Domenica
XXIX del Tempo Ordinario – Anno B – 18 ottobre 2015
Rito Romano
Rito
Ambrosiano
Is 26,1-2.4.7-8;
54,12-14a; [Ap. 21,9a.c-27]; Sal 67; 1Cor 3,9-17; Gv 10,22-30
Dedicazione del Duomo
di Milano.
1)
Un Dio che serve.
Il brano evangelico di
questa domenica (Mc 10,35-45) sembra che ripeta alcune parole che
Cristo ha già detto in precedenza: “Chi vuole essere grande si
faccia servo di tutti” (cfr. Mc 9,35), che però i discepoli
continuano a non comprendere, come non capiscono Cristo che annuncia
la sua passione. La reazione degli Apostoli alla terza predizione
della Passione è peggiore delle precedenti.
Dopo la prima ci fu
una discussione tra Gesù e Pietro. Questi pensava ancora secondo gli
uomini e non secondo Dio e, quindi, voleva convincere Cristo a non
andare a morire.
Dopo la seconda ci fu
l’incomprensione di tutti gli apostoli, intenti a litigare su chi
fosse il più grande.
Dopo la terza è come
se Gesù non avesse detto nulla. Anzi, Giacomo e Giovanni, che Lui
prediligeva, invece di fare la sua volontà, vogliono che Lui faccia
la loro. In effetti, chiedono a Gesù: “Vogliamo sedere uno alla
tua destra e uno alla tua sinistra” (cfr. Mc 10, 37), mentre
gli altri si arrabbiano per questa richiesta.
Reazione che non è
certamente in linea con l’amore umile, predicato dal Maestro. Gesù
paziente raccoglie intorno a sé anche gli altri apostoli e
rivolgendosi sia ai due, che cercavano potere e onore, sia agli altri
dieci, che erano irritati da questa richiesta forse perché era stata
fatta prima che loro potessero fare altrettanto, spiega che
l’Apostolo più grande è quello che serve.
Chi è il più grande?
Nel Regno di Dio è grande chi serve e il miglior servizio è quello
di dare la vita. Già il servire è un po’ morire, è la croce
quotidiana. Ma se si accetta questa croce ci uniamo al servizio che
Cristo offre a tutta l’umanità, manifestando l’amore gratuito e
misericordioso di Dio.
Gesù, con pazienza,
insegna che per essere grandi con Lui e come Lui occorre esercitare
l’autorità come fa Lui: servendo.
“Anche
il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc
10,45).
Questa
frase è il punto di forza dell'intero insegnamento di Cristo. E’
una frase che va molto al di là del semplice esercizio dell’autorità
fatto con pazienza, dolcezza e umiltà. E così la commenta l’autore
dell’Imitazione
di Cristo:
“Se
vuoi regnare con Gesù, porta con Lui la croce. Solo i servi della
croce trovano la via della beatitudine e della vera luce” (cfr.
Cap. 56)
Per partecipare alla
sua grandezza, Gesù non ci chiede solo di fare come Lui, ma di
essere come Lui: servi. “Ognuno può essere grande, perché
ognuno può servire. Non è necessario avere una laurea per servire.
Non è necessario concordare soggetto e verbo
per servire. E' necessario solamente un cuore pieno di grazia”
(Martin Luther King),
rigenerato dall’amore di Cristo in Croce.
2)
L’autorità è di chi ama e l’esercita con il servizio1.
L’autorità nel
Cristianesimo è concepita e vissuta come esercizio dell’amore,
perché per Cristo chi Lo ama è colui che può e deve guidare gli
altri suoi amici, facendosi loro servitore.
E’
questo l’insegnamento che viene dal testo di San Marco che
stiamo
esaminando oggi. Ai discepoli che chiedono a Gesù di condividere la
Sua grandezza, Lui risponde insegnando che la grandezza sta nel
servizio e che il servizio è un cammino di croce cioè di dono di sé
perché l’amico viva. Non è bello soffrire, ma è doveroso, bello
e gioioso “servire” anche se ha come prezzo la rinuncia di sè.
“Vi
è più gioia nel dare che nel ricevere” (At
20,35).Insegnamento,
questo, che viene anche da un non cristiano come il poeta indiano
Tagore: “Sognavo
che la vita fosse gioia. Mi sono svegliato. La vita era servizio. Ho
servito e nel servizio ho trovato la gioia”.
E la
Beata M. Teresa di Calcutta ha completato dicendo: “Dove
c’è Dio, lì vi è amore. E dove c’è amore, vi è sempre
servizio. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del
servizio è la pace”.
La vera grandezza, che
è quella di Dio, è quella di essere servo dell’amore,
perché servire è, nel Nuovo Testamento, la traduzione concreta di
amare. Amare vuol dire servire l’altro. Come l’egoismo vuol dire
servirsi dell’altro.
Nella
mentalità dominante l’autorità è concepita e praticata
come potere, quasi sinonimo di dominazione e, in questo senso, essa è
il contrario del servizio. Ma teniamo presente che anche Gesù ha
goduto di profonda autorità e ha agito con autorità2:
eppure Gesù è stato anche colui che nel Nuovo Testamento è
presentato, soprattutto ricorrendo all’inno del servo sofferente
(Is 52,13-53,12), come uno che ha dato la sua vita per gli
altri, esprimendo al massimo grado la verità che non c'è miglior
amico di colui che dona la sua vita per gli altri. “Ecco il mio
servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio” (Is
42,1) E’ Dio che parla e presenta il “suo” servo; è Lui che lo
ha “scelto”, è Lui che lo sostiene.
Ogni elezione nella
Scrittura è sempre in vista di una missione per affrontare la quale
c’è bisogno della grazia. Dio dice che il suo servo è “cosa
buona” e che ha posto in lui il suo Spirito. “Ascoltatemi, o
isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno
materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato
il mio nome.”(Is 49,2) Ha reso la mia bocca come spada
affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia
appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. (Ibid.)
In sintesi per noi il
servo è un uomo, scelto tra gli uomini; non è migliore degli altri
né più capace; è Dio che gli va incontro, che lo purifica e lo
rende capace di dirgli di sì; la chiamata ad essere santo si
concretizza nella missione agli altri, quale inviato di Dio; questa
missione consiste soprattutto nell'annunziare la Parola, nel prestare
la voce a Dio, nell’essere suo testimone. Secondo il Vangelo,
l’autorità è, quindi, una qualifica che Dio dà per un servizio.
Se volessimo esprimerci con una pagina del Vangelo di San Giovanni,
potremmo rifarci alla lavanda dei piedi, la sera dell'ultima cena nel
Cenacolo.
L’episodio della
lavanda dei piedi ci rimanda al vangelo di Marco, dove Gesù è
preoccupato di non assimilarsi ai grandi della terra: non vuole
essere servito, ma servire. Donando la sua vita vuol dimostrare che
sa portare sino alle estreme conseguenze la verità in cui crede e la
missione che il Padre gli ha affidato. Non solo ma ci vuole far
capire che la vita cristiana è vita nella gioia, perché servire
Dio, il prossimo, e la Chiesa, dà gioia. “Chi
dà agli altri lo faccia con semplicità, chi aiuta i poveri lo
faccia con gioia!” (Rm 12, 7-8).
3)
L’autorevole servizio delle vergini consacrate3.
Riflettendo su come le
vergini consacrate sono grandi e su come esercitino l’autorità
dell’amore servizievole, ho pensato che oggi sia importante
sottolineare quanto segue. Le vergini consacrate nel mondo dedicano
la loro vita e tutte le loro forze di amore a Dio e al suo Regno.
Loro testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di
Dio e risposta a Lui nel servizio degli altri. Esse ricordano la
sorgente teologale dell’amore soprattutto attraverso la verginità
che richiama quella verginità del cuore e degli affetti che nasce e
si alimenta dell’intima e feconda comunione con il Signore.
Questa donne seguono
in modo particolare l’esempio della Madonna. Maria Vergine ha
risposto Si alla proposta di “essere per l’altro”. Non
solo ha capito la portata e la grandezza della chiamata di Dio ma
nelle sue parole:” Eccomi sono la serva del Signore” ha
interpretato in modo esemplare il vero atteggiamento al servizio
chiesto da Dio. Un servizio operoso, silenzioso, che sotto la croce
si è fatto cooperante della volontà del Padre, e forse mai come in
quel momento sono ancora risuonate nel suo cuore quelle parole:
“Eccomi sono la serva del mio Signore”.
Chi ama serve tutti e
va in cerca, come Cristo, particolarmente degli esclusi, dei
diseredati, dei peccatori, e con la vita casta proclama che Dio li
guarda, li ama, li salva.
La loro importanza non
è misurata da ciò che essi producono, in termini di efficienza, ma
dallo spirito e dallo stile che li anima e dalla comunione ecclesiale
che vivono.
La loro è una
vocazione al
servizio, che mostra mediante la
consacrazione e la vita che ne deriva che si può passare da un “io”
possessivo ad un “io" oblativo.
Queste
donne mostrano come si fa ad amare il prossimo come se stessi. Basta
amare Gesù, perché chi ama davvero vuol bene anche a coloro che
l’Amato ama.
Questo insegna pure
Rito della Consacrazione delle vergini. Grazie a questo Rito la
Chiesa celebra la decisione di una donna di donare a Cristo Sposo la
propria verginità e, invocando su di lei il dono dello Spirito, la
dedica per sempre al servizio cultuale del Signore e a un servizio di
amore in favore della comunità ecclesiale e del mondo.
La consacrazione
è una risposta alla chiamata di Dio Padre “sorgente purissima da
cui scaturisce il dono della integrità verginale”. Per mezzo di
Cristo Lui chiama le vergini “per un disegno d’amore […] per
unirle più intimamente a sé e metterle al servizio della
Chiesa e dell’umanità” (Rito della Consacrazione delle
Vergini, n. 29 – Omelia). Per questo la Chiesa invoca su di
loro tutte le virtù, grazie e carismi di cui hanno bisogno per
vivere la loro vocazione, pregando cosi: “Concedi, o Padre, per il
dono del tuo Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella
bontà, austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella
carità, nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza
desiderare la lode.” (Ibid, n 38 – Dalla preghiera di
consacrazione).
1 Si pensi all’episodio in cui dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade Gesù Cristo chiede a Pietro: “Mi ami tu?”. “Sì”. “Pasci le mie pecore”.
2 E’ proprio Marco che ci riferisce come Gesù sin dall'inizio insegnava con autorità (1,27).
3 L’Ordo Virginum è una forma di vita consacrata; nel Codice di Diritto Canonico è inserita col can. 604 nella parte III “Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica” (Liber II: “De Populo Dei”): “A queste diverse forme di vita consacrata si aggiunge l’ordine delle vergini le quali, emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa”.
Lettura Patristica
Sant’Ambrogio da
Milano
De fide, 5,
56s., 60-65, 77-84
Quanto
è paziente e clemente il Signore; che alta sapienza e benevola
carità! Volendo, infatti, far vedere che Giacomo e Giovanni non
avevano chiesto una cosetta da niente, ma una cosa tale che non
l’avrebbero potuta ottenere, fece ricorso alla prerogativa della
benevolenza del Padre; e non temé una derogazione al suo diritto, al
diritto di "colui
che non credette di fare un torto dichiarandosi uguale a Dio"
(Ph
2,6).
Amando però i suoi discepoli - "li
amò sino alla fine"
(Jn
13,1)
- non volle dar loro l’impressione che negasse loro quanto
chiedevano. Santo e buono il Signore, che preferisce dissimulare il
suo diritto, piuttosto che detrarre qualche cosa alla sua
benevolenza: "La
carità",
infatti, "è
paziente è benigna, non vuol sopraffare, non si gonfia, non reclama
diritti"
(1Co
13,4).
Perché
finalmente vi rendiate conto che l’espressione "non
è cosa mia darlo"
vuole suggerire indulgenza più che mancanza di autorità, osservate
che, in Marco (Mc
10,40),
dove non si parla della madre, non si fa alcuna menzione del Padre,
ma è detto soltanto: "Non
è cosa mia darlo a voi, ma a coloro per i quali è stato preparato".
In Matteo, invece, dove è la madre che prega, vien detto: "Per
i quali è stato preparato dal Padre mio"
(Mt
20,23);
e l’aggiunta "Padre
mio"
è fatta perché l’amore materno richiedeva una maggiore
indulgenza.
Ammettiamo
che fosse stato possibile per degli uomini ottenere ciò che si
chiedeva, che cosa significa quel: "Non
è cosa mia darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra"
(Mt
20,23)?
Che vuol dire cosa "mia"?
Più sopra disse: «Il mio
calice lo berrete», poi dice: «Non è cosa "mia"».
Il "mio"
unito a calice, ci fa luce per capire che cosa vuol dire qui cosa
"mia".
Pregato
da una donna, come uomo, di far sedere i suoi figli alla sua destra e
alla sua sinistra; dal momento ch’ella s’era rivolta a lui, come
a un uomo, anche il Signore, solo come uomo, accennando alla sua
passione, risponde: "Potete bere il calice, che io berrò?"
Perciò,
poiché parlava secondo la carne della passione del suo corpo, volle
dimostrare che ci lasciava un esempio di una passione da soffrire
nella carne. "Non
è cosa mia"
va inteso come l’altra espressione: "La
mia dottrina non è mia"
(Jn
7,16),
non è mia secondo la carne, perché le cose divine non sono oggetto
del parlare della carne.
Rivelò
tuttavia subito la sua indulgenza verso i suoi amati discepoli,
chiedendo: «Ma il mio calice lo berrete?». Così, non potendo dar
loro ciò che chiedevano, fece un’altra proposta, per poter dir
loro un sì, prima di un no; perché capissero ch’era mancata più
a loro l’equità nella richiesta fatta, che non la generosità
nella risposta del Signore.
"Il
mio calice, sì, lo berrete", cioè affronterete la passione
della mia carne, perché potete imitare ciò che deriva in me dalla
natura umana; vi ho dato la vittoria della passione, l’eredità
della croce; "ma non è cosa mia il darvi di star seduti alla
mia destra o alla mia sinistra". Non dice semplicemente:
"Non è cosa mia dare", ma "darvi",
cioè dare a voi. E questo dovrebbe significare che non si tratta di
mancanza di potere in lui, ma di merito nelle creature.
Si
può anche intendere così: "Non è cosa mia", di me
che venni a insegnar l’umiltà, di me che venni non per essere
servito, ma per servire; di me, che seguo la giustizia, non
favoritismi.
Poi
appellandosi al Padre aggiunse: "Per
i quali è stato preparato",
per dire che il Padre non guarda le raccomandazioni, ma i meriti,
perché Dio non fa preferenze di persone (Ac
10,34).
Perciò l’Apostolo dice: "Coloro
che sapeva lui e che predestinò"
(Rm
8,29);
prima li conobbe e poi li predestinò, vide i meriti e predestinò il
premio...
A
ragione, dunque, è ripresa la donna che chiese delle cose
impossibili, e domandò che fossero ridotte a speciale privilegio
quelle cose che il Signore voleva dare non solo a due apostoli, ma a
tutti i suoi discepoli, e non a titolo di una particolare
raccomandazione, ma per sua volontaria generosità, come sta scritto:
"Voi
dodici siederete sopra troni, per giudicare le dodici tribù
d’Israele"
(Mt
19,28).
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