VII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 19 febbraio 2017
Rito
Romano
Lv
19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
Rito
Ambrosiano
Bar
1,15a;2,9-15a; Sal 105; Rm 7,16a; Gv 8,1-11
Penultima
Domenica dopo l’Epifania
detta
“della divina clemenza”
1)
Perfezione è accogliere l’amore.
Nelle
letture della Messa di questa domenica ci sono due frasi che mi
hanno colpito particolarmente: “Siate santi, perché io, il Signore
vostro Dio, sono santo (Lv 19, 2 – I lettura) e “Siate
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48
- Vangelo), e che fanno nascere la seguenti domande: “In cosa
consiste allora la santità alla quale Dio nel libro del Levitico ci
spinge e la perfezione a cui ci invita Gesù? Chi può diventare
perfetto come Dio Padre?”
La
frase di Cristo riportata da San Luca “Siate misericordiosi come il
Padre vostro” (Lc 6, 36) ci può aiutare nella risposta.
Unendo questa frase a quella riportata da San Matteo: “Siate
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,
48), possiamo, in primo luogo, dire che la perfezione di Dio è la
sua misericordia. Allora anche l'uomo può essere perfetto se vive la
misericordia. “La bontà e la perfezione si radicano sulla
misericordia” (Papa Francesco). Dunque con il Papa possiamo
affermare che la perfezione dell'uomo è la conquista della
misericordia, e la misericordia è la sintesi della lieta, buona
notizia portata del Redentore.
In
secondo luogo, possiamo dire che la nostra perfezione è vivere con
umiltà come figli di Dio compiendo concretamente la sua volontà che
ci da indicazioni chiare: i comandamenti, per essere come Lui. San
Cipriano scriveva che “alla paternità di Dio deve corrispondere un
comportamento da figli di Dio, perché Dio sia glorificato e lodato
dalla buona condotta dell’uomo” (De zelo et livore, 15:
CCL 3a, 83).
In
terzo luogo, va ricordato che Cristo non ci chiede la perfezione
nell’osservanza dei codici legali e dei regolamenti. Ci vuole
perfetti, certo, ma nell’amore.
Mi
spiego prendendo un episodio della vita di Santa Teresa del Bambin
Gesù. In un momento della sua vita, questa santa Suora si domandò
come in paradiso tutti potremo essere felici pienamente,
perfettamente, avendo raggiunto ognuno gradi differenti di santità.
A un certo punto, la piccola Teresa ebbe questa illuminazione:
“Immaginiamo che il Paradiso sia come un meraviglioso campo pieno
di fiori di tutte le specie, dai più grandi ai più piccoli, dalle
rose alle margherite, dai gigli ai ciclamini. La rugiada del mattino
riempie i vari fiori secondo la loro grandezza. Nessuno di essi è
più pieno degli altri. Ognuno è colmo, perfetto di amore e di gioia
e non ha, quindi, gelosia di chi è più grande”.
Noi
non possiamo essere santi come lo sono, per esempio, santa Teresa del
Bambin Gesù o san Benedetto o San Francesco o P. Pio da Pietrelcina
o Madre Teresa di Calcutta . Certamente saremo molto meno, ma non è
questo che conta. Conta il fatto che lasciamo colmare il nostro cuore
– piccolo come una margherita o grande come un giglio- dall’amore
di Dio.
Insomma
essere perfetti nella santità vuol dire credere all’Amore,
dilatando il nostro cuore perché accolga Dio.
Apriamoci
all’amore di Dio. In ultima analisi la santità, anche se è una
nostra risposta a Dio, è dono di Dio. A noi tocca aprirci a Lui
nella fede e accogliere il suo amore.
2)
La santità delle beatitudini.
Qualcuno
potrebbe obiettare che questa santità come accoglienza dell’Amore
è troppo facile. Non è più facile di quella che acquistò santa
Maria Maddalena, la peccatrice pubblica. Questa donna si gettò ai
piedi del Cristo e quando si alzò ottenne il suo elogio: “Le sono
perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc
7, 47). Perché “ha molto amato”? Che cosa aveva fatto? Aveva
creduto all’Amore, non ha fatto altro. Tutto il suo peccato non
l’aveva arrestata nel suo amore, che l’aveva gettata ai piedi del
Cristo. Aveva creduto e si era abbandonata, si era aperta a ricevere
il dono dell’amore divino, che l’ha colmata.
La
storia di ogni cristiano è quella di un amore ogni volta colmato, e
allo stesso tempo aperto su nuovi orizzonti, perché Dio dilata
continuamente le possibilità dell'anima, per renderla capace di beni
sempre maggiori. Dio stesso, che ha deposto in noi i germi di bene, e
dal quale parte ogni iniziativa di santità, “modella il blocco...
Limando e pulendo il nostro spirito, forma in noi il Cristo” (San
Gregorio di Nissa, In Psalmos 2,11: PG 44,544B).
Questo
amore è messo in pratica di chi vive le Beatitudini. E’, infatti,
significativo che San Matteo riporti l’espressione di Gesù “siate
perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” a
conclusione del Discorso della Montagna, in cui Gesù proclama le
Beatitudini e promulga il codice della nuova legge dell'amore.
Non
a caso Gesù dice ai suoi discepoli che sono sale della terra e luce
del mondo, dopo aver enunciato le Beatitudini. Senza lo spirito e la
pratica delle Beatitudini non si può essere sale e luce, di cui il
mondo avvolto dalle tenebre del nuovo paganesimo ha tanto bisogno.
In
una società dominata dall'odio e dalla violenza e lacerata da
divisioni e contrapposizioni, annunciare l'amore eroico ai nemici e
la preghiera per i persecutori significa attuare la vera rivoluzione,
di cui ha sempre bisogno la società di ogni tempo e di ogni luogo la
rivoluzione dell’amore, che ha la sua fonte e il suo modello
nell’amore infinito e umile del Padre Celeste.
E’
chiara l’indicazione del Redentore: per imitare il Padre Celeste
bisogna vivere nello spirito delle beatitudini evangeliche e aprirsi
totalmente all'amore del Padre, “che fa sorgere il Suo sole sopra i
malvagi e i buoni e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt
5, 45). In effetti, come potremmo affermare di voler imitare il Padre
che tutto ama, dona e perdona, se rimanessimo così chiusi nel guscio
del nostro egoismo, schiavi dei beni effimeri del mondo, con il cuore
sbarrato davanti al bisogno e alla sofferenza del fratello?
L’invito
ad essere perfetti come il Padre non è una richiesta di scalare la
cima di un’alta montagna. Non ci è chiesto di essere forti ed
esperti scalatori dello Spirito, come sono stati i santi già
canonizzati dalla Chiesa. La perfezione di Dio è la meta di tutti i
discepoli di Gesù, per tutti i cristiani che vogliono portare molto
frutto e dare così gloria al Padre Celeste (Gv 15, 8).
La
grandezza o perfezione divina è a misura d’uomo, perché è la
grandezza dell’umiltà. “Dio, umile, si abbassa: viene da noi e
si abbassa” (Papa Francesco). Dal cielo alla terra. Il
Figlio di Dio si abbassa nella Grotta di Betlemme e in Croce di
Gerusalemme, passando attraverso l’inginocchiarsi davanti agli
apostoli per lavare loro i piedi. L’umiltà di Cristo, Figlio di
Dio è un’offerta inginocchiata dell’Amore. E’ un’umiltà la
cui fonte e centro sono il cuore divino. Come già insegnava San
Tommaso d’Aquino, che scrisse cose profonde sull’umiltà di Dio,
“Dio è davvero la fonte, il centro e il cuore dell’umiltà. In
Lui non c’è egoismo. Lui è tutto slancio verso l’Altro: del
Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre nell’unità dello
Spirito Santo” (P. Maurice Zundel). Questo donarsi reciproco
si comunica a noi e fa di noi dei “perfetti” se umilmente doniamo
a Lui non solo quello che abbiamo, ma quello che siamo. Dio si
abbassa sulla nostra fragilità e la salva con la sua tenerezza.
Se
fossimo davvero persuasi che Dio “crede” in noi, noi crederemmo
in Lui. Se fossimo coscienti di essere amati da Lui in modo tenero e
senza limiti, risponderemmo al Suo amore e faremmo di tutta la nostra
vita un dono totale a Lui nell’umiltà, nella pace, nella verità,
nella gioia.
Un
modo significativo di questa risposta totale a Dio, offrendosi a Lui,
è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Con il rito della
consacrazione e poi, con la vita quotidiana vissuta teneramente e
umilmente in Lui, queste donne testimoniano che il fatto di
appartenere a Dio non limita la libertà. Una vita vissuta nel
dialogo di amore con Lui è una vita nella libertà, che la verità
dell’Amore rende effettiva. La concupiscenza della carne e degli
occhi e la superbia della vita sono trasformate in purezza di cuore e
di sguardo a Cristo che – sulla croce - tiene per sempre aperte le
sue braccia con tenerezza e umiltà. Queste donne consacrate
testimoniano che la vita consacrata è vita di perfezione e segno per
tutti i cristiani come insegna il Card. Newman: “E’ opinione di
molti santi che, se noi vogliamo essere perfetti, non dobbiamo fare
altro che adempire i nostri doveri quotidiani. Ecco una via breve che
porta alla perfezione; breve, non perché sia facile, ma perché
tutti la possono seguire...
Sull’essenza
della perfezione è facile avere idee vaghe, idee che ci possono
aiutare a parlarne, quando non abbiamo alcuna intenzione di tendervi
risolutamente. Ma quando si desidera realmente la perfezione, e si
cerca di raggiungerla, allora solo ciò che è chiaro e si tocca con
mano può dare risultati soddisfacenti, giacché offre una specie di
direzione pratica, che è una via per arrivarci. ...
E’
perfetto chi fa in modo giusto le sue azioni giornaliere; per
raggiungere la perfezione non abbiamo bisogno di oltrepassare questi
limiti.
Se
tu mi domandi che cosa devi fare per essere perfetto, io ti
risponderò così: non rimanere a letto dopo l’ora fissata per la
levata; rivolgi i tuoi primi pensieri a Dio; fa’ una breve visita a
Gesù sacramentato; recita bene la corona; sii raccolto; caccia i
cattivi pensieri; fa’ con devozione a meditazione della sera;
esamina ogni giorno la tua coscienza. Fa’ questo e sarai perfetto”
(Card. John-Henri Newman). Gesti semplici che fanno si che la nostra
“preghiera sia l’effusione del nostro cuore in quello di Dio”
(San Pio da Pietrelcina) e le nostre azioni, piccole o grandi che
siano, ne manifestino la misericordia verso tutti.
Lettura
Patristica
Salviano
di Marsiglia
De
gubernatione, 3, 5-6
Forse
qualcuno obietta che oggi non è più il tempo in cui ci sia dato di
sopportare per Cristo ciò che gli apostoli sopportarono ai loro
giorni. È vero: non vi sono imperatori pagani, non vi sono tiranni
persecutori; non si versa il sangue dei santi, la fede non è messa
alla prova con i supplizi. Dio è contenta che gli serviamo in questa
nostra pace, che gli piacciamo con la sola purità immacolata delle
azioni e la santità intemerata della vita. Ma per questo gli è
dovuta più fede e devozione, perché esige da noi meno, pur avendoci
elargito di più. Gli imperatori, dunque, sono cristiani, non c’è
persecuzione alcuna, la religione non viene turbata, noi non veniamo
costretti a dar prova della fede con un esame rigoroso: perciò
dobbiamo piacere di più a Dio almeno con gli impegni minori.
Dimostra infatti di essere pronto a imprese maggiori, se le cose lo
esigeranno, colui che sa adempire i doveri minori.
Omettiamo
dunque ciò che sostenne il beatissimo Paolo, ciò che, come leggiamo
nei libri di religione scritti in seguito, tutti i cristiani
sostennero, ascendendo così alla porta della reggia celeste per i
gradini delle loro pene, servendosi dei cavalletti di supplizio e dei
roghi come di scale. Vediamo se almeno in quegli ossequi di religiosa
devozione che sono minori e comuni e che tutti i cristiani possono
compiere nella pace più stabile ed in ogni tempo, ci sforziamo
realmente di rispondere ai precetti del Signore. Cristo ci proibisce
di litigare. Ma chi obbedisce a questo comando? E non è un semplice
comando, giungendo al punto di imporci di abbandonare ciò che è lo
stesso argomento della lite pur di rinunciare alla lite stessa: "Se
qualcuno"
- dice infatti -"vorrà
citarti in giudizio per toglierti la tunica, lasciagli anche il
mantello"
(Mt
5,40).
Ma io mi chiedo chi siano coloro che cedano agli avversari che li
spogliano, anzi, chi siano coloro che non si oppongano agli avversari
che li spogliano? Siamo tanto lontani dal lasciare loro la tunica e
il resto, che se appena lo possiamo, cerchiamo noi di togliere la
tunica e il mantello all’avversario. E obbediamo con tanta
devozione ai comandi del Signore, che non ci basta di non cedere ai
nostri avversari neppure il minimo dei nostri indumenti, che anzi, se
appena ci è possibile e le cose lo permettono, strappiamo loro
tutto! A questo comando ne va unito un altro in tutto simile: disse
infatti il Signore: "Se
qualcuno ti percuoterà la guancia destra, tu offrigli anche l’altra"
(Mt
5,39).
Quanti pensiamo che siano coloro che porgano almeno un poco le
orecchie a questo precetto o che, se pur mostrano di eseguirlo, lo
facciano di cuore? E chi vi è mai che se ha ricevuto una percossa
non ne voglia rendere molte? È tanto lontano dall’offrire a chi lo
percuote l’altra mascella, che crede di vincere non solo
percuotendo l’avversario, ma addirittura uccidendolo.
"Ciò
che volete che gli uomini tacciano a voi"
- dice il Salvatore - fatelo
anche voi a loro, allo stesso modo"
(Mt
7,12).
Noi conosciamo tanto bene la prima parte di questa sentenza che mai
la tralasciamo; la seconda, la omettiamo sempre, come se non la
conoscessimo affatto. Sappiamo infatti benissimo ciò che vogliamo
che gli altri ci facciano, ma non sappiamo ciò che noi dobbiamo fare
agli altri. E davvero non lo sapessimo! Sarebbe minore la colpa
dovuta ad ignoranza, secondo il detto: "Chi
non conosce la volontà del suo padrone sarà punito poco. Ma chi la
conosce e non la eseguisce, sarà punito assai"
(Lc
12,47).
Ora la nostra colpa è maggiore per il fatto che amiamo la prima
parte di questa sacra sentenza per la nostra utilità e il nostro
comodo; la seconda parte la omettiamo per ingiuria a Dio. E questa
parola di Dio viene inoltre rinforzata e rincarata dall’apostolo
Paolo, il quale, nella sua predicazione, dice infatti: "Nessuno
cerchi ciò che è suo, ma ciò che è degli altri"
(1Co
10,24);
e ancora: "I
singoli pensino non a ciò che è loro, ma a ciò che è degli altri"
(Ph
2,4).
Vedi con quanta fedeltà abbia egli eseguito il precetto di Cristo:
il Salvatore ci ha comandato di pensare a noi come pensiamo agli
altri, egli invece ci comanda di badare più ai comodi altrui che ai
nostri. È il buon servo di un buon Signore e un magnifico imitatore
di un Maestro unico: camminando sulle sue vestigia ne rese, quasi,
più chiare e, scolpite le orme. Ma noi cristiani facciamo ciò che
ci comanda Cristo o ciò che ci comanda l’Apostolo? Né l’uno né
l’altro, credo. Siamo tanto lungi tutti noi da offrire agli altri
qualcosa con nostro incomodo, che badiamo sommamente ai nostri
comodi, scomodando gli altri.
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