VI
Domenica di Pasqua – Anno A – 21 maggio 2017
Rito
Romano
At
8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21
Rito
Ambrosiano
At
4,8-14; Sal 117; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29
1)
Non siamo orfani.
In questa domenica si continua la lettura del capitolo 14 del Vangelo
di Giovanni, la cui prima parte è stata letta domenica scorsa. Il
tema è l’amore, come appare dall’inizio (“se mi amate...”
(Gv 14,15) e dalla conclusione (“chi mi ama sarà amato dal
Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv
14,21) del Vangelo di oggi. I discepoli, terrorizzati
dalla possibilità reale che il Maestro muoia, sono rincuorati da
Gesù che apre a loro il Suo cuore, chiamandoli “amici” e non
“servi”, donando loro in eredità l’Eucaristia e aprendo
loro una via nuova: quella dell’amore donato al mondo attraverso la
Croce. La Sua Croce è rivelazione
concreta di Dio che ama sino al dono totale di sé, segno della sua
presenza senza limite nel mondo. Sulla Croce Cristo non fallisce ma
porta a pienezza la manifestazione del Suo immenso amore:
“Nessuno ha un amore più grande di questo, morire per i propri
amici. Voi siete miei amici se fate quello che io comando” (Gv
15, 13-15).
Ai
Suoi discepoli Gesù insegna che il suo Amore donato è la forza che
permette di non rinchiudersi in un passato finito, ma di aprirsi ad
un avvenire percepito come lo spazio della loro fedeltà a Lui in una
comunità e nel mondo. Solamente il discepolo che accetta la realtà
della morte di Gesù, può aprirsi ad una nuova relazione con il
Crocifisso-Risorto: la vera “sequela” comincia con la Pasqua,
evento che restituisce Gesù al credente in modo nuovo.
La Croce non è la fine, ma l’inizio di un nuovo cammino, di una
relazione, diventata indistruttibile, con Gesù Cristo: con la sua
morte e risurrezione, Lui apre la “Via” che conduce alla “Verità”
dell’esperienza di Dio che è la “Vita” piena.
Quella
sera del primo giovedì santo, gli Apostoli impauriti sono consolati
da Cristo che oltre a proclamare il Suo amore dice loro: “Non vi
lascerò orfani”. Quella
sera Gesù sembra non tanto preoccupato per sé, quanto per i suoi
amici, che sa avrebbero conosciuto la profondità della loro
debolezza, il grande dolore dell'abbandono, e avrebbero cercato
qualcosa che li confortasse. Gesù stesso sarebbe stato consolato
dalla presenza di un Angelo, durante la sua agonia nel Getsemani, nel
momento in cui sembra potesse nascere anche in Lui la voglia di
fuggire dalla crocifissione: “Padre se è possibile, allontana da
me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà si compia in
me”. È incredibile come Gesù, che ci ha promesso il Consolatore,
abbia voluto essere ‘uomo di tutti i tempi’: l’uomo, ogni uomo,
che conosce l'abisso della prova e della solitudine. Ma alla fine
trionfa il disegno di realizzare il grande disegno di Amore per noi.
Gesù
anche oggi ripete a noi: “Non vi lascerò orfani”. Queste parole
furono, sono e saranno sempre una certezza per chi Lo segue, ieri,
oggi e sempre; e le ha dette nel momento più difficile della sua
esistenza tra noi, fino a giungere al punto, quasi facendosi voce
della nostra paura di essere abbandonati da tutti, di proclamare
dalla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt
27, 46). Cristo risorto ci ridice che Chi ama è la
dimora dell’amato: lo porta nel cuore, come sua vita. Noi da sempre
siamo in Dio, che ci ama di amore eterno; se lo amiamo, anche lui è
in noi come noi in lui.
2)
Se mi amate…
“Se
mi amate osserverete i miei co mandamenti” (Gv 14,15). Le
parole di questo versetto si ripetono come un ritornello anche nei
versetti 21 e poi 23 e 24. Non
si tratta di una ingiunzione (do vete osservare) ma di una
rivelazione di bontà: “se” amate, entrerete in un mondo nuovo.
Tutto comincia con la congiunzione “se”, paroletta carica di
delicatezza e di rispetto: se mi amate... "Se": un punto di
partenza così umile, così libero, così fidu cioso che ci aiuta a
capire che osservare i comandamenti di Cristo non è obbedire a una
legge esterna, ma vivere come Lui nell’amore. Così come i primi
apostoli di Cristo e del Vangelo furono mossi dall'amore vissuto come
legge, anche noi mossi dall’amore di Cristo siamo mossi a
proseguire il compito di portare nel mondo l’amore di Dio fatto
carne.
Se
amiamo Cristo, Lui abita i nostri pensieri, le nostre azioni e parole
e le cambia. Così facendo, viviamo la sua vita buona, bella e
felice. Se amiamo Gesù e osserviamo il suo comandamento dell’amore,
non solo non feriamo, non tradiamo, non rubiamo, non mentiamo, non
uccidiamo, ma soccorriamo accogliamo, benediciamo.
Se
è vero, come ho detto all’inizio di queste riflessioni, che il
tema di oggi è quello dell’amore, è altrettanto vero che le idee
dominanti sono due. La prima è che il criterio più
adatto per verificare la realtà dell'amore a Cristo è l’obbedienza
alla sua volontà, cioè l’osservanza concreta dei comandamenti,
che in San Giovanni si riducono al comandamento dell'amore fraterno.
E la seconda: la pratica dell’amore è il luogo in cui Gesù si
manifesta.
L’amore
è una “cosa” tale che quando si ama una persona, quella persona
è nel nostro cuore e nella nostra mente, e diventa norma della
nostra vita. Sappiamo cosa pensa, cosa fa lei e facciamo ciò che lei
fa, perché amiamo anche ciò che lei fa. Insomma, l’amore non è
solamente un sentimento, tocca tutto l’essere:
- tocca il conoscere: noi conosciamo una persona se la amiamo, e “l’amore è la via per conoscere Dio” (Papa Francesco);
- tocca il volere: amare è volere il bene dell’altro; voler davvero il suo bene;
- tocca l’azione: se tocca l’intelligenza e la volontà, tocca l’azione; è agire come l’altro.
Quindi l’amore è una comunione nell’essere più profondo, è unione di intelligenza, di volontà e di azione che ci rende come Cristo, Figlio di Dio, con la stessa intelligenza, con la stessa volontà, con la stessa azione.
3)
I “miei” comandamenti.
Oltre
alla congiunzione “se”, vorrei attirare l’attenzione sul
pronome possessivo "miei". Gesù dicendo: “Se
“osserverete i comandamenti”, dice i “miei” comandamenti. E’
come se dicesse: i comandamenti sono miei non tanto perché
prescritti da me, ma perché manifestano ciò che sono io e il vostro
futuro. Riassumono me e tutta la mia vita. Se mi amate, vivrete come
me e con me”
Se
amiamo Cristo, osservando i suoi comandamenti, Lui abita in noi e
cambia i nostri pensieri, le nostre azioni, le nostre parole in
pensieri, azioni e parole di bene. E così partecipiamo alla sua
libertà, alla sua pace, alla gioia del suo vivere nell’amore.
La
testimonianza, che quanto sto proponendo è vero, ci viene dalla vita
delle Vergini consacrate, le quali mostrano
discretamente ma decisamente che una vita dedicata a mettere in
pratica le sue parole rende effettivo il seguire Cristo come
discepoli (cfr Mt 7,24)
ed è l’osservanza dei suoi comandamenti che rende concreto l'amore
a Lui e attira l’amore del Padre (cfr. Gv 14,21).
Dunque, non c’è amore senza obbedienza (“siete miei amici, se
fate ciò che vi comando” Gv 15, 14), ma senza amore l’obbedienza
è servile. Ce lo ricorda Sant’Ambrogio che, rivolgendosi alle
Vergini consacrate, ha scritto: “Con quali legami Cristo è
trattenuto?... Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore
e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13,77). Infine
prendendo alla lettera l’insegnamento di San Paolo: “Ritengo che
tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di
Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste
cose... per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui” (Fil
3,8-9), queste donne consacrate vivono l’amore con “distacco”.
L’amore verginale che sono chiamate a testimoniare a tutti i
battezzati, in particolare agli sposi, realizza il bene oggettivo ed
effettivo di sé e degli altri se mantiene un atteggiamento di
distanza. Solo nel distacco si dà vero possesso in Dio, perché le
mani invece di stringersi attorno all’altro si stringono in
preghiera. Queste mani giunte aprono il cuore di Dio, che riversa
sull’umanità il suo amore misericordioso.
Lettura
patristica
Sant’Agostino
d’Ippona (354 – 430)
In
Ioan. 75, 3-4
Vivere
in Cristo
Che significa «perché io vivo e voi vivrete» (Jn 14,19)? Perché disse che egli viveva, usando il tempo presente, mentre di essi disse che avrebbero vissuto nel futuro, se non perché egli stava per risorgere anche nella carne, cioè li precedeva su quella via della risurrezione, su cui aveva promesso che i discepoli lo avrebbero seguito più tardi? E, siccome il tempo della sua risurrezione era ormai prossimo, usò il tempo presente per indicarne la rapidità; di essi, la cui risurrezione doveva avvenire alla fine dei secoli, non disse: vivete, ma: «vivrete «. Con stile rapido e significativo, usando due verbi, uno al presente e l’altro al futuro, promise le due risurrezioni, la sua, che stava per accadere, e la nostra, alla fine dei secoli: «Perché io» - disse - «vivo e voi vivrete»; cioè noi vivremo perché egli vive ora. "Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita" (1Co 15,21-22). Nessuno muore se non per colpa di Adamo, e nessuno riottiene la vita, se non per mezzo di Cristo. È perché noi vivemmo, che siamo morti; è perché egli vive, che noi vivremo. Noi siamo morti per Cristo, se viviamo per noi; è invece perché egli è morto per noi, che vive per sé e per noi. Insomma, perché egli vive, noi vivremo. Potremmo infatti da noi stessi darci la morte, ma non potremo ugualmente darci da noi stessi la vita.
"In
quel giorno"
- egli continua - " voi
conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi"
(Jn
14,20).
In quale giorno? Nel giorno di cui ha parlato prima quando ha detto: «e voi vivrete «. Allora noi potremo finalmente vedere ciò in cui oggi crediamo. Infatti, anche ora egli è in noi e noi siamo in lui: è vero in quanto ci crediamo, mentre allora sapremo. Ciò che ora sappiamo con la nostra fede, allora lo sapremo perché vedremo. In effetti, finché siamo in questo corpo quale è ora, cioè corruttibile e che appesantisce la nostra anima (Sg 9,15), peregriniamo per il mondo lontani dal Signore; e camminiamo verso di lui per mezzo della fede, non perché abbiamo di lui la chiara visione (2Co 5,6). Allora, invece, lo vedremo chiaramente, perché lo vedremo qual è (cf. 1Jn 3,2). Se Cristo non fosse in noi anche ora, l’Apostolo non potrebbe dire: "Se poi Cristo è in noi, il nostro corpo è morto per causa del peccato, ma lo spirito è vita per ragione di giustizia" (Rm 8,10). Egli stesso apertamente mostra che anche ora noi siamo in lui, laddove dice: "Io sono la vite, voi tralci" (Jn 15,5). Dunque in quel giorno, quando vivremo in quella vita che avrà completamente distrutto la morte, conosceremo che egli è nel Padre, e noi in lui e lui in noi; perché allora vedremo compiersi ciò che egli stesso ha incominciato, affinché appunto noi si fosse finalmente in lui e lui in noi.
In
Cant. Cant. Sermo 74, 6
Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito la sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.
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