Rito Romano – II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia – Anno B – 8 aprile 2018
At 4,32-35; Sal 117;1Gv
5,1-6; Gv 20,19-31
Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col
2,8-15; Gv 20,19-31
II Domenica di Pasqua e
della divina Misericordia
- Pace e perdono.
La
liturgia di questa II Domenica di Pasqua celebra Cristo risorto, che
dona pace e perdono. In effetti, il Vangelo di oggi ci racconta che,
la sera della sua Pasqua, Gesù entra nel Cenacolo, dove si erano
rinchiusi gli Apostoli, e dice loro: “Pace a voi”. Con l’offerta
del
dono della sua pace Cristo ricolma il cuore degli apostoli con la sua
misericordia. Il
saluto tradizionale ebraico shalom,
cioè pace, sulla bocca del Risorto non è solo un augurio ma un
dono: il dono di quella pace che solamente Lui può dare e che è il
frutto della sua vittoria radicale sul male. La “pace”, che Gesù
offre ai suoi amici, è il frutto dell’amore misericordioso di Dio
per gli uomini. Questo amore smisurato ha portato Cristo a morire
sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e
umile, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Questo
spiega perché San Giovanni
Paolo II ha
voluto intitolare alla Divina Misericordia questa Domenica dopo la
Pasqua, che celebra Cristo quale Agnello, che è stato immolato per i
nostri peccati e che è risorto sconfiggendo la morte e il peccato.
L’amore di Dio è più forte del male e della morte e in Cristo
risorto ha vinto l’amore, ha vinto la misericordia.
In
questa Festa della Divina Misericordia, lasciamo riempire il nostro
cuore dalla misericordia di Dio, che gratuitamente ama, perdona e dà
pace.
In
effetti, questa pace è il frutto della vittoria dell’amore di Dio
sul male, è il frutto del perdono. La vera pace, quella profonda,
viene dal fare esperienza della misericordia di Dio.
Oggi
a noi, come circa duemila anni fa agli Apostoli, insieme con la sua
pace, Gesù dona lo Spirito Santo, perché possiamo diffondere nel
mondo la sua misericordia, che perdona e dona la vita nuova e vera.
Oggi,
è a noi che Cristo dà il mandato di portare agli uomini la
remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore,
seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni
in famiglia e nella società.
2)
Missionari senza paura
Oggi,
lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal nostro cuore. Gesù
ci spinge ad uscire dal “Cenacolo” che la paura ha trasformato in
un luogo chiuso. Il suo Spirito ci spinge ad essere una “Chiesa in
uscita” (Papa Francesco): “Come il Padre ha mandato me, io mando
voi” (Gv 20, 21). Durante l’ultima cena il cenacolo
fu il luogo dove Gesù aveva dato il pane, ma dopo la passione e
morte del Messia quella sala era diventata per gli Apostoli come un
sepolcro. Vi vivevano di paura, di paura della morte.
Ma la paura degli
Apostoli e di tutti noi non ferma Cristo. Come la grande pietra che
sigillava il suo sepolcro non gli fu di ostacolo, così neanche la
nostra paura gli fa ostacolo. Entra in questo sepolcro, pieno di
paura, a porte sprangate. Non gli fanno difficoltà le porte
sprangate come non gli ha fatto difficoltà la pietra del sepolcro. E
soprattutto non gli ha fatto difficoltà di venire con queste persone
che Lui ha scelto, delle quali uno lo ha tradito, l’altro l’ha
rinnegato, gli altri sono fuggiti, l’hanno abbandonato. E come
entrò nel luogo dove i suoi Apostoli si erano rifugiati, così oggi
viene incontro a noi, scacciando le nostre paure. E’ lì che ci fa
risorgere.
Quindi, dopo l’incontro
di Cristo con Maria Maddalena nell’amore e nel desiderio, questo
incontro nel cenacolo è importante, perché ci fa capire che Cristo
risorto ci incontra là, dove noi siamo morti nelle nostre paure,
nelle nostre fragilità, nei nostri peccati, nel nostro egoismo, per
farci risorgere attraverso la gioia e la pace.
Oggi,
il Risorto è a noi che dice :
“Pace a voi” (Gv
20, 19.21.26). È evidente che non è solo un saluto. È un
dono, il dono
che il Risorto fa a noi, suoi amici. E’ un dono da condividere.
Perciò questa pace, acquistata da Cristo col suo sangue, è anche un
compito. Essa non è solamente per noi, è per tutti, e noi, i
discepoli di oggi, dobbiamo portarla in tutto il mondo.
In
questo modo partecipiamo alla pacifica battaglia iniziata dalla
Pasqua di Cristo, aiutandolo ad affermare la sua vittoria con le sue
stesse armi: quelle della giustizia e della verità, della
misericordia, del perdono e dell’amore. Queste armi non uccidono,
ma danno la vita e la pace.
- Testimoni della gioia.
Nel
Vangelo di oggi, Gesù dice più volte: “Pace a voi” e i
discepoli “gioirono”. E la gioia e la pace sono il
segno della presenza di Cristo risorto.
Ma perché
l’esperienza di Gesù risorto che sta in mezzo a noi,
e ci mostra le sue mani e il suo fianco, è una esperienza di pace e
di gioia? Perché conosciamo chi siamo noi per Cristo e chi è Cristo
per noi. Lui
è colui che per noi porta quelle mani inchiodate e
quel fianco trafitto. Lui è amore infinito che si dona. E noi, chi
siamo noi per Lui? Siamo un amore finito, limitato che si dilata nel
suo Amore.
Il
fianco trafitto mostra il cuore che ama infinitamente, totalmente. Le
mani inchiodate mostrano che il potere di Dio è quello di lavare i
piedi e di essere inchiodato a servizio d’amore dell’uomo. Ed è
lì che conosciamo il Signore. In queste mani vediamo tutta la vita
di Gesù, tutto ciò che Lui ha fatto a servizio dell’amore, con un
Amore così estremo da morirne per dare la vita.
Tutti
siamo chiamati a rispondere a questo Amore risorto. Come?
Testimoniando Cristo con la gioia.
Prendiamo
esempio dalla Vergini consacrate, alle quali –nel giorno della
consacrazione – è detto: “Cristo, Figlio della
Vergine e sposo delle vergini, sarà la vostra gioia e corona sulla
terra, finché vi condurrà alle nozze eterne nel suo regno, dove
cantando il canto nuovo seguirete l’Agnello dovunque vada” (RCV,
progetto di omelia n. 38).
Per rispondere
all’Amore di Cristo, queste donne si offrono a Lui totalmente e
gioiosamente. La gioia, in effetti, non consiste nell’avere tante
cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono a Dio e al
prossimo, e nel volersi bene in Dio. La gioia viene dall’esperienza
di essere amati e di farsi missionari di questo Amore in modo totale.
La totalità è
esigenza profonda della verginità consacrate, che non ammette la
mediocrità. La consacrazione è per sua stessa natura un atto
generoso e totale di amore che porta la consacrata in alto, sulla
croce, quindi è elevata in alto e nel profondo del cuore di Cristo.
Grazie alla
consacrazione la vergine si impegna in quattro “doveri”: quello
di lodare Dio con più dolcezza, quello di sperare in Dio con più
gioia, quello di amare Dio con più ardore, quello di essere
missionaria della misericordia, divenendo testimone perseverante
della gioia di essere amata e di amare in modo puro e gratuito. Come
già insegnava Sant’Agostino nel De sacra virginitate, dove
possiamo leggere: “Continuate (nella vostra scelta), o santi di
Dio, giovani e ragazze, uomini e donne, voi che vivete nel celibato e
voi che non vi siete sposate. Perseverate fino alla fine. Lodate il
Signore tanto più soavemente quanto maggiormente egli occupa i
vostri pensieri; sperate tanta maggiore felicità quanto più
fedelmente lo seguite; amatelo tanto più ardentemente quanto più
siete attente ad accontentarlo. Lodate il Signore con maggiore
dolcezza, perché a Lui pensate con maggiore pienezza; sperate nel
Signore con maggiore gioia perché Lui servite con maggiore
attenzione; amate il Signore con maggiore ardore, perché a lui vi
studiate di piacere con maggiore dedizione”.
Lettura Patristica
San
Gregorio Magno (540circa
– 604)
Hom. 26, 7-9
San Tommaso
Apostolo, modello di fede per noi
"Ma Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24). Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano, ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del Signore) era stato custode della perfettissima verginità.
[Tommaso] toccò, ed esclamò: "Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso, hai creduto" (Jn 20,28-29). Quando l’apostolo Paolo dice: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (Eb 11,1), parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò, perché gli viene detto: "Perché mi hai veduto, hai creduto?" Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era Dio, dicendo: "Mio Signore e mio Dio"! Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo, ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.
Riempie di gioia ciò che segue: "Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto" (Gv 20,29). Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede. Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo afferma: "Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti" (Tt 1,16). E Jc aggiunge: "La fede senza le opere è morta" (Gc 2,26).
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