le leggi rituali trovano la loro verità nel culto cristiano.
Finalmente,
la terra promessa ripropone il motivo sacramentale: il passaggio del
Giordano, come già quello del Mar Rosso, rimanda al battesimo,
mentre nel “paese dove scorre latte e miele” i Padri della Chiesa
leggono una suggestiva figura del banchetto eucaristico. Accanto a
questa, e ancor più frequente, è l’interpretazione della terra
promessa come immagine della vita definitiva con Dio.
Si
può riassumere il tutto dicendo che il senso tipologico dell’Esodo
è l’itinerario del popolo cristiano dalla schiavitù del peccato
attraverso il battesimo e l’esistenza in fede e carità fino alla
patria celeste.
[2] Quaranta
è un numero simbolico, in questo caso, oltre a collegarsi ai
quarant’anni passati dal Popolo di Israele nel deserto, sta a
significare tutta una generazione, cioè Gesù, facendosi uomo, è
stato tentato per tutta la sua vita.
Lettura
Patristica
San Gregorio
Magno
Hom.
16, 1-6
Le
tentazioni del Redentore
Non era indegno del nostro Redentore il voler essere tentato, lui che ;era venuto per essere ucciso. Era anzi giusto che vincesse le nostre tentazioni con le sue tentazioni, dato che era venuto a vincere la nostra morte con la sua morte. Ma dobbiamo sapere che la tentazione passa per tre stadi: la suggestione, la dilettazione e il consenso. Noi, quando siamo tentati, cadiamo per lo più nella dilettazione o addirittura nel consenso, perché siamo nati da una carne di peccato e portiamo in noi stessi ciò che ci muove tante battaglie. Ma Dio, che s’incarnò nel grembo della Vergine, venne nel mondo senza peccato e non provò in sè alcuna contraddizione. Egli poté dunque essere tentato per suggestione, ma l’anima sua non provò la compiacenza del peccato. Pertanto tutta quella tentazione diabolica fu all’esterno, non all’interno.
Ma se guardiamo l’ordine secondo cui fu tentato, capiremo quanto bene noi siamo stati liberati dalla tentazione. L’antico avversario si rivolse contro il primo Adamo, nostro padre, con tre tentazioni, poiché lo tentò di gola, di vanagloria e di avarizia; ma tentandolo lo vinse, perché lo sottomise a sé mediante il consenso. Lo tentò di gola quando gli mostrò il frutto dell’albero proibito, perché ne mangiasse. Lo tentò poi di vanagloria quando disse: "Sarete simili a Dio" (Gn 3,5). Lo tentò di avarizia quando disse: "Conoscerete il bene e il male". L’avarizia infatti non riguarda soltanto il denaro, ma anche gli onori. Giustamente si dice avarizia il desiderio smodato di stare in alto. Se il carpire onori non appartenesse all’avarizia, Paolo non direbbe, riguardo al Figlio unigenito di Dio: "Non stimò una rapina la sua uguaglianza con Dio" (Ph 2,6). In ciò poi il diavolo attrasse il nostro padre alla superbia, poiché lo spinse a quel tipo di avarizia che è il desiderio di eccellere.
Ma con quegli stessi mezzi coi quali abbattè il primo Adamo, fu vinto dal secondo Adamo da lui tentato. [Il diavolo] lo tenta infatti nella gola quando dice: "Comanda che queste pietre diventino pane". Lo tenta di vanagloria quando dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati di sotto. Lo tenta con l’avarizia degli onori quando mostra tutti i regni del mondo, dicendo: "Tutto io ti darò, se ti prostri e mi adori". Ma è vinto dal secondo Adamo proprio con quei mezzi coi quali si vantava di aver vinto il primo, così da uscire dai nostri cuori, scornato, passando per quella stessa strada per la quale si era introdotto, per dominarci. Ma c’è un’altra cosa, fratelli carissimi, che dobbiamo considerare in questa tentazione del Signore; tentato dal diavolo, il Signore risponde con i precetti della Sacra Scrittura, e colui che, essendo quella Parola, poteva cacciare il tentatore nell’abisso, non mostrò la virtù della sua potenza ma soltanto ripeté i divini comandi della Scrittura, per darci così l’esempio della sua pazienza; di modo che, tutte le volte che soffriamo a causa di uomini malvagi, siamo portati a rispondere con la dottrina piuttosto che con la vendetta. Pensate quanto è grande la pazienza di Dio e quanto è grande la nostra impazienza! Noi, se siamo provocati con qualche ingiuria o con qualche offesa, ci infuriamo e ci vendichiamo quanto possiamo, o minacciamo ciò che non possiamo fare. Invece il Signore sperimentò l’avversità del diavolo e non gli rispose se non con parole di mitezza. Sopportò colui che poteva punire, affinché gli tornasse a maggior gloria il fatto di aver vinto il nemico non annientandolo, ma bensì sopportandolo.
Bisogna fare attenzione a quello che segue, che cioè gli angeli lo servivano dopo che il diavolo se ne fu andato. Cos’altro si ricava da ciò se non la duplice natura nell’unità della persona? È un uomo, infatti, colui che il diavolo tenta, ma è anche Dio colui che è servito dagli angeli. Riconosciamo dunque in lui la nostra natura, in quanto se il diavolo non l’avesse conosciuto uomo, non l’avrebbe tentato, adoriamo in lui la divinità, in quanto se non fosse Dio che è al di sopra di tutte le cose, gli angeli non lo servirebbero.
Ma poiché questa lettura si adatta al presente periodo - infatti, noi che iniziamo il tempo quaresimale, abbiamo udito che la penitenza del nostro Redentore è durata quaranta giorni -, dobbiamo cercar di capire perché questa penitenza è osservata per quaranta giorni... Mentre l’anno è composto di trecentosessantacinque giorni, noi facciamo penitenza per trentasei giorni, come se dessimo a Dio la decima sul nostro anno, affinché, dopo aver vissuto per noi stessi il resto dell’anno, ci mortifichiamo nell’astinenza in onore del nostro Creatore per la decima parte dell’anno stesso. Perciò, fratelli carissimi, come nella Legge ci è imposto di offrire le decime di tutte le cose (cf. Lv 27,30s), così dovete cercare di offrire a lui anche la decima dei vostri giorni. Ognuno, secondo quanto gli è possibile, maceri la sua carne e ne affligga le brame, ne uccida le concupiscenze disoneste, affinché, secondo la parola di Paolo, divenga una vittima viva (Rm 12,1). Certo la vittima è immolata ed è viva, quando l’uomo non muore e tuttavia uccide se stesso nei desideri carnali. La nostra carne, soddisfatta, ci portò al peccato; mortificata, ci conduca al perdono. Colui che fu autore della nostra morte trasgredì i precetti della vita mediante il frutto dell’albero proibito. Noi dunque, che ci siamo allontanati dalle gioie del paradiso per colpa del cibo, procuriamo di tornare ad esse grazie all’astinenza.
Ma nessuno creda che l’astinenza da sola possa bastargli dal momento che il Signore dice per bocca del Profeta: "Non è forse maggiore di questo il digiuno che bramo?", aggiungendo: "Dividi il pane con l’affamato, e introduci in casa tua i miseri, senza tetto; quando vedrai uno nudo, soccorrilo, e non disprezzare la tua carne" (Is 58,6 Is 58,7). Dio dunque gradisce quel digiuno che una mano piena di elemosine presenta ai suoi occhi, quel digiuno che si congiunge all’amore del prossimo ed è ornato dalla pietà. Ciò che togli a te stesso, dallo a un altro, affinché cio di cui si affligge la tua carne serva di ristoro alla carne del povero. Così infatti dice il Signore per bocca del Profeta: "Quando avete fatto digiuni e lamenti, forse avete digiunato per me? E quando avete mangiato e bevuto, forse non avete mangiato bevuto per voi stessi?" (Za 7,5-6). Infatti mangia e beve per sé chi prende i cibi del corpo, i quali sono donati a tutti dal Creatore, senza parteciparli ai bisognosi. E digiuna per sé chi non distribuisce ai poveri quelle cose di cui si è privato temporaneamente, ma anzi le serba per darle al suo ventre in altra occasione. Perciò è detto per bocca di Gioele: "Santificate il digiuno" (Jl 1,14 Jl 2,15). Santificare il digiuno significa offrire un’astinenza dalle carni degna di Dio, dopo aver aggiunto altri doni. Cessi l’ira, si plachino i litigi. Invano la carne è afflitta, se l’animo non si frena nei suoi malvagi desideri, come dice il Signore per bocca del Profeta: "Ecco, nel giorno del vostro digiuno si trova la vostra volontà. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui, e ricercate tutti i vostri debitori" (Is 58,3). Né commette ingiustizia chi richiede dal suo debitore quanto gli aveva prestato; è bene tuttavia che quando uno si macera nella penitenza, si astenga anche da ciò che gli spetta con giustizia. Così Dio perdona a noi, afflitti e penitenti, ciò che abbiamo fatto di male, se per amor suo rinunciamo anche a ciò che giustamente potremmo esigere.
Non era indegno del nostro Redentore il voler essere tentato, lui che ;era venuto per essere ucciso. Era anzi giusto che vincesse le nostre tentazioni con le sue tentazioni, dato che era venuto a vincere la nostra morte con la sua morte. Ma dobbiamo sapere che la tentazione passa per tre stadi: la suggestione, la dilettazione e il consenso. Noi, quando siamo tentati, cadiamo per lo più nella dilettazione o addirittura nel consenso, perché siamo nati da una carne di peccato e portiamo in noi stessi ciò che ci muove tante battaglie. Ma Dio, che s’incarnò nel grembo della Vergine, venne nel mondo senza peccato e non provò in sè alcuna contraddizione. Egli poté dunque essere tentato per suggestione, ma l’anima sua non provò la compiacenza del peccato. Pertanto tutta quella tentazione diabolica fu all’esterno, non all’interno.
Ma se guardiamo l’ordine secondo cui fu tentato, capiremo quanto bene noi siamo stati liberati dalla tentazione. L’antico avversario si rivolse contro il primo Adamo, nostro padre, con tre tentazioni, poiché lo tentò di gola, di vanagloria e di avarizia; ma tentandolo lo vinse, perché lo sottomise a sé mediante il consenso. Lo tentò di gola quando gli mostrò il frutto dell’albero proibito, perché ne mangiasse. Lo tentò poi di vanagloria quando disse: "Sarete simili a Dio" (Gn 3,5). Lo tentò di avarizia quando disse: "Conoscerete il bene e il male". L’avarizia infatti non riguarda soltanto il denaro, ma anche gli onori. Giustamente si dice avarizia il desiderio smodato di stare in alto. Se il carpire onori non appartenesse all’avarizia, Paolo non direbbe, riguardo al Figlio unigenito di Dio: "Non stimò una rapina la sua uguaglianza con Dio" (Ph 2,6). In ciò poi il diavolo attrasse il nostro padre alla superbia, poiché lo spinse a quel tipo di avarizia che è il desiderio di eccellere.
Ma con quegli stessi mezzi coi quali abbattè il primo Adamo, fu vinto dal secondo Adamo da lui tentato. [Il diavolo] lo tenta infatti nella gola quando dice: "Comanda che queste pietre diventino pane". Lo tenta di vanagloria quando dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati di sotto. Lo tenta con l’avarizia degli onori quando mostra tutti i regni del mondo, dicendo: "Tutto io ti darò, se ti prostri e mi adori". Ma è vinto dal secondo Adamo proprio con quei mezzi coi quali si vantava di aver vinto il primo, così da uscire dai nostri cuori, scornato, passando per quella stessa strada per la quale si era introdotto, per dominarci. Ma c’è un’altra cosa, fratelli carissimi, che dobbiamo considerare in questa tentazione del Signore; tentato dal diavolo, il Signore risponde con i precetti della Sacra Scrittura, e colui che, essendo quella Parola, poteva cacciare il tentatore nell’abisso, non mostrò la virtù della sua potenza ma soltanto ripeté i divini comandi della Scrittura, per darci così l’esempio della sua pazienza; di modo che, tutte le volte che soffriamo a causa di uomini malvagi, siamo portati a rispondere con la dottrina piuttosto che con la vendetta. Pensate quanto è grande la pazienza di Dio e quanto è grande la nostra impazienza! Noi, se siamo provocati con qualche ingiuria o con qualche offesa, ci infuriamo e ci vendichiamo quanto possiamo, o minacciamo ciò che non possiamo fare. Invece il Signore sperimentò l’avversità del diavolo e non gli rispose se non con parole di mitezza. Sopportò colui che poteva punire, affinché gli tornasse a maggior gloria il fatto di aver vinto il nemico non annientandolo, ma bensì sopportandolo.
Bisogna fare attenzione a quello che segue, che cioè gli angeli lo servivano dopo che il diavolo se ne fu andato. Cos’altro si ricava da ciò se non la duplice natura nell’unità della persona? È un uomo, infatti, colui che il diavolo tenta, ma è anche Dio colui che è servito dagli angeli. Riconosciamo dunque in lui la nostra natura, in quanto se il diavolo non l’avesse conosciuto uomo, non l’avrebbe tentato, adoriamo in lui la divinità, in quanto se non fosse Dio che è al di sopra di tutte le cose, gli angeli non lo servirebbero.
Ma poiché questa lettura si adatta al presente periodo - infatti, noi che iniziamo il tempo quaresimale, abbiamo udito che la penitenza del nostro Redentore è durata quaranta giorni -, dobbiamo cercar di capire perché questa penitenza è osservata per quaranta giorni... Mentre l’anno è composto di trecentosessantacinque giorni, noi facciamo penitenza per trentasei giorni, come se dessimo a Dio la decima sul nostro anno, affinché, dopo aver vissuto per noi stessi il resto dell’anno, ci mortifichiamo nell’astinenza in onore del nostro Creatore per la decima parte dell’anno stesso. Perciò, fratelli carissimi, come nella Legge ci è imposto di offrire le decime di tutte le cose (cf. Lv 27,30s), così dovete cercare di offrire a lui anche la decima dei vostri giorni. Ognuno, secondo quanto gli è possibile, maceri la sua carne e ne affligga le brame, ne uccida le concupiscenze disoneste, affinché, secondo la parola di Paolo, divenga una vittima viva (Rm 12,1). Certo la vittima è immolata ed è viva, quando l’uomo non muore e tuttavia uccide se stesso nei desideri carnali. La nostra carne, soddisfatta, ci portò al peccato; mortificata, ci conduca al perdono. Colui che fu autore della nostra morte trasgredì i precetti della vita mediante il frutto dell’albero proibito. Noi dunque, che ci siamo allontanati dalle gioie del paradiso per colpa del cibo, procuriamo di tornare ad esse grazie all’astinenza.
Ma nessuno creda che l’astinenza da sola possa bastargli dal momento che il Signore dice per bocca del Profeta: "Non è forse maggiore di questo il digiuno che bramo?", aggiungendo: "Dividi il pane con l’affamato, e introduci in casa tua i miseri, senza tetto; quando vedrai uno nudo, soccorrilo, e non disprezzare la tua carne" (Is 58,6 Is 58,7). Dio dunque gradisce quel digiuno che una mano piena di elemosine presenta ai suoi occhi, quel digiuno che si congiunge all’amore del prossimo ed è ornato dalla pietà. Ciò che togli a te stesso, dallo a un altro, affinché cio di cui si affligge la tua carne serva di ristoro alla carne del povero. Così infatti dice il Signore per bocca del Profeta: "Quando avete fatto digiuni e lamenti, forse avete digiunato per me? E quando avete mangiato e bevuto, forse non avete mangiato bevuto per voi stessi?" (Za 7,5-6). Infatti mangia e beve per sé chi prende i cibi del corpo, i quali sono donati a tutti dal Creatore, senza parteciparli ai bisognosi. E digiuna per sé chi non distribuisce ai poveri quelle cose di cui si è privato temporaneamente, ma anzi le serba per darle al suo ventre in altra occasione. Perciò è detto per bocca di Gioele: "Santificate il digiuno" (Jl 1,14 Jl 2,15). Santificare il digiuno significa offrire un’astinenza dalle carni degna di Dio, dopo aver aggiunto altri doni. Cessi l’ira, si plachino i litigi. Invano la carne è afflitta, se l’animo non si frena nei suoi malvagi desideri, come dice il Signore per bocca del Profeta: "Ecco, nel giorno del vostro digiuno si trova la vostra volontà. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui, e ricercate tutti i vostri debitori" (Is 58,3). Né commette ingiustizia chi richiede dal suo debitore quanto gli aveva prestato; è bene tuttavia che quando uno si macera nella penitenza, si astenga anche da ciò che gli spetta con giustizia. Così Dio perdona a noi, afflitti e penitenti, ciò che abbiamo fatto di male, se per amor suo rinunciamo anche a ciò che giustamente potremmo esigere.