Domenica
XVIII del Tempo Ordinario – Anno B – 5 agosto 2018
Rito
Romano
Es
16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Rito Ambrosiano
1Re
18,16b-40a; Sal 15; Rm 11,1-15; Mt 21,33-46
XI
Domenica dopo Pentecoste
1)
Il problema è che si cerca il dono di Dio e non Dio come dono.
Il
Vangelo di questa XVIII Domenica del Tempo Ordinario ci racconta di
Gesù che invita la gente a non cercare in Lui solo la persona che
sfama il corpo, ma soprattutto lo spirito e dice di se stesso: “Io
sono il Pane della
Vita; chi viene a me non avrà più fame” (Gv
6, 35)”.
E’ strano questo Pane: a
differenza di ogni altro pane, non è la persona ad assimilarlo a sé,
ma è il Pane stesso che ci assimila alla Sua natura: “Diventiamo
ciò che mangiamo” (Sant’Ambrogio di Milano). Cristo ci fa
diventare come Lui.
Gesù
è il cibo di eternità di cui dobbiamo andare alla ricerca
continuamente e senza il quale la vita non ha senso o comunque perde
di valore e consistenza. Solo nel Pane di Vita abbiamo la vita che
dura per sempre.
Questo
è il Cibo, di cui il mondo ha bisogno davvero. E’ un Cibo che non
perisce e che impedisce di perire. Nel pane umano c’è gioia,
fatica e amore umano, nel pane divino c’è gioia, fatica e amore
divino, che ci fa vivere eucaristicamente. E vivere eucaristicamente
non vuole dire solo “ringraziare”, ma condividere.
Quando
il cuore dell’uomo è alimentato con il Pane del Cielo, questo
cuore fa sì che ci sia pane per tutti.
Dio
nutre noi e attraverso noi nutre il mondo. Nutrendoci con se stesso,
Cristo fa un’azione da Dio. Offre bocconi di vita ai morsi della
nostra fame: quella del corpo e quella del cuore che il pane della
terra non può saziare. Noi, poveri essere umani, cerchiamo un pane
che non faccia morire: il Pane di cielo, il cibo per l'anima. Facendo
la comunione “addentiamo” la Vita, e siamo saziati d’amore.
L’importante
è capire che questo Pane è un dono immenso che ci viene da un Dio
che non chiede, ma dà, che non pretende ma offre, che non esige
niente, ma dona tutto. Non solo dona qualcosa, Lui dona se stesso.
Con
l’Eucaristia, la nostra vita di terra si intreccia con la vita di
cielo, e in noi entra una corrente d’amore che fa fiorire le
radici del cuore.
Dunque
la cosa più urgente da fare per ogni cristiano è quella di fare
frequentemente la Comunione e di “spendere” il tempo quotidiano a
raccogliere i frammenti del Pane
celeste, che stanno anche nella Parola e nei sacramenti, per poterli
-a sua volta- continuamente seminare nei campi del mondo.
Occorre
che la nostra vita diventi Eucaristia, che vuol dire grazie, ma è un
grazie speciale, perché al lavoro dell’uomo unisce la carità di
Dio, il quale rende giusto il cuore riempendolo di misericordia.
Perché
ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare nei cuori la
giustizia misericordiosa, che non cresce senza il nutrimento vitale
del Pane di Vita.
Senza
questo pane l’uomo non vive nella verità e nell’amore e utilizza
tutto il creato per distruggersi. Condividendo il pane eucaristico
possiamo condividere l’altro pane
portando Cristo al povero, che anela non solo al cibo ma all’amore.
2)
L’opera
di Dio è questa: credere in colui che egli ha mandato (Gv
6, 29).
Nel
primo paragrafo ho offerto spunti di riflessione per capire
l’affermazione di Cristo: “Io sono il Pane della Vita”, ma c’è
una altra frase nel vangelo di oggi che è utile capire bene:
“L'opera di Dio è questa: credere in
colui che egli ha mandato (Gv 6, 29).
Tra
i vari dibattiti circa il credere e il praticare, circa la moralità
e la giustizia, il Vangelo di oggi è come se chiedesse: “Le nostre
opere ‘in chi’ sono
fatte?” Nel Vangelo di Giovanni fede e opere quasi coincidono:
l’opera per eccellenza, infatti, è credere. È l’opera “fatta
in Dio”, che apre la porta della vita alla luce. Credere
è confidare in Cristo. credere è rimanere nel Signore. Tutto
nel Vangelo di Giovanni conduce a una relazione di intimità con
Gesù. Vedere è credere, e credere è essere uniti profondamente e
indissolubilmente a Lui. Credere in Cristo
coincide con l’essere in Lui.
A
questo riguardo Sant’Agostino spiega: “Gesù non disse di credere
a lui né credere di lui, ma di credere
in lui… dunque, se vogliamo compiere
l'opera di Dio, poiché l’opera
di Dio consiste effettivamente in
questo: credere in colui
che giustifica l'empio”. Poi sempre Sant’Agostino prosegue: “Il
Signore non ha voluto distinguere la fede dalle opere, ma ha definito
la fede stessa un'opera. E' fede, infatti, quella che opera mediante
l'amore (cf. Gal 5, 6)”. Che la nostra
opera sia credere in Cristo con amorosa fiducia e totale abbandono, e
nutrirci di Lui.
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di
verità, non si può “guadagnare” con il lavoro umano. Lui viene
a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio da
chiedere e accogliere.
Un
esempio di operosa vita eucaristica, cioè di una vita nel
ringraziare Dio e nel condividerne castamente l’amore con il
prossimo, ci viene dalla Vergini consacrate.
La consacrazione
verginale riceve significato dal riferimento a Cristo, vivente e
presente nel sacramento dell’Eucaristia. Come il
Papa emerito Benedetto XVI ha insegnato scrivendo:
“Oltre al legame con
il celibato sacerdotale, il Mistero eucaristico manifesta un
intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è
espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa
accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda.
Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed
alimento per la sua dedizione totale a Cristo” (Sacramentum
caritatis, n. 81).
Ricevendo Cristo come
sua ispirazione e suo cibo, la vergine consacrata si alimenta
quotidianamente con l’Eucaristia. E, rafforzata da questo cibo
spirituale ricambia l’amore sponsale di Cristo con la preghiera a
Dio e con il servizio agli ultimi. A questo riguardo l’Ecclesiae
Sponsae Imago, la recente Istruzione della Congregazione per
gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica,
propone: “Al centro della loro esistenza, mettano l’Eucaristia,
sacramento dell’Alleanza nuziale da cui sgorga la grazia della loro
consacrazione” (n.32)
Queste
donne consacrate testimoniano che nell’Eucaristia avvengono due
fatti miracolosi.
Il
primo è il miracolo del pane e del vino che diventa il corpo e il
sangue di Cristo (transustanziazione). Il secondo è quello che fa di
noi “un sacrificio vivente a Dio gradito”, che ci unisce al
sacrificio di Cristo che è sacrificio di comunione per la salvezza e
la gioia del mondo.
Nel
pane e nel vino consacrati, Cristo non offre solo se stesso, ma anche
noi cambiandoci (misticamente, non realmente) in Lui stesso. Lui dà
anche a noi il valore che ha il suo dono d’amore al Padre. In quel
pane e quel vino ci siamo anche noi; “In ciò che offre, la Chiesa
offre se stessa” (Sant’Agostino d’Ippona).
Certo,
la vergine che più di tutte è donna eucaristica, è la Vergine
Maria. La Santa Vergine non fu presente all’Ultima Cena, ma il
Venerdì santo fu lei che accolse tra le sua braccia e depose il
corpo del Figlio, staccato dalla croce, sulle sue ginocchia. Io penso
che abbia detto fra sé e sé: “Questo è il mio corpo”. E
continuò a credere nel Figlio di Dio. La sua fede diede carne al
Verbo di Dio il giorno dell’annunciazione a Nazareth, questa fede
accresciuta accettò noi come figli. Questa fede del Venerdì santo
con le parole “questo è il mio corpo” la unì ancor più
profondamente al sacrificio del Figlio e con lui divenne offerta
gradita a Dio per la salvezza del mondo. Le vergini consacrate
prendano esempio dalla Madre di Dio e noi da questa Vergini, e la
nostra eucaristia sarà celebrata e vissuta con verità e santità
Chi
crede in Cristo compie l’opera di Dio. La Madonna l’ha fatto:
dicendo sempre sì con fede piena compì l’opera di Dio e diede la
carne che divenne il Pane della Vita. Le Vergini consacrate, e noi
con loro, imitiamola, “praticando la giustizia, amando la pietà,
camminando umilmente con il nostro Dio” (cfr. Mic 6, 8).
Lettura
Patristica
Baldovino di Ford (ca. 1120-1190),
Baldovino di Ford (ca. 1120-1190),
De
sacram. altar., 2, 3
"Io sono il pane
della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non
avrà più sete" (Jn 6,35).
"Chi viene a me" ha lo stesso significato di "chi crede in me". "Non avrà più fame" vuol dire la stessa cosa di "non avrà più sete". In un caso e nell’altro è significata la sazietà eterna quando più nulla manca.
Precisa, peraltro, la Sapienza: "Coloro che mi mangiano, avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete" (Si 24,29). Cristo, Sapienza di Dio (1Co 1,24), non è mangiato fin d’ora fino a saziare il nostro desiderio, ma solo nella misura in cui eccita il nostro desiderio di sazietà; e più gustiamo la sua dolcezza più il nostro desiderio si ravviva. Ecco perché coloro che lo mangiano avranno ancora fame fino a che non sopraggiunge la sazietà. Ma, quando il loro desiderio sarà stato soddisfatto dai beni celesti, essi non avranno più né fame né sete (Ap 7,16).
La frase: "Coloro che mi mangiano avranno ancora fame", può anche intendersi in rapporto al mondo futuro: infatti vi è in questa sazietà eterna una sorta di fame, che non deriva dal bisogno bensì dalla felicità. I commensali desiderano mangiarvi in continuazione: mai soffrono la fame, e nondimeno mai cessano dal venir saziati. Sazietà senza ingordigia, desiderio senza gemito. Cristo, sempre ammirabile nella sua bellezza, è del pari sempre desiderabile, "lui che gli angeli desiderano ammirare" (1P 1,12).
Così, proprio quando lo si possiede lo si desidera; proprio quando lo si afferra lo si cerca, secondo quanto è scritto: "Cercate sempre il suo volto" (Ps 104,4).
Sì, lo si cerca sempre, colui che si ama per sempre possederlo. Per cui, coloro che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete.
Tale ricerca, però, rimuove ogni preoccupazione, tale fame scaccia ogni fame, tale sete estingue ogni sete. È fame non dell’indigenza, bensì della felicità consumata. Della fame dell’indigente, è detto: "Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete". Della fame del beato, invece: "Coloro che mi mangiano avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete".
Il termine fame può intendersi come equivalente di sete, sia che si tratti della miseria, sia che si tratti della felicità; però, se si preferisce sottolineare una differenza, il Salmista ne fornisce l’occasione, allorché dice: "Il pane sostiene il cuore dell’uomo", e: "Il vino allieta il cuore dell’uomo" (Ps 103,15).
Per coloro che credono in lui, Cristo è cibo e bevanda, pane e vino. Pane che fortifica e rinvigorisce, del quale Pietro dice: "Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, ci ristabilirà lui stesso dopo breve sofferenza, ci rafforzerà e ci renderà saldi" (1P 5,10). Bevanda e vino che allieta; è ad esso che si richiama il Profeta in questi termini: "Allieta l’anima del tuo servo; verso di te, infatti, o Signore, ho innalzato la mia anima" (Ps 85,4).
Tutto ciò che in noi è forte, robusto e solido, gioioso e allegro, per adempiere i comandamenti di Dio, sopportare la sofferenza, eseguire l’obbedienza, difendere la giustizia, tutto questo è forza di quel pane o gioia di quel vino. Beati coloro che agiscono fortemente e gioiosamente!
E siccome nessuno può farlo di suo, beati coloro che desiderano avidamente di praticare ciò che è giusto e onesto, ed essere in ogni cosa fortificati e allietati da Colui che ha detto: "Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia" (Mt 5,6). Se Cristo è il pane e la bevanda che assicurano fin da ora la forza e la gioia dei giusti, quanto di più egli lo sarà in cielo, quando si donerà ai giusti senza misura!
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