Ascensione
– Anno A – 28 maggio 2017
Rito
Romano
At
1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
Rito
Ambrosiano
AT 1,6-13a; Sal 46; Ef 4,7-13; Lc 24,36b-53
1)
Una festa non facile.
Quaranta
giorni fa, abbiamo celebrato il fatto della Pasqua: la risurrezione
di Cristo è stata per noi motivo di grande gioia. Oggi la liturgia
ci propone come causa di gioia la Sua ascensione al cielo: “Oggi,
infatti, ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera
natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre” (San
Leone Magno, Disc. 2
sull'Ascensione, 1, 4;
PL 54, 397-399).
La
festa dell’Ascensione non è riducibile ad una strana festa in cui
ci è chiesto di essere contenti perché Cristo si allontana da noi
andandosene in cielo. Qual è dunque il significato della “ascesa”
al cielo di Cristo risorto? “Significa credere che in Cristo
l’uomo, l’essere uomo al quale noi tutti abbiamo parte, è
entrato, in modo inaudito e nuovo, nell’intimità di Dio. Significa
che l’uomo trova per sempre spazio in Dio. Il cielo non è un luogo
sopra le stelle, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è
il trovar posto dell’uomo in Dio e questo ha il suo fondamento
nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù
crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo
stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è,
quindi, ciò che noi chiamiamo ‘cielo’, poiché il cielo non è
uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo
sono per sempre inseparabilmente uniti” (Aposepalo Ratzinger,
Predicazione e Dogma,
Brescia 1983).
In
effetti, la frase finale del vangelo di oggi: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo” (Mt,
28, 20), non contiene parole di qualcuno che lascia i suoi soli sulla
terra. Queste ultime parole di Gesù non sono un addio, ma spiegano
che Lui è il Signore vivo di una vita senza limite e che, con la sua
parola e il suo Amore consolatore, ogni giorno è presente alla sua
Chiesa, suo mistico Corpo, fino al compimento del tempo.
Gesù,
il Figlio di Dio entrato nella storia per essere il “Dio con noi”,
realizza in pieno la sua missione nel dono totale di sé. Morendo e
risorgendo, Lui ha manifestato che l’Amore si rivela infinito
quando si annienta, quando completamente dona la vita. L’Ascensione
è il compimento del mistero dell'Amore di Dio: morendo Gesù annulla
ogni limite per essere il “Dio con noi”. Lui è con noi per
essere l’Amore che redime il nostro amore e rende il nostro cuore
capace di essere dimora dell’Amore.
Dunque,
se da una parte l’Ascensione non è una festa facile da capire,
perché fa sorgere spontaneamente la domanda: “Perché essere in
festa se l’Amato se ne va via?”. D’altra parte, l’Ascensione
è una festa chiara, perché questa festa “non è un percorso
cosmico geografico ma è la navigazione spaziale del cuore che ci
conduce dalla chiusura in noi stessi all’amore che abbraccia
l’universo” (Benedetto XVI). L’Ascensione è la festa del
nostro destino che ha come destinazione il cielo amoroso di Dio, che
eleva la terra della nostra umanità.
E’
una festa che ci mostra che il cielo e la terra, il possesso e il
sacrifico, la pace e la fatica non sono in contrasto. Non basta che
la nostra esistenza sia interamente e sinceramente rivolta al cielo,
poi alla terra e poi di nuovo al cielo. La nostra condotta in cielo
deve completarsi a poco a poco, in mondo tale che la nostra condotta
sulla terra riveli quella del cielo. La nostra condotta sulla terra
deve a poco a poco elevarsi a preghiera di desiderio e questa
preghiera di desiderio si chiarisce nell’adorazione. Non basta che
la nostra vita sia interamente e sinceramente pace, poi fatica e poi
di nuovo pace: la nostra pace deve essere come la forza raccolta per
la fatica e la nostra fatica come uno spirare di pace.
2)
Ascensione e missione.
Questo
destino di pace perfetta nell’amore si intreccia con la nostra
missione: “Andate dunque
e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e
del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto
ciò che vi ho comandato” (Mt
28, 19-20).
L’Ascensione
di Cristo, che San Matteo ci racconta alla fine del suo vangelo, è
un grande inizio. I discepoli videro Gesù come Lui è, come nella
trasfigurazione. E Lo adorano, prostrandosi in segno di consegna e di
abbandono totale. Su questo rapporto di amore accolgono il “comando”
di andare per tutto il mondo poggiano le prospettive universali,
insegnando e battezzando. Battezzare non vuol dire versare un po’
di acqua sul capo di una persona, ma immergerla in Dio, dentro il Dio
della Vita e, poi, insegnare a osservare ciò che Lui comanda. Ma che
cosa comanda Cristo? L’amore. Il suo comando è di immergere la
persona umana e insegnarle ad amare, lasciandosi amare e donando
amore.
Per
compiere missione di carità secondo il cuore di Cristo il quale
anche a noi chiede:
“Andate”,
cioè superate ogni barriera culturale e religiosa;
“Fate
discepoli tutti i popoli”, cioè formiamo un “nuovo popolo di
popoli”;
“Battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè
portiamo al mondo intero la la rivelazione di questo nome divino di
Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo;
“Insegnando
loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” e, quindi,
annunciando agli uomini tutta la rivelazione di Dio, che porta con sé
anche la stessa rivelazione dell’uomo. Si può intuire ciò che
l’uomo è per davvero solo alla luce questa rivelazione di Dio:
solo nel mistero del Verbo incarnatosi “illumina veramente” il
mistero dell’uomo (Gaudium et spes, 22)
Queste
indicazioni sarebbero impraticabili senza Cristo che anche a noi
dice: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo”. Lui è presente accanto a noi e in noi, sempre. Noi,
cristiani, non confidiamo in noi stessi, nelle nostre
capacità, ma nella presenza del Signore.
Con
Cristo, in Cristo e per Cristo noi diventiamo testimoni affidabili in
tutto il mondo. Non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o
uomini ai quali non si possa e non debba testimoniare Cristo. Lui è
il Signore di tutto e di tutti, e perciò deve essere annunciato a
tutti e dappertutto.
Dire
che Gesù è il «Signore di tutto» significa affermare, in altre
parole, che Egli dà senso a tutte le cose. «Andate e fate
discepoli»: la missione suppone un incarico. Non si annuncia Gesù a
nome proprio, tanto meno si annunciano pensieri propri, ma soltanto
“tutto ciò che Egli ha comandato”. Il discepolo deve annunciare
nella più assoluta fedeltà e il suo annuncio deve nascere da un
ascolto.
La
missione esige una partenza: “andate”. Il discepolo non aspetta
che la gente del mondo si avvicini: è lui che va incontro a loro
alla gente. “Fate discepole tutte le genti”: l’espressione è
carica di tutto il significato che “discepolo” ha nel Vangelo.
Non si tratta semplicemente di offrire un messaggio, ma di instaurare
una relazione di comunione. Il discepolo si lega alla persona del
Maestro e si impegna a condividere il suo progetto di vita. “Sarò
con voi fino alla fine del tempo”: è questa la grande promessa,
che dà al discepolo la forza di svolgere la sua missione, andando in
ogni luogo del mondo e predicando il Vangelo.
In
effetti, Cristo non dice: “Predicate la morale della saggezza
greca”. Non dice, per esempio, di spiegare l’Etica di Aristotele,
non solo perché gli Apostoli erano poco istruiti, ma perché ogni
sapienza diventa poca cosa quando una persona si mette alla scuola di
Cristo, che guida con amore le sue pecorelle che docili lo seguono
verso i pascoli eterni della verità e della gioia. Quello che Cristo
esige dagli uomini per poterli fare entrare nel Regno di Dio non è
un certificato di studi, né un attestato di carriera ben fatta. Lui
chiede un atto molto più semplice e radicale: la conversione del
cuore e la rinascita nella fede e nel battesimo.
“Chi
crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi non crederà, sarà
condannato”. Prima di tutto “credere”, perché il credere è
l’atto fondamentale della vita cristiana. Con il credere, con
l’atto di fede, la persona umana scegli con piena libertà il Regno
di Dio che le è offerto dal magistero della Chiesa. Con l’atto di
fede quindi il cristiano accetta tutte le verità da credere: tutto
quanto Cristo ci ha insegnato su Dio e sull’uomo, sul peccato e
sulle cose ultime, che sono la morte, il giudizio e il Paradiso.
Credere
allora è vedere la propria vita unicamente nella luce di queste
verità accettando il giogo “soave e leggero” della legge
dell’amore verso Dio e verso il prossimo,
Infine,
credere è vivere con la mente e con il cuore, con il pensiero e con
l’azione nella realtà della vita divina.
In
ciò ci sono di esempio le vergini consacrate che con la loro vita
totalmente donata a Cristo “predicano” la verità amorosa e il
vero amore redentivo di Dio. Queste donne testimoniano che la vita
cristiana è legata all’Ascensione, perché la nostra vita si
realizza andando verso il cielo e dipende dalla fedeltà alle
promesse fatte nel Battesimo e rinnovate nella consacrazione.
Pur
nella fragilità umana e certe che Dio è forte nei deboli, le
vergini consacrate accompagno il Gesù-Sposo nella sua ascensione,
gioiscono della sua glorificazione vivono anticipatamente la
dimensione del Paradiso e ci ricordano che la festa dell’Ascensione
del Signore è la festa liturgica del Paradiso, che si apre
all’umanità con l’ingresso solenne di Cristo in cielo, alla
destra del Padre. Nel suo addio, Gesù lasciò agli apostoli (e a
noi) la sua verità e la sua potenza, perché la sua ascensione non
fu una partenza ma una intensificazione della sua presenza fino ai
limiti estremi dello spazio e dl tempo: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
(Mt 28, 20).
Lettura
patristica
Sant’Agostino
d’Ippona
Discorso sull'Ascensione del Signore, ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)
Discorso sull'Ascensione del Signore, ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)
Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo.Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l'apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»(Mt 25, 35).
Perché
allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da
riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro
Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo,
infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi,
similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può
assumere questo comportamento in forza della sua divinità e
onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri
divini, ma per l'amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il
cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi,
quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà
testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è
mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il
Figlio dell'uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa
affermazione fu pronunciata per sottolineare l'unità tra lui nostro
capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se
non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il
Figlio dell'uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così
si esprime l'Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il
corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur
essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor
12,12). L'Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così
anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò
egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se
non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così
non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non
perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché
l'unità del corpo non sia separata dal capo.
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