Rito
romano
XXIII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 8 settembre 2019.
Sap
9, 13-18; Sal 89; Fm 1,9b-10.12-17; Lc 14, 25-33
La
rinuncia per amore è un dono gioioso.
Rito
ambrosiano
II
Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is
5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32
Santità
non è fare grandi cose, ma obbedire come figli, cioè liberi.
1) Un ordine nell’amore.
Anche
il brano del Vangelo che la liturgia ci propone in questa 23°
domenica del Tempo Ordinario, ci mostra come il Redentore colga
l’uomo nella sua vita reale, nell’ambito più intimo delle sue
relazioni familiari. Al tempo stesso, però Gesù ci propone un
legame di gran lunga superiore agli affetti della famiglia naturale.
Parole come “padre”, “madre”, “fratello”, in Cristo
assumono un significato più profondo e
ricco di quello che si intende naturalmente. Cristo dicendo che
occorre “odiare il padre… la madre… il fratello” (formula che
probabilmente ha un’influenza aramaica che vuole dire amare Dio più
del padre naturale) non distrugge i legami naturali. Li mette in
ordine, dando loro la corretta gerarchia. Sant’Agostino commenta
così: “ Cristo ha messo in te un
ordine nell'amore.
Ama dunque il padre, ma non amarlo più del Signore, ama chi ti ha
generato ma non più di me che ti ho creato”. Cristo non chiede di
amare Dio contro il padre, la madre, la moglie, il marito, i figli,
ma di amarli in Lui.
In
un modo apparentemente paradossale, il Redentore ci insegna che noi
siamo discepoli nella misura in cui accogliamo l’amore e poi
vivremo questo amore. E oggi ascoltiamo l’espressione: “Chi
non odia il proprio padre e la propria madre, la donna, i figli e i
fratelli, le sorelle e la propria vita non può essere mio
discepolo”. Credo che questa
espressione aramaica che usa il verbo “odiare”, è una cosa
forte, ma ci richiama ciò che sappiamo: il comandamento qual è? E
qual è il comandamento fondamentale? “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua
vita, con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso. Ora
questo comandamento: “Chi non odia il padre, la madre …”
corrisponde a quello che ci chiede di amare Dio con tutto il cuore…
In
fondo è espresso in modo negativo quello che è il comandamento
positivo di amare Dio con tutto il cuore, poi se amo Dio con tutto il
cuore divento come Dio e amerò anche gli altri.
E’
il comandamento dell’amore assoluto per Dio, che poi è tipico del
desiderio del cuore dell'uomo che è quello di amare in modo
infinito e solo l'Infinito può essere amato in modo infinito, se no
diventa idolatria e diventiamo schiavi. L’Assoluto, il Dio di
Cristo è il “Dio del cuore umano” (San Francesco di Sales,
Trattato dell’Amore di Dio,
I, XV) e ci assolve, ci rende liberi davvero, perché l’Amore
assoluto dà significato, senso (direzione) e gusto alla libertà.
In
fondo chi lascia la propria famiglia, non ha moglie, non ha marito,
non ha figli, testimonia che l'amore assoluto dell'uomo è Dio,
questo per qualunque uomo.
Insomma,
dobbiamo lasciare tutto per avere il Tutto, seguendo Cristo, che ci
mostra che chi ama non muore, che solamente l'amore vince la morte.
In effetti amando non si muore, si vive nell’altro o, meglio, si
vive in Dio per sempre. Questo
Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà:
“poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa
sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se
nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza”
(Ibid., libro I, cap. VI).
Alle
numerose persone che camminano con Lui perché Lui è il senso della
vita, Gesù rivolge l’invito a rompere tutti i legami umani,
persino quelli con se stessi (Lc
14,25-26). L’Evangelista Luca è minuzioso e insistente
nell'elencare i legami da rompere e, inoltre, conserva in tutta la
sua paradossalità il verbo greco misein
(odiare). San Matteo usa il verbo greco fileo1
che qui si può tradurre con «preferire», e - penso - giustamente.
Anche San Luca, ovviamente, non intende odiare nel vero senso della
parola. Pur collocando il verbo «odiare» nel suo significato più
proprio di posporre,
subordinare decisamente,
queste parole di Gesù mantengono intatta la propria forza. Egli sa
bene che i genitori devono essere amati e rispettati. Si tratta,
anche per lui, non di odio, ma di distacco, di preferenza del Regno:
tuttavia egli ha conservato il verbo greco misein
che indica, senza dubbio, un distacco radicale.
Non si tratta
soltanto di rompere i legami con la famiglia, né basta un generico
distacco da se stessi: l'esempio di Gesù è molto concreto e
preciso: occorre essere disposti a portare la croce (versetto 27),
cioè essere pronti all'effettivo e totale dono di sé.
Le
parabole della torre e del re (14,28-32) insegnano che bisogna
riflettere bene prima di buttarsi in un'impresa, occorre calcolare le
possibilità e creare le condizioni che permettono di concluderla con
successo.
La
sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi, perché
prima di intraprendere a seguire Gesù occorre “calcolare e
riflettere”. Questo non significa trovare i modi per sfuggire alla
logica della croce, bensì trovare i modi per condurla fino alle
estreme conseguenze. Questo è il calcolo richiesto al discepolo.
Ma
che cosa significa in concreto «calcolare e riflettere?». Ce lo
dice il versetto 33: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti
i suoi averi non può essere mio discepolo”. Solo nel distacco
dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale.
Come per costruire una torre è necessaria una sufficiente quantità
di mattoni ed i soldi per acquistarli, così per seguire Gesù è
necessario il distacco dai beni.
In
effetti non si può amare il Bene se il nostro cuore è attaccato ai
beni.
La
differenza tra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa
valutazione del sacrificio e della vita, fino a rinunciarvi perché
come dice il Salmo: “La tua grazia
vale più della vita”.
Il
sacrificio è redentivo, perché è la strada che Cristo ha percorso
per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua
vera casa.
Il
sacrificio è educativo, perché ci impedisce di cullare l’illusione
che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di
scambiare la misera via del pellegrino con la luminosa ed eterna
felicità della patria.
2)
Seguire per amore e senza mezze misure.
Per
raggiungere questa patria dobbiamo lasciare tutto per avere il Tutto,
seguendo Cristo, che ci mostra che chi ama non muore, che solamente
l'amore vince la morte. In effetti amando non si muore, si vive
nell’altro o, meglio, si vive in Dio per sempre. Chiamati all’esodo
dietro Cristo, Mosè definitivo, i cristiani sono chiamati a
combattere le mezze misure. Due mezze misure fanno un intero solo in
matematica. Cristo da noi vuole la misura intera, piena. Il nostro
peccato più frequente è, penso, il peccato di omissione: non è
tanto il male che si fa, quanto il bene che non si fa o, piuttosto,
il bene che si fa a metà. Nella vita cristiana la somma
di due mezze misure
dà come risultato la
mediocrità2.
Questa parola è eloquente: designa lo stato di chi si stabilisce
nella mezza misura, di chi serve due padroni e che non può che
essere tiepido, ma “Dio
vomita i tiepidi”
(Ap
3,16):
Seguire
Cristo è una “mortificazione” (=fare morte) di ciò che è
caduco per una vita liberata, redenta. La rinuncia non
è nel cristianesimo fine a se stessa, è sempre la via per aprirsi
agli altri e all’Altro per eccellenza. Per andare verso l’altro,
bisogna prima uscire da se stessi.
Seguire
Cristo, camminare con Lui esige un uscire da noi stessi, da un modo
di vivere la fede stanco e abitudinario.
Per andare dietro a Gesù come Lui esige non basta la commozione del
cuore ma bisogna assumere la sua logica d’amore che ha come vertice
la Croce e come esito la Risurrezione. Il dono della vita che Cristo
ha fatto fu ed è un dono che porta vita, per sempre.
Seguire
Cristo è dedicarsi alla preghiera infatti
“l’orazione, esercitando l’anima,
la unisce a Dio e le fa seguire le vestigia di Cristo crocifisso;
così Dio fa di essa un altro se stesso, per desiderio, affetto e
unione d’amore” (Santa Caterina
da Siena, Il Dialogo della divina
Provvidenza, cap. 1). Con l’amore
(agape) Dio stesso assicura la continuità della sua presenza in noi.
L’amore di due esseri ne fa uno.
In
ciò ci sono di testimonianza le Vergini consacrate le quali offrono
l’esempio di seguire Cristo abbandonandosi alla divina Provvidenza
in un atteggiamento sponsale. Conformemente al Rito della loro
Consacrazione quando il Vescovo chiede loro: “Volete
seguire Cristo secondo il Vangelo in modo tale che la vostra vita
appaia come una testimonianza d’amore e segno del Regno di Dio?”,
“Volete essere consacrate al
Signore Gesù Cristo, il Figlio del Dio altissimo e riconoscerlo come
sposo”, esse rispondono: “Sì,
lo vogliamo” (RCV 17).
In
effetti la consacrazione verginale implica una confidenza
illimitata nel Figlio di Dio. “Chi si dona completamente a Dio
non teme di abbandonare anche tutte le umane cose, per dedicarsi
unicamente alle cose divine, per dedicarsi tutto a Dio, per cercare
il Regno di Lui e la sua giustizia, per sgombrare dal suo cuore tutti
gli affetti terreni, in una parola, per seguire Cristo, e stringersi
alla beata nudità della sua croce, morendo su di quella alla terra,
e vivendo solo al cielo: mentre dove sta il suo tesoro, ivi si trova
pure il suo cuore” (Antonio Rosmini, Massime di perfezione
cristiana, lezione V).
1
Il
verbo philéô
significa
“amare” nel senso di “volersi bene, avere caro, trattare con
affetto, baciarsi (fra amici), accogliere amichevolmente un ospite”.
Philéô
era il verbo che esprimeva l'idea di “affetto fra amici” (il
sostantivo philós
significa infatti in greco “l'amico”). Con philéô
si indicava un rapporto interpersonale fondato sull'uguaglianza,
sull'affinità all'interno di una comunità, di una città, di una
razza. Infatti, come aggettivo, philós
significa “caro” e veniva usato nella relazione fra genitori e
figli o tra fratelli. Il verbo philéô
ricorre 9 volte in
Giovanni,
5 volte in Matteo,
1 volta in Marco,
2 volte in Luca;
2 volte nelle Epistole. Nel senso di “avere caro, aver affetto”
Gesù usa talvolta questo verbo nei confronti di Lazzaro e di
Giovanni (Gv.
11,
3, 36; 20,2), rivelando così una particolare tenerezza e
preferenza.
Il
verbo agapáô significa “amare” nel senso di “avere
caro, tenere in gran conto, preferire, prediligere”: è usato per
indicare l'amore verso Dio, il Cristo, la giustizia o il prossimo.
Rispetto a philéô, il verbo agapáô ha una minore
sfumatura affettiva o, per meglio dire, emotiva ed esprime un moto
di benevolenza ideale, un tipo di amore che parte dall'alto o che
all'alto si rivolge. Nel latino della Vulgata il verbo agapáô
è tradotto con díligo, da cui l'italiano “prediligere”.
Agapáô ricorre 37 volte in Giovanni, 13 volte in
Luca, 8 volte in Matteo, 5 volte in Marco; si
trova inoltre 25 volte nelle Lettere di Giovanni. Nel discorso
dell'Ultima Cena riportato in Giovanni il Cristo usa sempre
questo verbo: “Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato
voi” (15,9), “amatevi gli uni gli altri” (15,18), fino a
quell'ultima preghiera (Gv. 17) in cui il Cristo, donandosi
completamente agli uomini, dice: “E io ho fatto conoscere loro il
tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai
amato sia in essi e io in loro”.
La
differenza tra l'amore espresso da philéô e quello espresso
da agapáô - differenza in realtà ignota ai Greci
dell'epoca classica - risulta particolarmente chiara dal capitolo 21
(15-17) di Giovanni, dove il Cristo pone a Pietro per tre
volte la nota domanda: "Mi ami tu?". In realtà la prima e
la seconda domanda recano il verbo agapáô:
“Dopo
aver pranzato, dice Gesù a Simon Pietro: " Simone di Giovanni,
mi ami (agapâs) tu più di costoro?”. Gli risponde: “Sì,
o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô). Gli dice:
“Pasci i miei agnelli”. Gli dice per la seconda volta: “Simone
di Giovanni, mi ami (agapâs) tu?”. Gli risponde: “Sì, o
Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô)”. Gli dice:
“Pasci il mio gregge”. Gli dice per la terza volta: “Simone di
Giovanni, mi vuoi bene (phileîs)?””.
La
terza volta il Cristo usa il verbo philéô perché, prima
della Pentecoste, gli apostoli, compreso Pietro, vivevano ancora
l'amore secondo rapporti di sangue, secondo affinità di gruppo o di
famiglia: essi recepivano insomma il valore dell'"amore"
secondo la connotazione espressa dal verbo philéô. Soltanto
dopo la Pentecoste, quando sarà discesa su di essi la fiamma
dell'amore cristico, gli apostoli comprenderanno appieno il valore
universale dell'agápê, tanto che Paolo così potrà
parlarne nell’“Inno alla carità” (1 Cor 13, 1-8).
2
Mediocrità è parola che indica, per es, 1. La
posizione intermedia tra due estremi; 2. la modesta qualità o lo
scarso valore
di una cosa: mediocrità della merce; 3. La qualità modesta di una
persona, che, quindi, viene qualificata come mediocre.
Lettura
patristica
Sant’Agostino
d’Ippona
Discorso
344
L'AMORE
DI DIO E AMORE DEL MONDO.
Lotta
fra i due amori.
1.
Lottano tra loro in questa vita, in ogni tentazione, due amori:
l'amore del mondo e l'amore di Dio. Quello dei due che vince trae
dalla sua parte, come per una forza di gravità, colui che tende ad
esso. A Dio non veniamo con ali o con i piedi, ma con l'affetto. Per
un contrario affetto anche alla terra siamo attaccati, non per nodi o
legami fisici. Cristo è venuto a mutare la direzione dell'amore e a
mutare l'uomo, da amatore che era di cose terrene ad amatore di vita
celeste. Fattosi uomo per noi, lui che ci ha fatto uomini, lui Dio,
ha assunto la natura umana per farci da uomini dèi. Questa gara ci
viene proposta: una lotta con la carne, una lotta col diavolo, una
lotta col mondo. Ma dobbiamo avere fiducia, perché chi ha indetto la
gara, non sta lì come spettatore senza darci aiuto e neanche ci
esorta a presumere delle nostre forze. Chi presume infatti delle
proprie forze, in quanto è uomo, si fida delle forze dell'uomo. Ed è
detto: Maledetto l'uomo che confida nell'uomo. I martiri che
ardevano della fiamma di questo pio e santo amore bruciarono la
paglia della carne con la forza dell'animo e giunsero integri nello
spirito presso Colui da cui erano stati accesi. Anche alla carne che
sia stata capace di disprezzare le cose di questa sfera materiale
sarà dato il dovuto onore nella risurrezione dei morti. La carne è
stata seminata in ignominia per risorgere nella gloria.
Amore
ai parenti ma piú a Dio.
2.
A chi è acceso di questo amore a Dio o meglio perché vi si accenda
è stato detto: Chi ama il padre o la madre più di me non è
degno di me, e: Chi non prende la sua croce e non mi segue non
è degno di me. Dio non ha tolto l'amore dei genitori, della
moglie, dei figli ma lo ha messo in gerarchia di valori. Non ha
detto: " Chi ama ", ma: chi ama più di me. E`
quello che la Chiesa dice nel Cantico dei Cantici: Ha messo in me
un ordine nell'amore. Ama dunque il padre, ma non amarlo più del
Signore, ama chi ti ha generato ma non più di chi ti ha creato. Il
padre ti ha generato ma non ti ha formato lui stesso come tu sei.
Ignorava quando ti seminò chi e quale figlio gli sarebbe nato. Il
padre ti alimentò ma non diede a te, quando avevi fame, un pane
tratto da se stesso. Infine, qualunque cosa il padre tiene in serbo
per te in terra, deve morire perché tu ne venga in possesso, deve
far posto con la sua morte alla tua vita. Quel padre che è Dio
invece ti tiene in serbo cose che ti dà insieme a se stesso; tu
possiedi l'eredità insieme con tuo padre e scompare l'alternanza
predecessore- successore; non devi aspettare che muoia ma sarai
sempre con lui, che rimarrà per sempre, e tu rimarrai sempre in lui.
Ama dunque tuo padre, ma non più del tuo Dio. Ama tua madre, ma non
più della Chiesa che ti ha generato alla vita eterna. E dallo stesso
amore che unisce figli e genitori giudica quanto tu debba amare Dio e
la Chiesa. Se tanto vanno amati coloro che hanno generato un mortale,
quanto più coloro che hanno generato chi giungerà all'eternità e
in essa rimarrà! Ama la moglie, ama i figli ma secondo Dio, in modo
da aver cura che anch'essi venerino Dio insieme con te. Quando sarai
congiunto a lui non avrai più da temere separazioni. Perciò non
devi amarli più di Dio e li ameresti male se trascurassi di condurli
a Dio insieme con te. Può presentarsi anche l'ora del martirio. Tu
vuoi far professione di fede a Cristo. Per questa professione puoi
subire torture, puoi subire la morte temporale. Si può dare il caso
che padre, moglie, figli insistano per strapparti alla morte, e con
questi tentativi ti procurerebbero la morte. Se non riescono a
procurartela, ecco allora ti verrà in mente questo monito: Chi
ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me, non è
degno di me.
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