Rito romano
VI Domenica di
Pasqua – Anno C – 26 maggio 2019
At 15, 1-2.22-29;
Sal 144 (145); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
Rito ambrosiano
At 21,40b-22,22;
Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22
1) Una
Presenza da ascoltare e da accogliere: da amare.
All’apostolo
Giuda Taddeo (non l’Iscariota), che
chiedeva di capire meglio come Gesù si sarebbe manifestato ai suoi e
non al mondo (Gv
14,22), Gesù risponde : “Se
uno mi ama,
osserverà
la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv
14, 23) .
Il verbo greco utilizzato in questa frase per dire “amare”
è agapao,
che esprime ‘'amore che rimane fedele, l'amore caratteristico di
Dio. Chi ama Gesù di questo amore fedele si riconosce
perché osserverà la
Parola di Gesù Cristo.
Questo osservare significa
anche custodire, mantenere questa parola. Questo verbo ci suggerisce
lo stile con cui dobbiamo trattare la Parola: non è solo tenerla
sottochiave come un tesoro prezioso, ma guardarla spesso, rimirarla,
soppesarla nel proprio cuore. E' un dono di Colui che amiamo e non
possiamo mai stancarci di guardarla e di ascoltarla, di meditarla, di
soppesarla.
Chi si dedica a
questo amore di Gesù e alla custodia della sua parola, sarà amato
dal Padre. Questo avviene non tanto perché il Padre non ami anche
gli altri, anzi il suo amore in ogni caso è precedente a quello
dell'uomo e non si fa condizionare da esso in nessun senso. Chi ama
il Figlio verrà amato dal Padre nel senso che nell’ascolto della
parola e nel desiderio di essere unito a Dio, si renderà conto di
questo amore che viene riversato su di lui e non potrà che gioirne.
Il suo amore lo rende accogliente. Lui apre il cuore al Padre e al
Figlio che possono prendere dimora presso di lui.
Questo aspetto
della dimora era molto importante per il popolo di Israele. Il
Signore più volte aveva promesso che sarebbe venuto ad abitare in
mezzo a loro (Cfr. Ez
37,26-27; Zc
2,14) e Salomone stesso si stupiva come Dio avesse accettato di
prendere dimora nel Tempio di Gerusalemme (1Re
8,27). Ora, grazie all'incarnazione, il cuore dell'uomo è capace di
accogliere Dio (2Cor
6,16; Ef
3,17).
Inoltre, amare
Gesù significa vivere come lui, nell’amore del Padre e dei
fratelli. Andandosene da noi Gesù non ci lascia orfani: ci manda il
suo Spirito, che ci permette di amare come lui. Se prima era con noi
e presso di noi, d'ora in poi sarà in noi. Chi ama è dimora
dell’amato: lo porta nel cuore, come sua vita. Noi da sempre siamo
in Dio, che ci ama di amore eterno; se lo amiamo, anche lui è in
noi come noi in lui.
2)
Obbedire è ascoltare l’Amato e osservare la sua parola.
Papa Francesco
insegna: “Cosa significa obbedire a Dio? Significa che noi dobbiamo
essere come schiavi, tutti legati? No, perché proprio chi obbedisce
a Dio è libero, non è schiavo! E come si fa questo? Io obbedisco,
non faccio la mia volontà e sono libero? Sembra una contraddizione.
E non è una contraddizione». Infatti «obbedire viene dal latino, e
significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare
Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica.
L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi” (11
aprile 2013).
Nel brano romano
del Vangelo di questa VI Domenica di Pasqua, Gesù collega l'amore
verso di Lui con l'osservanza della sua parola: “Se
uno mi ama, osserverà la mia parola”
(Osservare qui significa sia custodire che mettere in pratica).
Ma
perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene
tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare. Lui è
un Padre che vuole dei figli e non degli schiavi. Questi figli sono
chiamati ad amarlo mediante l’obbedienza, perché l'amore
è realmente un'affermazione dell'altro, di un Altro: è obbedienza,
praticata come
l'affermazione di una presenza quale criterio e comportamento di
vita.
L’obbedienza
a Dio è importante perché, obbedendo a Lui, noi facciamo la Sua
volontà di bontà e perfezione, vogliamo le stesse cose che Lui
vuole, e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di
essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella
luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il
suo punto di quiete. Dante Alighieri ha racchiuso tutto ciò in un
verso tra i più belli di tutta la Divina Commedia: “e
’n la sua volontate è nostra pace”
(Dante Alighieri, Paradiso,
3,85).
Per
capire che la parola di Cristo non è un comando d’imposizione ma
una legge di libertà amorosa, dobbiamo chiedere al Signore di farci
capire che
l'amore non è dare ciò che si ha, ma ciò che si è; allora si
vuole anche ciò che gli altri sono, non le loro cose. Non il dono
delle proprie cose è amore, ma il dono di sé. Non per nulla nella
Sacra Scrittura l'amore è identificato all'obbedienza, perché
l'obbedienza è il dono di sé. Se
mi amate, osservate i miei comandamenti… Chi osserva i miei
comandamenti, quello è colui che mi ama,
dice Gesù nell'Ultima Cena.1
L'obbedienza
cristiana è prima di tutto atteggiamento d’amore. È quel
particolare tipo d'ascolto che c’è tra amici veri, perché
illuminato dalla certezza che l’amico, che dà la vita per l’amico,
ha solo cose buone da dire e da dare all’amico: un ascolto intriso
di quella fiducia che ci fa accoglienti
della volontà di Cristo, sicuro che essa sarà per il bene.
L'obbedienza a
Dio è cammino di crescita e, perciò, di libertà della persona
perché consente di accogliere un progetto o una volontà diversa
dalla propria che non solo non mortifica o diminuisce, ma fonda la
dignità umana.
3)
Obbedire è vivere nella libertà.
Finché non c’è
amore si obbedisce “costretti” da varie regole più o meno rigide
e più o meno numerose. Nell’amore si ascolta la volontà
dell’amato e si è lieti di metterla in pratica. L’obbedienza
cristiana è libera e liberante e
questa obbedienza a Dio coincide anche con “il vero bene
dell’Uomo”, di ogni uomo. Per il cristiano, l'amare Dio implica
ovviamente l'obbedienza alla Sua volontà in vista di un sommo bene:
la pace e l'amicizia con Dio e con gli uomini. (si pensi alla “legge
delle Beatitudini” data da Gesù durante il suo Discorso della
Montagna).
La Madonna è,
dopo Cristo, l’esempio più alto di obbedienza, di amore e di
libertà. La Vergine Maria ha accolto con libertà suprema il Verbo
di Dio. Lei ha “osservato” (=custodito e messo in pratica)
fedelmente il dono dell’Amore di Dio, che grazie al suo sì
obbediente si è fatto carne e ha
posto la sua dimora in noi e tra noi. Lei ha obbedito alla suprema
legge dell’amore. Con il suo libero sì, ha fatto sì che la verità
e l’amore di Dio entrasse nel cuore di lei e di ogni essere umano,
che come lei dice sì al dono di Dio. Allora Dio pone nel cuore umano
la sua fissa dimora.
Non è un Dio
qualsiasi: è il Dio vivo, che è amore, che crea a sua immagine le
libertà, che libera dalla morte con la croce di Pasqua, che apre
all'uomo, nello Spirito Santo, lo spazio infinito della vera libertà.
Credere in
questo Dio non è aderire ad una teoria, non è avere un’opinione
sul divino e sull’umano. Credere è riconoscere una Presenza che ci
ama. In effetti “la fede nasce
dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore dell’uomo. La
fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo
cuore.”(Benedetto XVI).
4) Amore è
felicità.
Un monaco
agostiniano, che è rimasto anonimo, ha lasciato scritto: «L’amicizia
è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la
felicità». Prima bisogna essere
amati, poi si può amare. Prima bisogna essere contenti di essere
amati, poi si comunica questo amore pieno di gioia agli altri,
osservando il comando dell’amore.
L'amore per
Cristo è la risposta libera e totale alla
scelta originaria che Lui ha fatto di noi, una risposta che non può
essere vago sentimento, ma passa attraverso l'ascolto attento della
parola di verità che Cristo ci ha annunciato, parola di vita, parola
che salva, parola accolta, coltivata nel cuore e poi vissuta.
Chi
ama veramente il Signore Lo ascolta, Lo segue, si lascia guidare da
Lui, perché sa che obbedirgli non è cosa gravosa, ma è segno di
amore che dice desiderio, affetto, amicizia, appartenenza. Di più,
nel breve passo del Vangelo romano che oggi ci è proposto, l'amore è
anche il luogo dell'incontro col Padre, il luogo in cui il Padre e il
Figlio Gesù pongono la loro dimora: “Se uno mi ama, osserverà la
mia parola; il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui e faremo
dimora presso di lui”. Il Vangelo di carità chiede di costruire
case di carità, comunità di carità vissuta, che siano segno
tangibile della novità
di Cristo
nella
storia,
lievito umile,
ma fecondo, nella società individualista e conflittuale. Il cuore di
queste comunità sono le Vergini consacrate. Questa donne
testimoniano che l’amore
è il dono di sé, e il dono di sé a un certo momento ha una sua
riprova in questo: tu non puoi possedere più nulla dal momento che
non possiedi te stesso. Lietamente hanno donato tutto all’Amore e
diffondono questo Amore, lietamente.
Inoltre le
Vergini consacrate mostrano con la loro esistenza donata interamente
a Dio, che la profonda verità di questa affermazione di Cristo: “Chi
accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi
ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi
manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
Come diceva
sant’Ambrogio: “Le vergini consacrate sono nel mondo segno di
vera bellezza”. La bellezza della vita consacrata è anche il tema
di fondo dell’esortazione postsinodale Vita
consecrata, sviluppato ampiamente
partendo dall’icona della Trasfigurazione. “Come è bello restare
con te, Signore, dedicarci a te, concentrare in modo esclusivo la
nostra esistenza su di te!”. In effetti, chi ha ricevuto la grazia
di questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come
rapito dal suo fulgore: egli è “il più bello tra i figli
dell’uomo” (Sal 45
[44], 3)» (n. 15).
1
Ecco il contesto :
Il brano di questa domenica è la parte finale del discorso di
addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'Ultima Cena, che
occupa tutto il capitolo 14 del vangelo di Giovanni. L'inizio di
tale discorso è nel capitolo precedente (13,33) di cui abbiamo
ascoltato una parte la scorsa domenica, e un suo ampliamento nei
capitoli 15-17. Gesù saluta i suoi prima della sua passione, ma
indica loro anche ciò che devono fare in attesa del suo ritorno; le
sue parole non sono solo per i dodici ma anche per i discepoli di
tutti i tempi. Anche questa volta il contesto è importante,
suggerisco quindi di collocarlo all'interno del capitolo 14 che ha
questa struttura:
prima parte: La via per giungere al Padre
(14,1-14)
seconda parte: La comunione tra Gesù e la sua comunità
(14,15-26)
terza parte: la partenza di Gesù e il dono della pace
(14,27-31.
Questa
domenica consiglio due testi di San Tommaso, quindi si tratta di due
scritti “quasi” patristici.
Preghiera
per l’obbedienza di San Tommaso d'Aquino
“Rendimi,
Signore mio Dio,
obbediente senza ripugnanza,
povero senza
rammarico, casto senza presunzione,
paziente senza mormorazione,
umile senza finzione,
giocondo senza dissipazione, austero senza
tristezza,
prudente senza fastidio, pronto senza vanità,
timoroso
senza sfiducia, veritiero senza doppiezza,
benefico senza
arroganza,
così che io senza superbia corregga i miei fratelli
e
senza simulazione li edifichi con la parola e con l'esempio.
Donami,
o Signore, un cuore vigile
che nessun pensiero facile allontani da
te,
un cuore nobile che nessun attaccamento ambiguo degradi,
un
cuore retto che nessuna intenzione equivoca possa sviare,
un cuore
fermo che resista ad ogni avversità,
un cuore libero che nessuna
violenza possa soggiogare.
Concedimi, Signore mio
Dio,
un'intelligenza che ti conosca,
una volontà che ti
cerchi,
una sapienza che ti trovi,
una vita che ti piaccia,
una
perseveranza che ti attenda con fiducia,
una fiducia che, alla
fine, ti possegga.”
Lettura
(quasi) Patristica
Dagli Opuscoli
teologici di San Tommaso d’Aquino
La
Legge della divina carità
“E’
evidente che non tutti possono
dedicarsi a fondo alla scienza; e perciò Cristo ha emanato una legge
breve e incisiva che tutti possano conoscere e dalla cui
osservanza. nessuno per ignoranza possa ritenersi scusato. E questa è
la legge della divina carità. Ad essa accenna l’Apostolo con
quelle parole: “Il Signore pronunzierà sulla terra una parola
breve” (Rm
9, 28).
Questa legge deve
costituire la norma di tutti gli atti umani. Come infatti vediamo
nelle cose artificiali che ogni lavoro si dice buono e retto se viene
compiuto secondo le dovute regole, così anche si riconosce come
retta e virtuosa la azione dell’uomo, quando essa è conforme alla
regola della divina carità. Quando invece è in contrasto
con questa norma, non è né buona, né retta, né perfetta.
Questa legge
dell’amore divino produce nell’uomo quattro effetti molto
desiderabili. In primo luogo genera in lui la vita spirituale. E’
noto infatti che per sua natura l’amato è nell’amante. E
perciò chi ama Dio, lo possiede in sé medesimo: “Chi sta
nell’amore sta in Dio e Dio sta in lui” (1 Gv
4, 16). E’ pure la legge dell’amore, che l’amante venga
trasformato nell’amato. Se amiamo il Signore, diventiamo anche
noi divini: “Chi si unisce al Signore, diventa un solo spirito con
lui ” (1 Cor
6, 17). A detta di sant’Agostino, “come l’anima è la vita del
corpo, così Dio è la vita dell’anima ”. L’anima perciò
agisce in maniera virtuosa e perfetta quando opera per mezzo
della carità, mediante la quale Dio dimora in essa. Senza la
carità, in verità l’anima non agisce: “Chi non ama rimane nella
morte” (1 Gv
3, 14). Se perciò qualcuno possedesse tutti i doni dello
Spirito Santo, ma non avesse la carità, non avrebbe in sé la vita.
Si tratti pure del dono delle lingue o del dono della fede o di
qualsiasi altro dono: senza la carità essi non conferiscono la vita.
Come avviene di un cadavere rivestito di oggetti d’oro o di pietre
preziose: resta sempre un corpo senza vita.
Secondo effetto
della carità è promuovere la osservanza dei comandamenti divini:
“L’amore di Dio non è mai ozioso — dice san Gregorio Magno
—quando c’è, produce grandi cose; se si rifiuta di essere
fattivo, non è vero amore”. Vediamo infatti che l’amante
intraprende cose grandi e difficili per 1’amato: “Se uno mi ama
osserva la mia parola”(Gv
14, 25). Chi dunque osserva il comandamento e la legge dell’amore
divino, adempie tutta la legge.
Il terzo effetto
della carità è di costituire un aiuto contro le avversità. Chi
possiede la carità non sarà danneggiato da alcuna avversità: “Ogni
cosa concorre al bene di coloro che amano Dio ”(Rm
8, 28); anzi è dato di esperienza che anche le cose avverse e
difficili appaiono soavi a colui che ama.
Il quarto
effetto della carità è di condurre alla felicità. La felicità
eterna è promessa infatti soltanto a coloro che possiedono la
carità, senza la quale tutte le altre cose sono insufficienti. Ed è
da tenere ben presente che solo secondo il diverso grado di carità
posseduto si misura il diverso grado di felicità, e non secondo
qualche altra virtù. Molti infatti furono più mortificati degli
Apostoli; ma questi sorpassano nella beatitudine tutti gli altri
proprio per il possesso di un più eccellente grado di carità. E
così si vede come la carità ottenga in noi questo quadruplice
risultato.
Ma essa produce
anche altri effetti che non vanno dimenticati: quali, la remissione
dei peccati, l’illuminazione del cuore, la gioia perfetta, la pace,
la libertà dei figli di Dio e l’amicizia con Dio."
Dagli “Opuscoli
teologici ” di san
Tommaso d’Aquino, sacerdote; in
Opuscula theologica, II,
nn. 1137-1154,
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