venerdì 13 aprile 2018

Testimoni di un fatto, di cui fare memoria


Rito Romano – III Domenica di Pasqua– Anno B – 15 aprile 2018

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48



Rito Ambrosiano
At 16,22-34; Sal 97; Col 1,24-29; Gv 1,1-11a
III Domenica di Pasqua

1) Nel grande mare della vita solita c’è una continua novità.

Pasqua è passata da quindici giorni, il lavoro e la scuola sono ricominciati a pieno ritmo e la vita quotidiana ha ripreso a scorrere come al solito. La routine della vita di ogni giorno spinge a ridurre ad un vago ricordo l’annuncio che il Signore è risorto. La notizia inaudita che Cristo risorto ha definitivamente sconfitto la morte rischia di essere ridotta ad una informazione su un fatto importante ma lontano nel tempo. Ciò accade perché ci dimentichiamo che si tratta di una notizia che non solo ci informa che la nostra vita non finisce quaggiù, ma ci forma come persone che già su questa terra partecipiamo alla risurrezione di Cristo.
Come possiamo vivere fortemente la memoria di Cristo, senza lasciarci sballottare dalle ondate della vita.
Come possiamo essere memori del Risorto nella vita quotidiana?
Vivendo la memoria del Signore nel lavoro e non nonostante il lavoro, in famiglia e non nonostante la famiglia, nella Chiesa e non nonostante la Chiesa, che con i suoi riti fissa ciò che è vero.
E’ proprio la Chiesa con la sua liturgia che ci aiuta a fare memoria di Cristo. Riandiamo, per esempio alla Settimana Santa. Durante questa grande e santa settimana, la Chiesa ha ridestato in noi la viva memoria delle sofferenze che il Signore ha patito per noi e a prepararci a celebrare con gioia “la vera Pasqua, che il Sangue di Cristo ha coperto di gloria, la Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste” (Prefazio ambrosiano di Pasqua).
Il Giovedì Santo, la Chiesa ha fatto memoria dell’Ultima Cena durante la quale il Signore, la vigilia della sua passione e morte, ha istituito il sacramento dell’Eucaristia, in cui Cristo si dà a tutti noi come cibo di salvezza e come farmaco di immortalità.
Il Venerdì Santo è la giornata in cui la Chiesa fa memoria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la Liturgia ci riunisce per farci meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, e per farci ripercorrere le sofferenze del Signore che espiano questo male. 
La memoria ha bisogno di silenzio, per cui il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. C’è bisogno di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. 
Questo Sabato di silenzio e di memoria addolorata sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia del mondo: la domenica della Pasqua di Cristo.

Fare memoria dei misteri di Cristo morto e risorto significa vivere in profonda e solidale adesione all'oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva.

Fare memoria di Cristo non vuol dire ricordarlo semplicemente come una persona del passato che ci ha lasciato un profondo insegnamento, ma vuol dire renderlo presente lasciandoci attirare dalla presenza amorosa di Lui, vivo per sempre.

Fare memoria vuol dire fare comunione con Cristo. La comunione con Gesù non è un mistero che si celebra semplicemente nella liturgia, con gesti e parole. Il comandamento: “fate questo in memoria di me” ha un duplice spessore: fare memoria nel sacramento e fare memoria nella vita, rendere presente Gesù nel sacramento e renderlo presente nella carità.

2) Memoria e presenza.

In questa terza Domenica di Pasqua, la liturgia ci aiuta a fare memoria rimettendo davanti agli occhi del cuore la presenza di Cristo. Lo fa proponendo come lettura del Vangelo il racconto che San Luca fa del terzo incontro del Risorto con i suoi Apostoli, che sono nel Cenacolo.
In questa domenica la Chiesa vuole invece farci comprendere come dopo la sua risurrezione il Cristo sia veramente vivo in mezzo a noi, nelle nostre giornate nella nostra vita quotidiana. La fede in Cristo è proprio questa: credere che Cristo sia veramente risorto e viva ogni giorno con noi quale amico fedele per sempre.
Allora, ricordare o fare memoria non vuol dire far tornare alla mente il ricordo di una persona amata, ma ridare agli occhi del cuore (ri-cor- dare) la presenza vera dell’Amato.
L’evangelista Luca ci propone quasi un itinerario delle apparizioni del Cristo per farci comprendere meglio che il Cristo Crocifisso è veramente il Risorto.
Dopo averci offerto nelle domeniche precedenti come prove della risurrezione di Gesù: il sepolcro vuoto, la testimonianza degli angeli, l’apparizione ai discepoli sulla strada di Emmaus, oggi San Luca racconta di Gesù che offre prove ancora più tangibili: appare agli Apostoli riuniti, mostra le sue ferite, si mette a tavola con loro. Gesù ha un vero corpo. Il Risorto non è un fantasma, ma un essere reale che si fa presenza in mezzo ai suoi, ai quali chiede di fare memoria di lui e di testimoniarlo.
 Questa presenza rimane a nostra disposizione in modo sublime nel pane eucaristico, che viene custodito in ogni chiesa del mondo. Andiamo a metterci davanti al tabernacolo per adorare e visitare il Risorto. L’adorazione eucaristica e la visita al santissimo Sacramento vanno fatte perché, proprio perché hanno in se stesse un ineliminabile orientamento a Cristo presente sotto le specie del pane.
In greco “adorazione” si dice proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni.
In latino “adorazione” è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e, quindi, amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così la sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere, ci fa convertire stabilmente verso Cristo ed avere con Lui e con i nostri fratelli e sorelle un rapporto di amicizia, di condivisione, di amore, di confidenza: di comunione.
L’unione con Cristo attraverso l’Eucarestia, mangiata e adorata, ci consente di dare come cristiani una vera testimonianza di vita vissuta con Lui.
Un esempio di come vivere questa memoria e questa presenza di Cristo ci viene dalla Vergini consacrate. La loro vocazione non si identifica in un compito specifico o in una funzione particolare, ma nel “far memoria”, nel testimoniare che l’essenziale nella Chiesa è l’amore del Cristo per ciascuno e per tutti, un amore fedele e personale, che la Scrittura e la tradizione della Chiesa hanno tradotto con l’immagine dello “Sposo”.
Inoltre è utile ricordare che “ Il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo» (Benedetto XVI, in Sacramentum caritatis, n. 81). “Nell’Eucaristia Cristo attua sempre nuovamente il dono di sé che ha fatto sulla Croce. Tutta la sua vita è un atto di totale condivisione di sé per amore” (Papa Francesco).
La vergine consacrata è appassionata nel suo amore per l’Eucaristia, ricevendo Cristo come sua ispirazione e suo cibo. Donna, sempre pronta a ricevere l’amore intimo del Signore e a ricambiarlo con la preghiera e il servizio, rafforzata da questo cibo, osa presentarsi pubblicamente come vergine nel mezzo di una società ostile, riconoscendo umilmente che non è solo una donna consacrata ma una vergine consacrata.


Lettura patristica
Guerric d’Igny (1070/1080 - 1157)
Sermo I, in Pascha, 4-5


 Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26; Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.
       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...
       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».

       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (
Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».


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