Rito Romano
Domenica delle Palme e
della Passione del Signore – Anno C – 20 marzo 2016
Is 50,4-7; Sal 21; Fil
2,6-11; Lc 22,14-23,56.
Rito Ambrosiano
Domenica della Palme
Is
52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11
1) Innalziamo i
cuori e non solo le palme.
Con questa Domenica,
che è chiamata delle Palme e della Passione del Signore, entriamo
nella Settimana Santa e Grande, in cui la liturgia ci farà rivivere
il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù
Cristo. Si tratta della Settimana Santa e tragica, ma che è pure
Settimana della Vittoria e del trionfo, non solo perché Cristo vi
entra da trionfatore salutato dalla gente, ma soprattutto perché vi
esce vittorioso: risorto. L’amore trionfa, vince, non nonostante la
Croce, ma attraverso la Croce.
“Ciò che ci fa
credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della
croce, la vittoria della vita” (Pascal).
“La croce è l'immagine più pura e più alta che Dio ha
dato di se stesso. Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai
piedi della Croce” (Karl Rahner, SJ).
La Croce è al centro
della liturgia di oggi e, partecipandovi, mostriamo che non abbiamo
vergogna della Croce di Cristo, non la temiamo. Anzi la amiamo e la
veneriamo, perché è segno di riconciliazione,
segno dell’amore che è più forte della morte: è il segno
del Redentore morto e risorto per noi. Chi crede in Gesù crocifisso
e risuscitato porta la Croce in trionfo, come prova indubitabile che
Dio è amore. Con il dono totale di sé, con la Croce appunto, il
nostro Salvatore ha vinto definitivamente il peccato e la morte. Per
questo accogliamo nella gioia il Redentore, “camminiamo anche noi
insieme con colui che si affretta verso la sua
passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per
stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme,
tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile
prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre
persone” (Sant’Andrea di Creta).
Dunque, come la folla
festante di poco meno di duemila anni fa, oggi accogliamo Gesù che
entra in Gerusalemme, e come discepoli, lo accompagniamo nella sua
Pasqua, facendo nostra la preghiera della Messa: “Dio,
onnipotente ed eterno, che, per dare al genere umano un esempio di
umiltà, hai voluto che il nostro Salvatore assumesse la nostra carne
e subisse la morte di croce, accordaci, nella tua bontà, di fare
nostro l’insegnamento della sua passione e di avere parte alla sua
resurrezione” (Colletta
della Messa di oggi).
2)
La passione secondo San Luca e gli altri Evangelisti.
Per aiutarci a fare
nostro questo insegnamento della passione di Cristo, la Liturgia di
oggi ci presenta la storia della passione di Gesù secondo San Luca,
che la racconta facendo emergere la misericordia divina. A questo
riguardo è utile ricordare che ogni Evangelista (Marco, Matteo, Luca
e Giovanni) redige il suo vangelo partendo da un suo proprio e
personale punto di vista teologico, catechetico.
Secondo San Marco,
Gesù è il servo sofferente che muore per tutti, è l’abbandonato.
Il Cristo abbandonato è il chicco seminato, che morendo porta molti
frutti. Il grido d’abbandono: “Dio mio, perché mi hai
abbandonato” (Mc 15,34) non è un grido di disperazione.
Infatti, l’abbandono dal Padre diventa subito un abbandono al
Padre, e questo abbandono totale permette la riconciliazione
universale, a partire dal buon ladrone che è riportato a casa in
Paradiso, da Giovanni a cui è data una madre, alla Madre alla quale
è donato un nuovo figlio (e tutti noi in lui). Ciò avviene grazie
al fatto che Gesù rimette la sua anima al Padre, in un gesto di
abbandono totale e di fiducia amorosa. In questo modo, come aveva
promesso, dalla croce il Redentore attira tutti a sé, a sé e al
Padre, in una comunione profonda che si consuma nell’immolazione a
Dio Padre.
Per quanto riguarda il
vangelo secondo San Matteo, vediamo che in esso l’Apostolo e
Evangelista risponde principalmente a questa domanda: “Chi è il
colpevole della morte di Gesù?”.
Secondo San Matteo,
tutti - a loro modo - contribuiscono alla morte del Signore. Tutti
partecipano a questo dramma: chi direttamente, chi indirettamente;
chi agendo e chi non agendo. Ma c’è soprattutto un brano della
passione narrata da questo Apostolo, che mi pare molto importante da
mettere in risalto.. E’ quello in cui San Matteo racconta ciò che
accade subito dopo che Gesù muore (27,51-53). Dopo la morte c’è
una serie di espressioni che sono solo di questo evangelista: “Ed
ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo (questo è
presente anche in San Marco, ma ora iniziano le novità di San
Matteo), la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si
aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E, uscendo dai
sepolcri dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e
apparvero a molti”. Cosa vuole comunicare San Matteo? Lui vuol dire
che grazie alla morte di Gesù il dominio e il potere della Morte è
frantumato. Per l’evangelista Matteo, la morte di Gesù è
soprattutto la buona e lieta notizia (=evangelo) che il potere del
peccato e della morte, fino a questo momento devastante e totale, è
sconfitto. Dunque è possibile vivere una storia diversa: una storia
di salvezza. Questa possibilità oggi è data a noi. L’importante è
che non scappiamo da Cristo, che gli stiamo accanto, vegliando con
lui e con lui pregando il Padre. In questo modo, portiamo a
compimento l’esodo, il cammino guidato da Cristo, nuovo e vero
Mosè, che ci conduce alla vita per sempre.
Per San Giovanni, Gesù
è l’uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo
destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re. E’
sovrano di se stesso e lancia una sfida: “Io offro la mia vita per
poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie” (Gv
10,17-18). In estrema sintesi, secondo San Giovanni, per Gesù la
croce non è un estremo abbassamento ma una “elevazione”.
Infatti il verbo greco usato dall’Apostolo prediletto (“upsozènai”)
esprime l’innalzamento al trono di un re. L’elevazione di Gesù
sulla croce, dunque, è un’esaltazione regale, nella quale però,
mentre il re innalzato al trono domina imponendosi, Gesù-Re domina
attraendo: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a
me” (Gv 12,32). La condanna a morte per crocefissione di
Gesù non è stata un caso, un incidente. Cristo stesso ha voluto
offrire così la sua vita, essere l’ultimo degli ultimi,
condividere la condizione dei più disgraziati e disprezzati e
infelici: gli schiavi, neppure ritenuti “uomini”.
Insomma, la Croce è
la rivelazione suprema dell’amore del Padre. Questo spiega la
completa libertà di Gesù e la sua perfetta consapevolezza. Il
Cristo compie l’opera di salvezza non come una vittima rassegnata e
impotente, ma come colui che conosce il senso degli avvenimenti e li
accetta liberamente. Questo è il vertice dell’amore ed anche il
modello di ogni autentico amore: il completo dono di sé.
Analizziamo ora,
brevemente, il racconto della passione che ci è proposto quest’anno.
San Luca mostra soprattutto Gesù come colui che perdona tutti e usa
misericordia verso tutti.
Questo evangelista
presenta, se non in modo assolutamente positivo, almeno in modo
misericordioso i vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a
Gesù nelle prove (Lc 22,28); nel Getsemani si addormentano
solo una volta e non tre (Id. 22,39-46) ed è un sonno di
tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri
vangeli (Id. 22,66-70); Pilato per ben tre volte tenta di
liberarlo perché è innocente (Id. 23,13-25); il popolo è
addolorato per ciò che succede (Id. 23,27) e perfino uno dei
due ladroni accanto a Cristo in Croce è buono (Id.
23,39-43).
Nel racconto lucano,
Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l’orecchio del servo durante
l’arresto (Id. 22,50-51), si preoccupa per la sorte delle donne
mentre sale sul Calvario (Id. 23,28-31), perdona i suoi
carnefici che lo flagellano e mettono in croce (Id. 23,34), e
promette il paradiso al ladrone pentito (Id. 23,43). Il
Redentore in San Luca è colui, che capisce i suoi nemici: fanno così
perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero
agire in questo modo così criminale. Con questo sguardo di
misericordia Cristo in Croce prega: “Padre perdonali, perché non
sanno quello che fanno” (Id. 23, 34).
Proprio perché vuol
mettere in evidenza la misericordia divina che San Luca racconta la
passione di Cristo come la storia di conversione. C’è la
conversione del Signore, che si volta in dietro e guarda Pietro e
Pietro si sente penetrato da uno sguardo di perdono, per cui si
ricorda e piange, e queste lacrime di dolore indicano la conversione
del primo degli Apostoli. Guardiamo a Cristo e lasciamoci guardare da
Lui, come ha fatto Pietro. Allora la Croce che contempliamo in questo
inizio della Settimana Santa sarà fonte di conversione e di vita
nuova, donata dalla misericordia.
Ma già all’inizio
del vangelo di Luca possiamo vedere la misericordia in azione. In
Gesù Cristo la misericordia di Dio si estende di epoca in epoca a
tutti coloro che lo temono, secondo il Magnificat della Vergine Maria
(Lc 1,50). Visitando Maria, Dio si è ricordato della sua
misericordia, come aveva promesso. In Maria, la misericordia pianta
la sua tenda messianica, rispondendo all’attesa di tutti i poveri
d’Israele, quegli anawim, di cui noi siano i discendenti
spirituali, e come loro siamo chiamati ad abbandonarci alla sua
alleanza misericordiosa.
Al termine del Vangelo
contempliamo ancora la misericordia in azione e tutto diventa
miracolo. Al servo viene riattaccato l’orecchio, Pietro piange il
suo tradimento, Gesù è riconosciuto “giusto” da Ponzio Pilato,
il procuratore pagano, le donne vengono consolate e scosse, il ladro
appeso alla croce perdonato e la folla torna a casa percuotendosi il
petto. La morte di Cristo è piena di inattesa dolcezza.
L’importante è che,
assistendo allo spettacolo drammatico della passione del Figlio di
Dio che muore in Croce per amore, riconosciamo l’amato Amore, che
si dona e perdona.
In questo ci sono di
testimonianza le Vergini Consacrate nel mondo, la cui vocazione è di
non distogliere lo sguardo dalla loro Sposo in Croce, e di stare con
Maria, Vergine Madre, accanto a Cristo, dovunque lui ancora oggi
soffre e muore. Questo donne hanno scelto di vivere nella ricerca del
volto di Cristo, nell’ascolto della sua voce, dell’adempimento
della sua volontà per essere feconde grazie al dono dello Spirito e
generare nel cuore l’eterna Parola. Nascoste in Cristo, la loro
vita è consacrata per essere lode costante della gloria divina,
supplice voce per le necessità dei fratelli, dono offerto per tutta
la Chiesa.
Nel giorno della
consacrazione ricevendo il Crocifisso, ciascuna di loro ha detto:
“Con gioia ricevo questo
segno: Sulla
croce il Signore mi ha amato e ha dato la vita per me” (Cfr.
Gv
15, 13; 13, 35. 36-38). Nel giorno delle Palme e durante tutta la
Settimana santa, queste donne consacrate ci invitano ad unirci a loro
in questa accettazione di Cristo e della sua Croce, per portarla nel
mondo come segno dell’amore di Gesù per l’umanità.
Lettura
patristica
Dai
«Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo
(Disc.
9 sulle Palme; PG 97, 990-994)
Venite,
e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo
che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla
venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra
salvezza.
Viene
di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E' disceso dal cielo,
per farci salire con sé lassù «al di sopra di ogni principato e
autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si
possa nominare» (Ef
1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella
spettacolarità, «Non contenderà», dice, «né griderà, né si
udrà sulle piazze la sua voce» (Mt
12, 19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e
in condizione di povertà.
Corriamo
anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e
imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere
davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o
altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e
in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone.
Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi
stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la
mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così
dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra
nell'ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo,
diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.
Egli
salì «verso oriente sopra i cieli dei cieli» (cfr. Sal
67, 34) cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come
principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia
non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare
con sé la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra
verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi
stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde
che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a
perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi
rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso poiché
quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo
(cfr. Gal
3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese.
Per
il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del
lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della
lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici
rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali
dell'anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo
santamente: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re
d'Israele»
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