Rito
romano
XIX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 11 agosto 2019.
Sap
18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48.
Rito
ambrosiano
XII
Domenica di Pentecoste.
2Re
25,1-17; Sal 77; Rm 2,1-10; Mt 23,37-24,2.
1)
Siate pronti.
La
liturgia della Parola di questa XIX domenica del Tempo Ordinario ci
invita alla vigilanza (cfr il Vangelo) e alla fede (cfr. prima e
seconda lettura). Tre volte è ripetuto l’invito del Redentore:
“Siate pronti”, tenetevi pronti. A che cosa? Allo splendore
dell'incontro con il Signore della vita e non con il Dio minaccioso,
ladro della vita, incontro non con Dio che è la proiezione delle
nostre paure e dei nostri moralismi violenti; ma con un Dio che si fa
servo dei suoi servi, che “li farà mettere a tavola e passerà a
servirli”. Che Dio stupendo è quello che si china davanti
all’uomo, con stima, rispetto, gratitudine. L’uomo si è creato
un Dio Padrone, Cristo ci rivela un Dio Padre, ricco di misericordia
e di amore. Nessuna mente umana poteva e può concepire : il Signore
si mette a fare il servo, si mette a servizio della nostra vita.
Non
è richiesto che i servi restino in attesa, svegli fino all'alba. E’
“un di più” non dettato né da dovere né da paura, si attende
così solo se si ama e si desidera, e non si vede l'ora che giunga il
momento degli abbracci: “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche
il vostro cuore”. Un padrone (quello della parabola) che è un
tesoro, un tesoro di Padre verso cui punta diritta la freccia del
cuore, come fosse l’amato del Cantico: “Dormo, ma il mio cuore
veglia” (5,2).
Accogliendo
l’invito pressante alla vigilanza, proprio del contesto evangelico
riportato dal vangelo di oggi, occorre essere pronti sempre per
l’incontro ultimo e definitivo col Signore: “Beati quei servi che
il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli . . . E se giungendo
nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati
loro!”. La vita è un cammino verso l’eternità; dobbiamo
trafficare intensamente tutti i talenti, senza mai dimenticare che
“non abbiamo qui la città stabile, ma andiamo in cerca di quella
futura” (Eb 13, 14). Ogni attimo diventa prezioso proprio per
questa prospettiva. Bisogna vivere e operare nel tempo portando in
cuore la nostalgia del cielo. Dio ci ha creati per renderci partecipi
della sua eterna e assoluta felicità. Noi non riusciamo a
comprendere in che cosa consista questa gioia suprema e totale; ma
Gesù ce lo fa in certo modo intuire, dicendo che la situazione
allora si capovolgerà, e Dio stesso si metterà a nostro servizio:
“In verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a
tavola e passerà a servirli”. Il pensiero del paradiso deve farci
esultare di letizia dell’amore (Papa Francesco) e deve stimolare
ciascuno all’impegno costante per la propria santità.
2)
Provvidenza: la fedeltà di Dio che ci sostiene sempre.
Il
secondo filo conduttore dell’odierna
Liturgia romana della Parola è la fede, come fiducia nella fedeltà
di Dio.
Nella
prima lettura ci viene detto che: “La notte della liberazione desti
al tuo popolo, Signore,
una colonna di fuoco come guida in un viaggio sconosciuto e come un
sole innocuo per un glorioso emigrare”
(Sap
18,6). Di giorno con una colonna di nube, di notte con una colonna di
fuoco Dio non abbandona mai il suo popolo. La memoria dei benefici di
Dio, della sua azione per liberare e guidare il popolo eletto ci
invita ed educa ad aver fiducia nel Signore che accompagna il suo
popolo dalla schiavitù alla libertà.
Nelle
seconda lettura, l’autore della Lettera agli Ebrei ci mostra che la
fede è dentro una storia di persone che hanno creduto fermamente a
Dio. Abramo ne è un esempio così alto che è chiamato “nostro
Padre nella fede”. Lui ha creduto non perché ha visto Dio, ma
perché L’ha ascoltato e si è messo in cammino verso un futuro
inatteso. Anche noi siamo invitati a vivere
la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino. La storia di salvezza, che in Abramo ha un caposaldo, è come un grande pellegrinaggio che progressivamente si realizza svelando ulteriori promesse, sempre più indirizzate verso la piena comunione con Dio: dalla terra alla discendenza, ad abitare nella casa di Dio.
la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino. La storia di salvezza, che in Abramo ha un caposaldo, è come un grande pellegrinaggio che progressivamente si realizza svelando ulteriori promesse, sempre più indirizzate verso la piena comunione con Dio: dalla terra alla discendenza, ad abitare nella casa di Dio.
Come
Abramo, noi i credenti siamo sempre “in cammino”, perenni
pellegrini verso una patria che non è tanto un luogo, quanto una
condizione: non è tanto un abitare con il Signore, ma un essere in
Lui, come tralci “nella” vite. Parafrasando un po’ la Lettera
a Diogneto
(II, 5,1-16) possiamo dire che noi cristiani abitiamo una patria, ma
vi siamo come pellegrini; ogni terra straniera è patria per noi,
ogni patria è terra straniera. Trascorriamo l’esistenza sulla
terra, ma siamo cittadini del cielo (cfr Ebr
13,14). Questo fatto ci è testimoniato in modo particolare dalle
Vergini consacrate, che vivono nel mondo ma non sono del mondo. Con
la consacrazione hanno donato il cuore allo Sposo, che attendono
intensamente, per accoglierlo devotamente, per amarlo completamente
nella castità, per servirlo costantemente (cfr Rituale
di consacrazione delle Vergini,
n 25). La vita consacrata mostra la verità dell’esperienza di dono
di sé a Dio: nel continuo muoversi, convertirsi al Signore, la
persona trova una strada stabile che la libera.
3)
La vigilanza: la nostra fedeltà a Cristo sempre.
Completiamo
ora le riflessioni proposte nel primo paragrafo (punto 1).
Nel
brano evangelico di oggi (Lc
12,32-48), Gesù, oltre all’invito alla fiducia nella provvidenza,
parla anche dell’importanza della vigilanza nell'attesa del ritorno
del Signore Gesù.
Il
soggetto a cui Gesù si rivolge è il “piccolo gregge”: un gregge
amato da Dio, scelto e destinato al Regno, ma piccolo. Questa
piccolezza può far nascere il dubbio e lo scoraggiamento nel cuore
di molti. Ma è uno scoraggiamento da fugare: la storia di salvezza è
regolata dalla legge del “resto d’Israele”, cioè del piccolo
gruppo di autentici credenti nel quale il Regno si attua a beneficio
di tutti.
Il
piccolo gregge è invitato a non temere. “Non temete”: vigilanza
sì, prontezza e impegno, ma tutto in un clima di grande fiducia. Il
Regno è donato (al Padre è “piaciuto dare a noi il Regno”),
poggia sul suo amore e non sulle nostre prestazioni: dunque nessuna
ansia.
Il piccolo gregge è anche invitato a distribuire i propri beni: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina”. È questa la ricchezza che non viene meno, a differenza di quel possedere sempre di più di cui ha parlato la parabola del ricco stolto. È in questa direzione che bisogna orientare il proprio cuore: “Dove è il vostro tesoro ivi è pure il vostro cuore”.
Il piccolo gregge è anche invitato a distribuire i propri beni: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina”. È questa la ricchezza che non viene meno, a differenza di quel possedere sempre di più di cui ha parlato la parabola del ricco stolto. È in questa direzione che bisogna orientare il proprio cuore: “Dove è il vostro tesoro ivi è pure il vostro cuore”.
4)
Ciechi al male, per vedere il bene.
Il
racconto evangelico prosegue poi con un linguaggio immaginoso (vv.
35-40) il cui significato è però limpido. “Siate
pronti, con i fianchi cinti e le lucerne accese”.
L'immagine delle lucerne fa venire in mente la parabola delle vergini
sagge e stolte. La cintura ai fianchi ricorda l'uso dei lavoratori
che sollevavano e rotolavano ai fianchi le vesti per non essere
impediti nel lavoro, oppure il gesto dei viandanti che sollevavano le
vesti per camminare spediti. Si raccomanda, dunque,
quell'atteggiamento peregrinante e vigile che impedisce di evitare di
essere dei sedentari. Le troppe cose possono ingombrare lo spirito e
renderci sedentari, a scapito della speranza (che non è solo
l'attesa dell’aldilà, ma anche la capacità di trasformare le cose
quaggiù, tenendo presente però di convertire prima se stessi
altrimenti avrebbe ragione Tolstoi : “Tutti
pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare se stesso”).
Dopo
la breve parabola del Padrone che ritorna dalle nozze e quella del
Signore che viene all'improvviso furtivo come un ladro, una terza
parabola: quella l'amministratore fedele (vv. 41-48). Così il tema
della vigilanza è arricchito da un nuovo atteggiamento: la fedeltà
nell'amministrazione dei beni del padrone, il senso di
responsabilità. Quali sono i beni del padrone da amministrare
fedelmente e con responsabilità? Il testo non lo dice espressamente,
ma possiamo pensare all'uso di tutto quei beni (ricchezze, rapporti,
tutto) che Dio ci ha posto fra le mani e che devono essere
amministrati ma non tenuti esclusivamente per sé.
La
fedeltà e il senso di responsabilità sono richiesti in proporzione
della conoscenza che ciascuno ha del padrone: più grande è la
conoscenza, più grande è la responsabilità. È come dire che
fedeltà e responsabilità sono soprattutto richieste ai credenti per
il vero lavorare nella Vigna del Signore: la Chiesa.
L’importante
è crescere nella fede per “vedere”
che Dio è Padre, che è un “padrone” amorosamente onnipotente.
In Gesù, il Padre mette l'onnipotenza a disposizione della sua
carità, facendola benefica e amabile all'occhio di tutti. In Gesù
la fede ci rende “ciechi” al male e veggenti al Bene, alla
Carità, alla Santità, alla Vita eterna e così possiamo condurre
alla Pace, al Padre i fratelli in Cristo.
Non
stanchiamoci di guardare Cristo in Croce. Più fisseremo i nostri
occhi su di Lui, più vedremo la luce attraverso il Suo costato
aperto dall’amore, e più crederemo perché la fede nasce dalla
luce dell’amore.
Facciamoci
poveri di spirito facendo servire i beni alla Giustizia e
servendocene con giustizia, che si consuma nella carità e si
manifesta veramente nella misericordia (Cfr Francesco, Enc. Lumen
Fidei,
nn 6 e 13)
La
fede è la luce dell’amore.
Nella
fede, dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa, riconosciamo
che un grande Amore ci è stato offerto, che una Parola buona ci è
stata rivolta e che, accogliendo questa Parola, che è Gesù Cristo,
Parola incarnata, lo Spirito Santo ci trasforma, illumina il cammino
del futuro, e fa crescere in noi le ali della speranza per
percorrerlo con gioia. Fede, speranza e carità costituiscono, in un
mirabile intreccio, il dinamismo dell’esistenza cristiana verso la
comunione piena con Dio (LF 6)
Credere
significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e
perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente
nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia.
La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre
di nuovo dalla chiamata di Dio.
Lettura
Patristica
Brani
di S. Ireneo di Lione
sulla
Tradizione apostolica,
per
la catechesi sulla fede, la speranza e la carità
“In
realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle
estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro
discepoli la fede..., conserva questa predicazione e questa fede con
cura e, come se abitasse un'unica casa, vi crede in uno stesso
identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e
predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce
unanime, come se avesse una sola bocca” (Sant'Ireneo di Lione,
Adversus
haereses,
1, 10, 1-2 - SC
264, 154-158; PG
7, 550-551).
“Infatti,
se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è
però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né
le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né
quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell'Oriente,
dell'Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo”
(Sant'Ireneo di Lione, Adversus
haereses,
1, 10, 2 - SC
264, 158-160; PG
7, 531-534).
“Il
messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa
addita a tutto il mondo una sola via di salvezza” (Sant'Ireneo di
Lione, Adversus
haereses,
5, 20, 1 - SC
153, 254-256; PG 7, 1177).
“Conserviamo
con cura questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, perché,
sotto l'azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande
valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa
ringiovanire anche il vaso che la contiene” (Sant'Ireneo di Lione,
Adversus
haereses,
3, 24, 1 - SC
211, 472; PG 7, 966).
“Dunque
la tradizione degli apostoli manifestata in tutto quanto il mondo,
possono vederla in ogni Chiesa tutti coloro che vogliono riscontrare
la verità, così possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli
apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi. Ora essi non
hanno insegnato né conosciuto misteri segreti, che avrebbero
insegnato a parte e di nascosto ai perfetti, ma certamente prima di
tutto li avrebbero trasmessi a coloro ai quali affidavano le Chiese
stesse. Volevano infatti che fossero assolutamente perfetti e
irreprensibili (cf. 1 Tm 3,2) in tutto coloro che lasciavano come
successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se
essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande
profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno
grandissimo. Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest'opera enumerare
le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e
antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai
due gloriosi apostoli Pietro e Paolo. Mostrando la tradizione
ricevuta dagli apostoli e la fede (cf. Rm 1,8) annunciata agli uomini
che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi…
Infatti con questa Chiesa, in ragione della sua origine più
eccellente, deve necessariamente essere d'accordo ogni Chiesa, cioè
i fedeli che vengono da ogni parte — essa nella quale per tutti gli
uomini è sempre stata conservata la tradizione che viene dagli
apostoli.
Dunque,
dopo aver fondato ed edificato la Chiesa, i beati apostoli affidarono
a Lino il servizio dell'episcopato; di quel Lino Paolo fa menzione
nelle lettere a Timoteo (cf. 2Tm 4, 21). A lui succede Anacleto. Dopo
di lui, al terzo posto a partire dagli apostoli, riceve in sorte
l'episcopato Clemente, il quale aveva visto gli apostoli stessi e si
era incontrato con loro ed aveva ancora nelle orecchie la
predicazione e davanti agli occhi la loro tradizione. E non era il
solo, perché allora restavano ancora molti che erano stati
ammaestrati dagli apostoli. Dunque, sotto questo Clemente, essendo
sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa
di Roma inviò ai Corinzi un'importantissima lettera per
riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la
tradizione che aveva appena ricevuto dagli apostoli…
A
questo Clemente succede Evaristo e, ad Evaristo, Alessandro; poi,
come sesto a partire dagli apostoli, fu stabilito Sisto; dopo di lui
Telesforo, che dette la sua testimonianza gloriosamente; poi Igino,
quindi Pio e dopo di lui Aniceto. Dopo che ad Aniceto fu succeduto
Sotere, ora, al dodicesimo posto a partire dagli apostoli, tiene la
funzione dell'episcopato Eleutero. Con quest'ordine e queste
successioni è giunta fino a noi la tradizione che nella Chiesa a
partire dagli apostoli è la predicazione della verità.
E
questa è la prova più completa che una e medesima è la fede
vivificante degli apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella
verità” (Sant'Ireneo di Lione, Adversus
haereses
3, 3, 1-3).
“La
gloria di Dio dà la vita; perciò coloro che vedono Dio ricevono la
vita. E per questo colui che é inintelligibile, incomprensibile e
invisibile, si rende visibile, comprensibile e intelligibile dagli
uomini, per dare la vita a coloro che lo comprendono e vedono. E'
impossibile vivere se non si é ricevuta la vita, ma la vita non si
ha che con la partecipazione all'essere divino. Orbene tale
partecipazione consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà. Gli
uomini dunque vedranno Dio per vivere, e verranno resi immortali e
divini in forza della visione di Dio. Questo, come ho detto prima,
era stato rivelato dai profeti in figura, che cioé Dio sarebbe stato
visto dagli uomini che portano il suo Spirito e attendono sempre la
sua venuta. Così Mosè
afferma nel Deuteronomio: Oggi abbiamo visto che Dio può parlare con
l'uomo e l'uomo aver la vita (cfr. Dt 5, 24). Colui che opera tutto
in tutti nella sua grandezza e potenza, é invisibile e
indescrivibile a tutti gli essere da lui creati, non resta però
sconosciuto; tutti infatti, per mezzo del suo Verbo, imparano che il
Padre é unico Dio, che contiene tutte le cose e dà a tutte
l'esistenza, come sta scritto nel vangelo: "Dio nessuno lo ha
mai visto; proprio il Figlio Unigenito, che é nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). Fin dal principio dunque il
Figlio é il rivelatore del Padre, perché fin dal principio é con
il Padre e ha mostrato al genere umano nel tempo più opportuno le
visioni profetiche, la diversità dei carismi, i ministeri e la
glorificazione del Padre secondo un disegno tutto ordine e armonia. E
dove c'é ordine c'é anche armonia, e dove c'é armonia c'é anche
tempo giusto, e dove c'é tempo giusto c'è anche beneficio. Per
questo il Verbo si é fatto dispensatore della grazia del Padre per
l'utilità degli uomini, in favore dei quali ha ordinato tutta
l'economia della salvezza, mostrando Dio agli uomini e presentando
l'uomo a Dio. Ha salvaguardato però l'invisibilità del Padre,
perché l'uomo non disprezzi Dio e abbia sempre qualcosa a cui
tendere. Al tempo stesso ha reso visibile Dio agli uomini con molti
interventi provvidenziali, perché l'uomo non venisse privato
completamente di Dio, e cadesse così nel suo nulla, perché l'uomo
vivente é gloria di Dio e vita dell'uomo é la visione di Dio. Se
infatti la rivelazione di Dio attraverso il creato dà la vita a
tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la
rivelazione del Padre che avviene tramite il Verbo é causa di vita
per coloro che vedono Dio” (Sant'Ireneo di Lione, Adversus
haereses
4, 20, 5-7 - SC
100, 640-642. 644-648).
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