Domenica
XXVIII del Tempo Ordinario – Anno B – 11 ottobre 2015
Rito Romano
Rito
Ambrosiano
Is 43,10-21; Sal 120;
1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43
VII Domenica dopo il
Martirio di San Giovanni il Precursore.
1) La strada.
Anche nel brano
evangelico di questa domenica vediamo Cristo in cammino verso
Gerusalemme, e anche oggi vediamo un incontro del Messia con uno che
non vuole entrare in polemica con Lui. Questo uomo è ricco e, anche
se giovane, sa che prima o poi avrebbe dovuto abbandonare le sue
ricchezze. “Credo che venisse chiamato in una specie di giudizio
dal timore della morte e si rodeva in mezzo alle sue delizie,
pensando di dover abbandonare i suoi beni. Li aveva ammassati, senza
sapere per chi, e desiderava qualcosa di eterno” (Sant’Agostino).
Dunque vedendo che quanto possedeva gli sfuggiva di mano chiese al
Signore: “Maestro buono, qual bene devo compiere per conseguire
la vita eterna?” E’ come se dicesse: “Starei bene, ma quel
che possiedo fa presto a scomparire. Dimmi come possa appropriarmi di
ciò che sarà per sempre; dimmi come possa giungere al possesso di
ciò che non debba mai perdere” (Id.). Dunque questo giovane ricco
corre incontro a Gesù, si mette in ginocchio davanti a Lui e a
Colui, che è la Via, chiede il senso, la direzione della vita.
Cristo gli risponde
citando alcuni dei dieci comandamenti, quelli significativi nella
dimensione sociale, e che riguardano l’amore del prossimo, banco di
prova dell’amore di Dio: “Conosci i comandamenti: Non uccidere,
non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza,
non frodare, onora il padre e la madre...”.
Al giovane che Gli
risponde di averli osservati, Gesù propone di andare oltre, e render
più radicale e profondo l’amore per Dio, mettendo questo amore al
primo posto tra i valori della vita, e gli suggerisce: “Va’,
vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo;
poi vieni e seguimi”.
L’esigenza
fondamentale della sequela è il primato di Dio, il resto è un di
più, si può possedere o non possedere, ma è necessario che il
cuore, non sia totalmente legato, assorbito nelle ricchezze, nei beni
temporali, ma desideri profondamente, quel “tesoro che è nei
cieli”. Il cuore dell'uomo, come Sant’Agostino insegna, è fatto
per Dio, e a Lui deve aspirare, pur “servendosi” delle realtà
temporali. Lasciamo quindi che il Signore penetri nei nostri cuori
con la spada della Sua parola, perché alla luce della Sua sapienza
possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e
poveri per il Suo regno.(cfr. Colletta della Messa di
oggi)
Gesù invita questo
giovane e i suoi discepoli , noi compresi ,al viaggio integrale per
la sua sequela, con un rigore che non ha precedenti. In un passo
analogo a quello di San Marco, l’Evangelista Luca scrive: “Mentre
era in cammino, sulla strada, un tale gli disse: ‘Io ti seguirò
dovunque tu vada’. Gesù gli disse: ‘Le volpi hanno tane, e gli
uccelli del cielo hanno nidi; il Figlio dell’uomo non ha dove
posare il capo’... Un altro gli disse: ‘Ti seguirò, Signore, ma
prima permettimi di accomiatarmi dai miei di casa’. Gli rispose
Gesù: ‘Chiunque guarda indietro, mentre mette mano all’aratro, è
inadatto per il regno di Dio’” (Le. 9, 57-58...61-62).
Seguire Cristo,
infatti, comporta che si sia disposti a vivere qualcosa in più
rispetto al “non rubare”, “non uccidere”, ecc. Oltre a non
commettere il male dovremmo porci il problema su come realizzare il
bene e soprattutto come “essere” persone vere nell’amore.
Gesù aveva già
annunciato che per salvare la propria vita bisognava essere disposti
a perderla per amor Suo, cioè che per seguirLo occorreva rinnegare
se stessi e portare la propria croce (Mc 8,34-35).
2) Seguire con
gli occhi, seguire con i passi, seguire con il cuore.
L’uomo ricco che
andò da Cristo era sincero e si guadagnò uno sguardo pieno d’amore
da parte di Gesù, che con questo sguardo è come se gli dicesse:
“Una sola cosa ti manca, decisiva per te. Rinuncia a possedere,
investi nel tesoro del cielo, e il tuo cuore sarà libero e potrà
seguirmi”. Ma né lo sguardo né le parole di Gesù ebbero effetto.
Quest'uomo, rattristato, ha tuttavia preferito ritornare alla
sicurezza che gli procurava la propria ricchezza. Non ha potuto o
voluto capire che gli veniva offerto un bene incomparabilmente più
prezioso e duraturo di tutte le sue ricchezze: l’amore di Cristo
che comunica la pienezza di Dio (Ef 3,18-19). Alla proposta di
comunione che era implicita nella domanda di Cristo di seguirLo,
quest’uomo preferì la solitudine.
Eppure Cristo lo aveva
guardato con amore. Gesù guardò il ricco e quello sguardo di Gesù
fu come una carezza, come un bacio … bacio che il maestro dava al
discepolo al tempo di Gesù: come nel caso di Giuda (cf. Mc
14,45 e par.). Potremmo interpretare questo sguardo come fece San
Beda, il Venerabile, commentando lo sguardo di Gesù sul pubblicano
Matteo (cf. Mt 9,9: “Gesù vide il pubblicano, lo vide
facendogli misericordia, e lo chiamò dicendogli: ‘Seguimi!’”
(Omelie 21, CCL 122,150). Gesù non gli disse: “Va tutto bene, ma
se vuoi fare qualcosa di più, allora va’ e vendi i tuoi beni…”,
ma: “Ti manca una cosa, lascia tutto e seguimi me” (cf. Mc
10,21). Ecco dove Gesù aveva portato il giovane con il suo sguardo
di amore misericordioso. Purtroppo, quest’uomo non credette a
questo sguardo e a queste parole, divenne triste e si tirò indietro
(cfr. Mc 10,22). Non credette a quello sguardo, non credette a
quell’amore e non fu capace di seguirlo con i passi del cuore.
Questo giovane ricco
non ebbe il coraggio di abbracciare Cristo e la sua proposta di vita
evangelica, e il motivo è detto con chiarezza: “Poiché aveva
molti beni”. Il distacco dai beni, la povertà è condizione
indispensabile per la sequela. E lo è per tre ragioni:
- La fede in Dio che è Padre provvidente, che se ha cura degli uccellini e dei gigli dei campi, ha ancor più cura di ciascuno di noi.
- Un’esigenza di fraternità: come si può continuare a possedere tutto ciò che si ha, quando ci accorgi che attorno a te ci sono fratelli che mancano del necessario?
- E un'esigenza di libertà: legato a troppe cose (e non si tratta soltanto di soldi), che assorbono tutto il nostro tempo e la nostra attenzione, come possiamo trovare lo spazio e il gusto per le cose di Dio?
Queste
tre ragioni possono essere sintetizzate con una parola sola:
verginità, che Jacopone da Todi chiama: innamorata
povertà.
3)
Verginità: povertà di sé per la pienezza di Dio.
La verginità è
“povertà innamorata, che permette di possedere ogni cosa in
spirito di libertà” (Jacopone da Todi, O amor de povertate),
è la modalità di accogliere lo sguardo e l’amore di Cristo su di
sé, seguendoLo senza riserve, senza chiedere garanzie o avere vie di
fuga. Si lascia tutto anche la propria carne per seguire Gesù, senza
nostalgie e senza indecisioni, per il cammino che è Lui. Il distacco
richiesto è un guadagno, un affare, non una perdita. E questo è
profondamente vero anche a uno sguardo semplicemente umano: nella
sobrietà di quei beni, che il Vangelo chiama ricchezze, si trova la
possibilità di altri beni ben più importanti ed umani, essenziali
per l'uomo come l’aria che respira: il tempo per Dio, la gioia
della fraternità, la liberazione dall’ansia del possesso, la
libertà, la serenità.
Chi mediante la
verginità mette Dio al primo posto nella sua vita, questi entra a
far parte della Sua “famiglia”, dove trova fratelli e sorelle da
amare, padri e madri da venerare, case e campi ove lavorare. Trova
l’amore. La verginità non è negazione dell’amore, è pienezza e
totalità dell’amore. Per questo il Rituale della Consacrazione
delle Vergini fa pregare così: “Ferventi nella carità, nulla
antepongano al tuo amore» (Preghiera di consacrazione delle
vergini, in Pontificale Romano, riformato a norma dei Decreti del
Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI,
Consacrazione delle Vergini, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1980, n. 38, p. 77).
Lettura patristica
Clemente di Alessandria
Quis dives, 11-14
"Vendi
ciò che hai". Che significa? Non quello che alcuni
ammettono così a prima vista, che cioè il Signore ci comandi di far
getto dei beni posseduti e di rinunciare alle ricchezze; ci comanda
piuttosto di bandire dall’anima i pensieri usuali sulla ricchezza,
la passione morbosa verso di essa, le preoccupazioni, le spine
dell’esistenza che soffocano il seme della vita. Non è infatti
nulla di grande e di desiderabile l’essere privi di ricchezze ma
non per lo scopo di raggiungere la vita eterna: altrimenti i
miserabili che non hanno nulla, che son privi di ogni mezzo, che
mendicano ogni giorno il sostentamento, gli accattoni che giacciono
per le vie e che pur non conoscono Dio e la giustizia di Dio, solo
perché sono tanto poveri e non sanno procacciarsi da vivere e son
privi anche del minimo necessario, dovrebbero essere i più beati e
amati da Dio e i soli atti a possedere la vita. Non è una novità
rinunciare alle ricchezze ed elargirle ai poveri e ai mendici: molti
l’han fatto, prima che il Salvatore scendesse quaggiù: alcuni per
aver tempo di dedicarsi agli studi e alla sapienza morta, altri per
una fama vuota ed una gloria vana: gli Anassagora, i Democrito, i
Cratete.
Cos’è
dunque la novità, da lui annunciata come qualcosa proprio di Dio,
che solo vivifica e che non salvò gli antichi? Cos’è la rarità,
cos’è la «nuova creazione», che il Figlio di Dio proclama e
insegna? Non qualcosa di manifesto o che altri han già fatto egli ci
prescrive, ma qualcosa d’altro, più grande, più divino e più
perfetto, che da quella vien simboleggiato: liberare l’anima e la
sua intima disposizione dalle passioni, e rescindere ed estirpare
dalla radice ciò che è estraneo alla ragione. È questa la scienza
propria dell’uomo di fede, è questo l’insegnamento degno del
Salvatore. Quegli antichi disprezzarono le cose esteriori,
rinunciarono ai loro beni e li distribuirono, ma son convinto che
alimentarono così le passioni dell’anima. Crebbero nella superbia,
nella millanteria, nella vanagloria, e nel disprezzo degli altri
uomini, come se avessero compiuto qualcosa di sovrumano. E come
potrebbe il Salvatore comandare a coloro che vivranno in eterno ciò
che è di danno e di rovina per la vita che egli promette? Inoltre è
possibile anche questo: che uno deponga il peso dei propri possessi e
tuttavia porti radicata e vivida in sé la brama e l’anelito alle
ricchezze, ed è possibile anche che uno ne abbia perso l’uso, ma
per la privazione e il desiderio di ciò che ha sperperato sia
tormentato da una duplice sofferenza: la mancanza del necessario e il
pentimento di ciò che ha fatto. È impossibile, è impensabile,
infatti, che chi manca del necessario per la vita, non abbia l’animo
tutto agitato e continuamente stimolato dalla continua ricerca di una
situazione migliore: in che modo e dove se la possa procurare.
Ma
quanto meglio è il contrario: che uno possegga il necessario, e così
non debba soffrire lui e abbia da elargire agli altri ciò che
conviene. Che possibilità ci sarebbe di beneficare il prossimo, se
tutti non possedessero nulla? E come si potrebbe negare che questa
dottrina non sia in netto contrasto con molti altri ottimi
insegnamenti del Signore? "Fatevi
degli amici con il mammona di iniquità, affinché quando giungerete
alla fine, vi accolgano nelle tende eterne"
(Lc
16,9).
"Preparatevi
tesori in cielo, dove né la ruggine, né la tignola distruggono, né
i ladri scavano"
(Mt
6,20).
E come si potrebbe dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli
assetati, vestire gli ignudi e accogliere i pellegrini - e a quelli
che non fan ciò vien minacciato il fuoco e le tenebre esteriori -,
se prima non si possedesse tutto questo? Anzi, egli stesso comanda di
accoglierlo come ospite a Zaccheo e a Matteo, che pur erano ricchi e
pubblicani; e non comanda loro di rinunciare alle ricchezze, ma, dopo
aver suggerito il retto uso e vietato quello ingiusto, soggiunge:
"Oggi
si è compiuta la salvezza per questa casa, perché anch’egli è
figlio di Abramo"
(Lc
19,9).
Loda dunque l’uso delle ricchezze, imponendo però di comunicarle
agli altri: dar da bere a chi ha sete, dar del pane a chi ha fame,
accogliere lo straniero e vestire l’ignudo. Ora, nessuno può
compiere questi uffici senza le ricchezze; eppure il Signore ci
comanda di rinunciarvi. Che altro fa dunque se non imporre di dare e
non dare, di nutrire e non nutrire, di accogliere e non accogliere,
di comunicare agli altri e non comunicare? Ma ciò è assolutamente
contraddittorio.
Non
si hanno perciò da rigettare le ricchezze che devono servire a
vantaggio del prossimo; sono possessi perché la loro caratteristica
è di essere possedute e son dette beni perché servono al bene, e
sono state preparate da Dio per i bisogni degli uomini. Esse dunque
sono presenti, sono a portata, come materia, come strumento per
servire ad un buon uso a chi bene le conosce. Se ne usi con
intelligenza, lo strumento è intelligente; ma se manchi di
intelligenza, partecipa alla tua mancanza di intelligenza, pur non
avendone colpa. Un tale strumento, dunque sono le ricchezze. Ne puoi
usare con giustizia: ti sono ministre di giustizia. Qualcuno ne usa
ingiustamente? Scopriamo che sono ministre di ingiustizia. La loro
natura è di servire, non di comandare. Non dobbiamo dunque
rimproverare loro di non avere in sé né il bene né il male e di
essere fuori causa; bensì dobbiamo rimproverare chi può usarne o
bene o male come gli pare, cioè la mente e il giudizio umano, che è
libero in sé e padrone di usare delle cose a lui concesse. Nessuno
cerchi dunque di distruggere la ricchezza, ma le passioni dell’anima,
che non permettono l’uso migliore dei beni, non lasciano che l’uomo
sia veramente virtuoso e capace di usare rettamente della ricchezza.
L’ordine dunque di rinunciare ai nostri beni e di vendere ciò che
si possiede lo si deve intendere in questo modo: è stato impartito
contro le passioni dell’animo.
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