venerdì 26 giugno 2015

La fede fa miracoli.

Domenica XIII del Tempo Ordinario – Anno B – 28 giugno 2015
Rito Romano
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano
Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
V Domenica dopo Pentecoste.

1) Fede che guarisce e salva.
Nel lungo brano del Vangelo di questa Domenica sono presentati due miracoli, che si incastrano l’uno nell’altro. Il filo rosso che unisce il miracolo della guarigione della donna, che soffriva perdite di sangue, e quello della risurrezione della figlia del capo-sinagoga Giairo è la fede. Questa fede non solo guarisce e ridà la vita, ma salva la vita dandole pienezza.
Come dice Papa Francesco: “All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).
In effetti, nella scena evangelica di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata.
Soffermiamoci un po’ su questa scena. Avendo saputo delle guarigioni di Gesù, Giario, incurante della sua posizione sociale e e del suo ruolo autorevole, si getta ai piedi del Nazareno e lo supplica insistentemente di andare a imporre le mani alla sua figlioletta, perché sia salvata e viva. Gesù accoglie la richiesta e si dirige con lui verso la sua casa. Ma ecco che, nella ressa della folla che stringe da ogni parte, avanza una donna, affetta da 12 anni di eccessive perdite emorragiche; la poveretta aveva speso tutti i suoi averi dai medici senza nulla ottenere, anzi peggiorando.
Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. È bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Però non è solo su ciò che San Marco ferma l’attenzione. L’Evangelista parla anche della meraviglia dei discepoli: “Vedi la folla che ti preme e domandi: chi mi ha toccato?”.
Perché Gesù dà rilievo al gesto di questa donna la quale non vuole farsi notare toccandogli quasi un lembo del mantello che Gesù ha sulle spalle? Occorre sapere che la legge mosaica dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e chi la toccava diventava impuro. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna, e che il puro e l’impuro legali sono superati dalla fede. Per questo, pubblicamente il Salvatore dice alla donna che gli ha “rubato” il miracolo: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.
Ancora la fede è al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, solo abbi fede”. Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungerti qui, nella tua propria situazione, vittoriosa persino sulla morte. Ma in questo racconto Marco accenna anche a un altro tema: “La bambina non è morta, ma dorme”. Il grande miracolo è la vittoria sulla morte, come ci ricorda il Salmo: “Dio guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia » (103,3-4). In effetti, non sarebbe salvezza piena se non fosse per sempre.
Gesù, dopo aver smentito le parole degli uomini, che dicevano che la bambina era morta, e dopo averli mandati tutti fuori, dà un nome nuovo anche alla morte. La sua Parola è più importante di quella degli uomini. La Parola di Dio ridà vita, la dà per sempre.

2) Fede: è questione di intelligenza e di cuore, è maniera di vivere non solo di pensare.
Come stiamo vedendo, l’attenzione è attirata non tanto sui due miracoli, quanto sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità e purezza del cuore dell’uomo che cerca il Signore e che mendica la guarigione del corpo e dell’anima.
Gesù non compie miracoli, dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell'agire di Dio. Il miracolo è la libera risposta di Dio alla mendicanza della creatura umana.
Purtroppo siamo spesso ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto per decifrarli e il coraggio per deciderci, e allora ci si scusa pretendendone altri. Chiediamo nuovi segni, sempre nuovi segni, e intanto non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già - di sua iniziativa - seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.
Dobbiamo chiedere ma con purezza di cuore e compunzione. La parola compunzione diventa molto espressiva se pensiamo alla sua etimologia: significa infatti il bruciore provocato da una puntura. Quel bruciore che provoca in noi l’amore di Dio manifestato in Cristo quanto tocca il nostro cuore peccatore. La compunzione non equivale al senso di colpa né agli scrupoli, ma fa riferimento all'amore, perché deriva dalla considerazione che Dio ci ama e che “Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori” (Rm, 5, 8).
Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’importante è perseverare in essa e farla crescere in noi. Anche quando il dubbio assale, anche se la nostra fede non ha nulla di eroico, lasciamo che la Parola di Dio abiti nel nostro cuore, che il Nome di Cristo salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati.
La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore svezzato della mamma restiamo confidenti nella braccia di Dio.
“La fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio e alla sua Parola, alla Sua Rivelazione.
La fede è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro.
La fede è un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente: è l’atto di Abramo che credette a Dio e che da ciò trasse salvezza.
La fede è un insieme di convinzione e fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna la sua maniera di vivere.” (Paolo VI, novembre 1966).
E' dunque giusto chiederci, oggi, quale dimensione ha la nostra fede: se è un atteggiamento superficiale che non dà credito alla Sua onnipotenza o “una maniera di vivere Dio”.
Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la fede è una maniera di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente. Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrata attribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola


Lettura Patristica
Sant’Efrem,
Diatessaron, VII, 6, 19-23


1. I medici e il medico

       La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.

       I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...

       E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.

       Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.

       È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.

venerdì 19 giugno 2015

L’altra riva

Domenica XII del Tempo Ordinario – Anno B – 21 giugno 2015
Rito Romano
Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

Rito Ambrosiano
Gen 18,17-21;19,1.12-13.15.23-29; Sal 32; 1Cor 6,9-12; Mt 22,1-14
IV Domenica dopo Pentecoste.

  1. Prendere il largo verso l’altra riva
Del Vangelo di questa domenica, che descrive la tempesta sedata, vorrei prima di tutto attirare l’attenzione sulla frase iniziale di Gesù: “Passiamo all’altra riva” (Mc 4,35).
Un invito che Gesù rivolge ai suoi dopo aver parlato del Regno dei cieli, che da seme diventa albero grande. Come ho già detto altre volte lo “stare” con Cristo è un verbo di moto perché implica necessariamente uno spostarsi, un seguirLo.
Un invito fatto quando cade la sera, dunque quando i seguaci di Gesù pensano di aver concluso il cammino della giornata ed hanno la umana e giusta esigenza di fermarsi e riposare dalle fatiche di portare con Cristo il vangelo. Il primo momento di questo andare oltre, è di lasciare la folla, di restare soli con Gesù per allontanarsi con Lui dalla riva dove erano arrivati.
La barca è la nostra vita che procede con il Salvatore. E’ un legno che solca le onde del tempo e dello spazio ed è capace di portare con sé il Figlio di Dio. Gesù, vero uomo e vero Dio, è così potente che non si preoccupa della tempesta. Può capitare che il vento soffi con violenza: tutte le voci che si agitano dentro e fuori di noi e che spesso si levano con tanta forza da sbandare i nostri passi fino a poco prima sicuri del sentiero. Le onde si rovesciano dentro la barca: ciò che è parte delle nostre giornate e che ci sembra di conoscere bene si ribalta contro di noi, certi significati che ci afferrano improvvisi e ci fanno sentire in balìa dell’inaspettato al punto da riempire di paura la vita che pensiamo ci appartenga.
Oggi Gesù ci dà una chiara lezione di come affrontare il mare della storia personale e di questo nostro mondo: dobbiamo navigare con Lui, dobbiamo prenderLo sulla nostra barca, “così com’è” (ibid. v. 36), perché Lui ci porti all’altra riva, salvandoci dalle acque burrascose.
Con Cristo, il cui amore è più forte della forza della natura possiamo arrivare all’altra riva raggiungibile grazie all’abbandono confidente in Lui. La tempesta naturale e quella del cuore umano è pericolosa e può portare alla morte, la “tempesta del cuore di Dio” porta pace, purché come gli apostolici diciamo; “Maestro, non t’importa che siamo perduti” (ibid. v.38).


  1. Gesù dormiva, ma il suo cuore vegliava.
Solo in questo brano di San Marco Gesù è presentato mentre dorme. Come interpretare tale sonno? Gesù è veramente stanco. Dopo una giornata di predicazione in cui ha speso tante energie, il Salvatore sale in barca è si addormenta profondamente, al punto tale di avvertire neppure il rumore del vento e delle onde. Possiamo così constatare qui la reale umanità di Gesù. Ma è utile aggiungere qualche altra spiegazione: Gesù si fida dei suoi, non dubita della loro responsabilità e capacità professionale, anche noi dobbiamo fidarci di Lui. Certo il suo atteggiamento è carico di mistero: il suo sonno tranquillo significa –secondo me- la serena fiducia in Dio, la fiducia del Figlio che si sente protetto e amato dal Padre, tra le sue braccia, anche nell'infuriare della tempesta del mare e della vita.
Dobbiamo fare nostro questo atteggiamento di Cristo, magari pregando il Salmo 130 che ci suggerisce una delle più dolci immagini del nostro abbandonarci in Dio, anche nella prova: “Sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia” (130,2-3).


  1. Il cuore dell’uomo è domanda di infinito.
Oltre ad insegnarci ad avere un abbandono totale in Lui, con il suo sonno sulla barca sbattuta dal mare in tempesta, il Salvatore risveglia il grido della nostra fede. Infatti, con un tono di stupito rimprovero Gesù dice ai suoi: "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?". (Ibid. v. 40) Il Figlio di Dio esige la fede dei suoi fratelli per risvegliare la potenza del suo amore.
Con la domanda: “Perché siete così paurosi?”, il Cristo sposta l’attenzione dalla potenza del miracolo alla fede dei discepoli, che si sono staccati dal lavoro precedente, dalla famiglia, dalla “folla” per stare con Gesù, seguendoLo per le strade del mondo. E Gesù, Maestro ed Amico, educa questa fede facendo oggi comprendere loro che non devono pretendere una presenza e una potenza divina, che li tolga dalla fatica del vivere. Inoltre li educa ad essere coraggiosi (cor agere = agire con il cuore), educando il cuore
Come rispondere a Cristo che ci chiede: “Perché siete così paurosi?”. Facendogli la stessa domanda del padre degli Apostoli “Aumenta in noi la fede, Signore” (Lc 17,5). Fede che è atto dell’intelligenza e abbandono della volontà
Facciamo in modo che la nostra vita sia veramente questo aprirsi della nostra mente e del nostro cuore ad una fede ogni giorno più pura, ad una fede ogni giorno più grande. Preghiamo perché la nostra fede ci apra sempre di più al dono di Dio. La fede matura sa rendere gli apostoli tranquilli anche nelle difficoltà e sereni anche nella persecuzione . Si pensi a San Pietro che in prigione dormiva serenamente. Si pensi anche alla “piccola” Santa Teresa del Bambin Gesù1. Lei che morì ad appena 24 anni è la santa della semplicità e dell'amore; la santa dell'abbandono fiducioso alla volontà di Dio.
Se vogliamo crescere nella fede dobbiamo educare il cuore, imitando la “piccola” Santa di Lisieux.
Educare il cuore ad accorgersi di Cristo. Perché accorgersi? L’etimologia di accorgersi è “ire ad cor” (andare al cuore), è il far passare il mio cuore al cuore di Cristo, e il cuore di Cristo al mio cuore e così possiamo non solo non avere paura nella barca della vita, ma pacificare con Cristo il mare della vita.
Un modo di vita significativo per accorgersi di Cristo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Attraverso la verginità queste donne educano il cuore “costruendolo” in quello di Cristo, che vuole bene e vuole il bene di chi a Lui si dona.
Lo stile della Vergine consacrata nel mondo è quello di chi non possiede il suo prossimo, perché il suo cuore è pieno dell’amore di Dio. Ricca di questo amore ne diventa segno limpido e pratica verso il prossimo la benevolenza che ha ricevuto da Dio. In effetti la verginità è vocazione all'amore: rende il cuore più libero di amare Dio. Libero dai doveri dell’amore coniugale, il cuore vergine può sentirsi, pertanto, più disponibile all'amore gratuito dei fratelli.
La verginità, certo, implica la rinuncia alla forma di amore tipica del matrimonio, ma la rinuncia è compiuta allo scopo di assumere più in profondità il dinamismo, insito nella sessualità, di apertura oblativa agli altri e di potenziarlo e trasfigurarlo mediante la presenza dello Spirito, il quale insegna ad amare il Padre e i fratelli come il Signore Gesù.
E il Papa emerito Benedetto XVI il 15 maggio 2008 disse loro: “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, 30). Fate in modo che la vostra persona irradi sempre la dignità dell’essere sposa di Cristo, esprima la novità dell’esistenza cristiana e l’attesa serena della vita futura. Così, con la vostra vita retta, voi potrete essere stelle che orientano il cammino del mondo. La scelta della vita verginale, infatti, è un richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Siate testimoni dell’attesa vigilante e operosa, della gioia, della pace che è propria di chi si abbandona all’amore di Dio. Siate presenti nel mondo e tuttavia pellegrine verso il Regno. La vergine consacrata, infatti, si identifica con quella sposa che, insieme allo Spirito, invoca la venuta del Signore: “Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’” (Ap 22,17)”. (Discorso alle Partecipanti al Congresso dell’Ordo Virginum, n 6)


1) Il nome di Teresa del Bambin Gesù, che fece suo fin dall’età di nove anni, quando manifestò il desiderio di farsi carmelitana, resterà per lei sempre attuale e si sforzò di meritarselo costantemente. Più tardi sotto un’immagine di Gesù Bambino, scriverà questa frase: «O piccolo Bambino, mio unico tesoro, mi abbandono ai tuoi divini capricci, non voglio avere altra gioia che quella di farti sorridere. Imprimi in me le tue grazie e le tue virtù infantili, affinché il giorno della mia nascita al cielo, gli angeli e i santi riconoscano nella tua piccola sposa: Teresa del Bambin Gesù».


Lettura Patristica
Sant’Agostino, Vescovo de Dottore della Chiesa (354-430),
Discorso 63, 1-3; PL 38, 424-425


Battuti dal vento e dalle onde

Per grazia di Dio vi rivolgo la parola sul passo del santo Vangelo letto poco fa e in nome di lui vi esorto a far sì che nei vostri cuori non si assopisca la fede con cui resistere alle tempeste e ai marosi di questo mondo. In effetti non è vero che Cristo nostro Signore avesse in suo potere la morte e non il sonno e che forse l'Onnipotente fu oppresso dal sonno contro la sua volontà mentre stava sulla barca. Se voi crederete questo, egli dorme nel vostro intimo; se invece Cristo è desto, è desta anche la vostra fede. L'Apostolo dice: « [Chiedo di] far abitare Cristo nei vostri cuori per mezzo della fede » (Ef 3,17).
Anche il sonno di Cristo è dunque un segno esteriore d'un simbolo. Sono come dei naviganti le anime che fanno la traversata di questa vita in una imbarcazione. Anche quella barca era la figura della Chiesa. Poiché anche ogni persona è tempio di Dio e naviga nel proprio cuore e non fa naufragio se nutre buoni pensieri. Se hai sentito un insulto, è come il vento; se sei adirato, ecco la tempesta. Se quindi soffia il vento e sorge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato. All'udire l'insulto tu desideri vendicarti: ed ecco ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio. E perché? Perché in te dorme Cristo. Che vuol dire: "In te dorme Cristo"? Ti sei dimenticato di Cristo. Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo: considera lui.

Pietro Crisologo
Sermone 21, 1 ss.

1. Il sonno di Cristo sulla barca

       Tutte le volte che Cristo dorme nella nostra nave, e a causa del sonno della nostra ignavia s’addormenta nel nostro corpo, insorge una totale tempesta per la violenza dei venti, infieriscono minacciose le onde, e mentre troppo frequentemente si innalzano e cadono con flutti spumeggianti, amaramente suscitano nei naviganti con l’attesa i naufragi, come ha detto la lettura del nostro evangelista...

       "E lo prendono", disse, "così com’era nella nave" (Mc 4,36). Altro è il Cristo in Cielo, altro è il Cristo in nave: altro nella maestà del Padre, altro nella umiltà dell’umanità si avverte; altro si vede coeterno al Padre, altro temporale in rapporto alle età; altro dorme nel nostro corpo, altro veglia nella santità del suo spirito. "Lo prendono così com’era", disse, "nella nave". Lode di fede è ricevere il Cristo come è e si ha nella nave, cioè, nella Chiesa, dove è nato, dove crebbe, dove soffrì, dove fu crocifisso e sepolto, dove ascese al Cielo, siede alla destra di Dio Padre, donde verrà come giudice dei vivi e dei morti: professare tutto questo è di singolare salvezza. Colui che avrà accolto nella nostra nave e confessato il Cristo, qualora venga sommerso dagli scandali delle onde, non è immerso dai pericoli e coperto dalle onde... "Quella burrasca gettava le ondate nella nave" (Mc 4,37): poiché come le onde dei popoli e la ferocia delle persecuzioni agitano e squassano la nave del Signore esternamente, così all’interno i burrascosi flutti degli eretici irrompono ed infieriscono [contro di essa]. Il beato Paolo dichiara di aver sofferto questa tempesta, quando dice: "Al di fuori le lotte, internamente i timori: talmente che la nave fosse sommersa" (2Co 7,5). Giustamente l’evangelista, a causa dei flutti spumeggianti, riferisce che la nave fosse ripiena [d’acqua], soffrendo la Chiesa un numero così grande di eresie, quante controversie della legge leggiamo che ci siano.

       "Ed egli", disse, "dormiva a poppa sopra un capezzale. Lo svegliano e gli dicono: Maestro, niente t’importa che affondiamo? E, alzandosi, minacciò il vento e disse al mare: Taci e ritorna tranquillo. E cessarono i venti ed il mare ritornò calmo" (Mc 4,38-39). Mentre avveniva ciò gli insegnamenti si resero palesi, e il tempo lo addita all’esempio. Dal momento che grande e abbastanza violenta incombe una burrascosa tempesta, mentre da ogni parte il turbine pericoloso dei venti ruggisce e infierisce, muggisce il mare, le stesse isole sono scosse dalle fondamenta e i litorali sono scossi da pauroso fragore. Ma poiché dicemmo: Cristo dorme nella nostra nave, avviciniamoci a lui più con la fede che col corpo, e bussiamo alla sua porta [svegliamolo] più con le opere di misericordia che con il contatto di disperati; scegliamolo non con un frastuono indecoroso ma con grida di canti spirituali: non mormorando maliziosamente, ma supplicandolo con animo vigile.

       Offriamo a Dio qualcosa del tempo della nostra vita, affinché questa infelice vanità e miseranda sollecitudine non sciupi tutto il tempo [della nostra vita]; affinché l’eccessivo sonno e il vano torpore non sciupi tutta la notte ma parimenti parte del giorno e della notte noi stessi dedichiamo all’autore del tempo.

       Vigila, uomo, vigila! Hai l’esempio, e ciò che il gallo ti impedisce all’ospite, tu offrilo al tuo creatore, soprattutto quando egli ti suggerisce che ti sarà di aiuto, quando ti spinge al lavoro, quando già vicina la luce del nuovo giorno; quanto più con inni celesti ti conviene rivolgerti a Dio con virtù celeste per la tua salvezza. Ascolta il profeta che dice: "Durante la notte il mio spirito veglia presso di te, o Dio" (Is 26,9). E il salmista: "Sono con le mie mani di notte davanti a lui, e non sono stato ingannato" (Ps 76,3). Del giorno, invero, tre momenti lo stesso salmista ammonisce che bisogna riservare a Dio, dicendo: "Di sera, al mattino e nel mezzogiorno narrerò ed annunzierò, ed egli esaudirà la mia voce" (Ps 54,18). Mentre Daniele supplicava diligentemente Dio, in questi tre momenti [della giornata], ottenne non solo la prescienza del futuro, ma meritò la liberazione del suo popolo a lungo prigioniero. Ripetiamo, dunque, col profeta: "Sorgi, sorgi e non respingermi fino alla fine" (Mc 4,38). Diciamo con gli apostoli: "Maestro, niente t’importa che affondiamo?" (Mc 4,38). E veramente il maestro, non solo è il creatore di tutti gli elementi, ma anche il moderatore e il reggitore di essi. Ed egli quando ci avrà ascoltato, quando si sarà degnato di vigilare, si calmeranno le onde, e gli spaventosi marosi si appianeranno e così i colli, i venti si allontaneranno, cesserà la tempesta e quella che è imminente e la grande burrasca si trasformeranno nella più grande calma.



venerdì 12 giugno 2015

La speranza: fiducia nell’amore di Dio.

XI domenica Tempo Ordinario - Anno B –  14 giugno 2015
 
Rito Romano
XI Domenica tempo ordinario -
Ez 17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10; Mc 4, 26-34

Rito Ambrosiano
III Domenica dopo Pentecoste
Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12


1) L’uomo semina con fede, Dio fa crescere con amore.
Il Vangelo di questa domenica (Mc 4, 26-35) ci propone due brevi parabole: quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape. La semina del granello più piccolo produce l’evento più grande: il Regno celeste. Con immagini prese dalla vita dei campi Gesù presenta il Regno di Dio1 e indica le ragioni del nostro impegno pieno di speranza.
Nella prima parabola Gesù mostra il miracolo della crescita, descrivendo la dinamica della semina: il seme è gettato nella terra, poi, sia che il contadino dorma o vegli, questo seme germoglia e cresce da solo.
L’uomo non fa che seminare e aspettare. Siamo dinanzi al mistero della creazione, all’azione di Dio nella storia alla quale guardare con stupore. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo non è che un collaboratore umile, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e attende la raccolta desideroso di parteciparvi.
A questo riguardo San Gregorio Magno commenta: “L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va per gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo” (In Exod., II, 3, 5 s.)
Nella seconda parabola Gesù parla ancora della semina. Però, fa riferimento a un seme specifico, il grano di senape, considerato il più piccolo dei semi (1,6 millimetri secondo gli esperti). Anche se così piccolo, esso possiede una potenza di vita e un dinamismo impensabile. Così è il Regno di Dio, una realtà veramente piccola umanamente parlando e composta da persone in genere semplici, povere, da gente non importante agli occhi della società mondo. Nonostante ciò, attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è di poco conto e apparentemente insignificante. Il granellino di senape diviene alto e solido arbusto, capace di accogliere nei suoi rami gli uccelli. Il Regno di Dio, da un punto di vista umano, è come un piccolissimo seme disprezzabile dunque nella sua apparenza, ma contenente in sé il mistero di una forza divina prodigiosa, che per noi è inimmaginabile.
Sant’Ambrogio commentando questa parabola scriveva: “Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Dunque, se il Regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il Regno dei cieli, e il Regno dei cieli è la fede.”(Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186).
La prima lezione da imparare da questo brano di Vangelo è che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. In effetti, nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio nella persona e nell’opera di Gesù come nelle persone ed opere dei cristiani, grazie alla semina cristiana l’umanità intera crescerà nella piena giustizia, pace e libertà grazie all’amore provvidente di Dio.

2) Speranza e pazienza.
La seconda lezione che ci viene dalle due parabole di oggi è che anche e soprattutto in una società che ha fretta e che chiama “tempo reale” una notizia che arriva in pochi secondi, ci vuole l’attesa operosa e paziente perché il seme, dato gratuitamente, può fruttificare solamente se è accolto e curato.
Siamo messi a confronto con la grazia di Dio e la nostra libertà. Grazia di Dio e libertà dell'uomo contraddistinguono tutta la nostra storia personale. Da una parte siamo chiamati a vivere con stupore la crescita del piccolo seme gettato nel terreno (prima parabola). Dall’altra ci viene insegnato che decisiva è la pazienza nell’attesa e la cura prestata perché la terra lo protegga e lo nutra, e il sole lo porti a maturazione.
Il Vangelo è una scuola che educa all’attesa. Gesù ha vissuto nel tempo e nella finitezza di una vita breve e dagli orizzonti che paiono limitati e ristretti, ma ha atteso nulla di meno del Regno di Dio in questo mondo. Per questo possiamo raccogliere immagini evangeliche dell’attesa con le quali imparare a vivere il “già e non ancora”, l’attesa paradossale della vita cristiana.
Attendere non è facile, soprattutto oggi. Ma questo verbo “attendere” ha due significati: attendere ai lavori. Mi spiego riferendomi al vita ordinaria, di “casa”, dove a qualcuno è chiesto di “attendere” ai servizi più banali e quotidiani: dare da mangiare, vegliare sulla vita di coloro che gli sono affidati, preparare la tavola, tenere acceso il fuoco, vigilare sui pericoli incombenti. Si attende così, prestando cura ai fratelli affidati, non lasciandosi andare alla stanchezza provocata dal quotidiano nella sua banalità e non ricercando gratificazioni, cioè non pensando prima a se stessi, ma ai bisogni degli altri.
Attendere richiede un’ascesi, uno sforzo teso per non lasciarsi andare.
Si attende nella vigilanza di una luce accesa (nella preghiera) e in una vita attiva (carità) di chi sta con i fianchi cinti dal grembiule del servizio. Preghiera e carità sono gli esercizi che ci insegnano ad attendere. Chi prega impara che non subito il Signore parla e entra in dialogo con l’orante. C'è un silenzio da percorrere, ma proprio questo silenzio educa all’attesa e dona risonanza alle parole. Chi ama e serve conosce lo scarto tra il servizio reso e i sui frutti e riconoscimenti, perché occorre servire gratuitamente, da “servi inutili”, onorando il proprio compito senza altra preoccupazione.
Si tratta anzitutto di “fare la propria parte”, di non sottrarsi alla fatica nei giorni in cui sembra un “lavoro inutile”, senza immediati risultati.
L’altro significato di “attendere” è aspettare e ciò implica speranza e pazienza.
La pazienza è un “patire il tempo” (Marìa Zambrano) e il vuoto di un’opera che non è tutta e solo nelle nostre mani, i cui tempi sfuggono alla nostra fretta e al nostro bisogno di controllo e di rassicurazione. Ma proprio per questo, fatta la nostra parte, possiamo riposare in pace, perché c’è un tempo che ci viene incontro “spontaneamente”, indipendentemente da noi. Come non si può “forzare” la crescita del seme se non a rischio di rovinare la pianta, così si può forzare la crescita nostra e dei fratelli e sorelle, quindi dobbiamo imparare ad attendere nei tempi lunghi, a lavorare senza contingentare il tempo, senza dare scadenze forzate alla crescita.
È alla scuola del Vangelo che impariamo la vera pazienza che scandisce il tempo.. E in questa scansione il senso viene dal futuro, il tempo della pienezza rende ragione del tempo dell’attesa. Se la guardiamo dalla nostra parte, la storia comincia dal principio, se la guardiamo dalla parte di Dio, comincia dalla fine. Così, nella “pienezza del tempo”, è venuto il Figlio e gli uomini hanno capito che il tempo era giunto alla propria pienezza proprio per la sua presenza che lo portava a compimento. Egli viene proprio perché lungamente atteso dal lavoro paziente d’infinite generazioni che nella fede hanno seminato, nella speranza di vedere quel giorno. La sua venuta é però una vera sorpresa: l’attesa si scioglie nella gioia di contemplare l’abbondanza del campo del regno di Dio, l’ombra di un albero sotto il quale trovare riposo come uccelli scampati al pericolo.
La speranza consiste nell’abbandonarsi, in maniera filiale e fiduciosa, alle mani di Dio, il quale sa ciò di cui abbiamo bisogno (cfr. Mt 6,8), e “dona a tutti con semplicità e senza condizioni” (Gc 1,5). Come il Redentore, che abbandonò la Sua vita nelle mani del Padre (cfr. Lc 23,46), così il cristiano è ancorato nell’Eterno, essendo la sua speranza come un'ancora spirituale, sicura e salda, gettata nell’aldilà, dove per noi è già entrato Gesù (cfr. Eb 6,19-20).
Però occorre ricordare che la speranza cristiana è speranza di compimento di questa vita, e non di un’altra verso cui fuggire. Comporta l’accettazione della storia come luogo all’interno del quale si manifesta la presenza di Dio. Non genera disprezzo, ma provoca apprezzamento e gratitudine, pur nella consapevolezza del limite. È la forza interiore della fede che fa sì che gli uomini camminino con Dio, cerchino la Sua presenza, si impegnino a lavorare per l’avvento del Regno: “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”2. La speranza cristiana vede e ama ciò che sarà: è l’elemento dinamico della vita morale, che porta avanti in una crescita continua sia la luce della fede sia l’energia dell’amore. Essa - la speranza – è la sorella più piccola che tiene per mano e guida le due maggiori, la fede e la carità verso la meta3. Mentre siamo in cammino, in mezzo a prove e difficoltà personali e collettive, la speranza, generata dalla fede, genera la carità, sostenendone il movimento4.

3) Il granello di senape delle vergini consacrate nel mondo.
La parabola del granello di senape mostra che il metodo di Dio è quello dell’umiltà: il metodo fu realizzato nell’Incarnazione nella grotta di Betlemme, nella semplice casa di Nazareth e in tutta la vita “terrena” di Gesù. Nella Liturgia di oggi questo metodo dell’umiltà ci insegnato mediante la parabola del granellino di senape.
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare che il piccolo (all’apparenza) seme cresca in noi e sia da noi donato agli altri. Un esempio di come si può imitare questo metodo dell’umiltà è quello che ci è offerto dalla vita delle vergini consacrate nel mondo che mostrano che “dando con semplicità la vita si ottiene la Vita” (Papa Francesco)
Consacrandosi all’Amore, queste donne hanno posto la loro speranza non in qualcosa che viene da Dio, ma in Dio stesso. A questo riguardo Sant’Agostino insegna: “Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti sperano da Dio qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio. Dimenticando le altre cose, ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).
Il granello di senape non è solo un paragone della speranza cristiana, ma mette in evidenza che il grande nasce dal piccolo non per mezzo di capacità eccezionali ma grazie all’atteggiamento cristiano di persone semplici che vivono dell’amore di Dio e della pazienza, che è il lungo respiro dell’amore.

1 Un’interessante riflessione di Joseph Ratzinger (alle pagg.176-7 di “Gesù di Nazareth”) può aiutarci a capire correttamente la pagina evangelica: "Regno di Dio" significa "signoria di Dio" e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. E' questa volontà che crea giustizia... Ecco perché Salomone chiede a Dio "un cuore docile" per essere in grado di rendere giustizia e distinguere il bene dal male; "un cuore docile" proprio perché sia Dio e non lui a regnare, perché, se non si è in perfetta sintonia con Dio, non si può esercitare la vera giustizia......Così il regno di Dio viene attraverso il "cuore docile". Allora la preghiera più importante che si può fare perché venga il regno di Dio è: "Facci tuoi, Signore! Vivi in noi! Fa' che "Dio sia tutto in tutti" (cfr. 1 Cor.15,26-28).



2 BenedettoXVI, Lett. enc. Spe salvi, n.2.

3 Cfr. Charles Peguy, Il portico della seconda virtù.

4 Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologica, 2-2 q. 17,a 8; 1-2, q. 62, a.4.)

Lettura Patristica
San Gregorio Magno,
In Exod., II, 3, 5 s.


I tempi della semina e i tempi del bene

       Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

       L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

       Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

       Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!

venerdì 5 giugno 2015

Pane dei pellegrini

Corpus Domini - Anno B –  7 giugno 2015
 
Rito Romano
Es 24, 3-8; Sal 115; Eb 9, 11-15; Mc 14, 12-16. 22-26.
Corpus Domini

Rito Ambrosiano
Sir 16,24-30; Sal 148; Rm 1,16-21; Lc 12,22-31
II Domenica di Pentecoste
 

1) Presenza nel mondo, per salvarlo
In questa domenica in cui si festeggia il Corpus Domini1, festa di lode e di ringraziamento, la Chiesa non solo celebra l’Eucaristia, ma la reca solennemente in processione, annunciando pubblicamente che il Sacrificio di Cristo è per la salvezza del mondo intero. Bisogna portare Cristo sulle strade del mondo, perché Colui che le fragili specie dell’Ostia velano è venuto sulla terra proprio per essere “la vita del mondo” (Gv 6, 51).
Con questa processione siamo annunciatori cioè missionari, e persone con una meta santa cioè pellegrini.
Siamo missionari perché camminando uniti attorno al Corpo di Colui, che è il Signore del cosmo e della storia, portiamo Cristo al mondo intero e con Lui l’annuncio di quella pace che Lui ci ha lasciato e che il mondo non può dare. La nostra processione eucaristica ci permette di testimoniare con umile gioia che in quella piccola Ostia candida, che il Sacerdote porta devotamente, c’è la risposta agli interrogativi più assillanti. C’è il conforto di ogni più straziante dolore. C’è, in pegno, l’appagamento di quella sete bruciante di felicità e di amore che ognuno si porta dentro, nel segreto del cuore.
Siamo pellegrini perché andiamo verso l’eterna patria celeste. Siamo pellegrini non soltanto per l’inquietudine dell’eterno, che possediamo in comune con ogni essere umano, ma per vocazione. Cristo ci chiama a condividere la sua amicizia e la sua missione. Non siamo soli nel nostro pellegrinaggio: con noi cammina Cristo, Pellegrino che rinnova la presenza di Dio sulle strade del mondo, Pellegrino con i pellegrini sulla strada di Emmaus. Emmaus significa il luogo dove Cristo spezza se stesso quale Pane della vita, Pane degli angeli, Pane dei pellegrini “panis angelorum, factus cibus viatorum -” (Sequenza della Messa di oggi) che ci dà la forza di riprendere il cammino con Lui, per Lui, in Lui.
Dunque per poter compiere il cammino della vita, che la processione di oggi significa, occorre cibarsi dell’Eucaristia, di questo Pane degli angeli che si è fatto cibo per gli uomini, affamati di verità, di amore e di libertà.
Stupiti della vicinanza grandissima di Cristo, che abita nelle nostre Chiese, che sta nelle nostre mani, che non aspetta altro che dimorare in noi, non ci resta che prendere come cibo Lui, che “ha preso la nostra carne e il nostro sangue perché la Sua carne e il Suo sangue possano essere la nostra vita” (Card. John Henri Newman).
Cerchiamo di avere lo stesso stupore della Vergine Maria che con sguardo rapito contemplava il volto di Cristo a Betlemme come a Gerusalemme. Dalla Culla alla Croce la Madonna non smise di guardare con fede amorosa il volto di Figlio e di stringerlo con pietà tra le sue braccia non appena nato e non appena morto, sia la nostra Madre celeste il modello di amore a cui deve ispirarsi la nostra adorazione eucaristica. In questo modo vivremo “l’Eucaristia non come semplice gesto devozionale, ma come gesto della vita e che influisce sulla vita” (Mons. Livio Melina).

2) Presenti alla PRESENZA.
Il mistero2 eucaristico ha tre aspetti: sacrificio, comunione e presenza. La festa del Corpo del Signore soprattutto celebra un aspetto, quello della presenza reale. Non possiamo e non dobbiamo separare i tre aspetti propri di questo mistero, ma ciò non ci impedisce oggi di riflettere principalmente sul mistero della presenza reale, per essere presenti a questa Presenza, che si dona completamente a noi.
“Ogni qualvolta noi facciamo un atto di fede nella Presenza reale del Cristo noi facciamo un atto che è molto superiore e quello di tutto Israele che ha passato il Mar Rosso. Là si passò dalla terra dell'esilio a una terra di libertà. Io passo da questo mondo al Padre, perché anche Gesù nelle sua Presenza reale, anche come uomo, è nel seno di Dio, cioè è nel mondo divino, questo mondo che è mondo invisibile, che è mondo inaccessibile alla creatura, io passo in questo mondo” (D. Divo Barsotti).
Il 15 ottobre 2015, nell’incontro di Benedetto XVI con i bambini della prima Comunione, uno di loro, Andre fece questa domanda: “La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima Comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell'Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!”. Benedetto XVI rispose: “Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere... Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione... Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: cosi possiamo capire che Gesù è presente. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene”.
Il cuore della risposta di Benedetto XVI colpisce davvero nel segno: “Proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti”. In fondo è il segreto che la volpe rivela al Piccolo Principe del bel racconto di Antoine de Saint-Exupery: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”3.
Poco sopra, ho proposto la Madonna come modello di persona adorante il Presente, il Figlio di Dio che aveva preso la sua carne. Adesso propongo come esempio un’altra Maria: la Maddalena. Presentiamoci al Cristo nel tabernacolo come questa donna si presentò ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola (Lc 10, 39). Certamente era più contenta di vedere Gesù più che di ascoltare le sue parole. Il suo volto santo, il suo sguardo, il suo sorriso, il suo perdono toccavano il cuore di Maria Maddalena. Gesù è lo stesso nel SS.mo Sacramento. Semplicemente mettiamoci ai suoi piedi come Maria, nella gioia di essere con Lui.
C’è anche l’esempio del contadino, parrocchiano del Santo Curato d’Ars. Questo umile, semplice lavoratore della terra, dopo una giornata nei campi stava in chiesa e guardava il tabernacolo, senza aprire bocca. Alla domanda del suo Santo parroco: “Che dici in questo tempo di adorazione?”, il contadino rispose: “Io guardo Lui e Lui guarda me”. Quando Gesù guarda un’anima, Lui le dona la sua somiglianza - diceva Santa Teresa d’Avila – ma occorre che quest’anima non smetta di fissare solamente su di Lui il suo sguardo. Quando San Pietro camminando sulle acque tolse gli occhi da Cristo per guardare la tempesta, cominciò ad affondare. Pietro imparò la lezione e ci insegna anche oggi a tenere fissi gli occhi sul volto del Signore “come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1,19). Se diamo tempo a Cristo nella preghiera e, in particolare, nell’adorazione avremo come dono Cristo stesso che ci tende la mano e ci tira fuori dall’acqua che affoga.
“L’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: ‘Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me’” (Benedetto XVI). L’adorazione del Ss.mo Sacramento è sempre preparazione e ringraziamento della Messa. Essa costituisce il momento per eccellenza nel quale sviluppiamo e facciamo cresce in noi l’offerta di noi stessi, completamente. In effetti, il significato dell’adorazione eucaristica non è solo quello di mettersi in ginocchio davanti alla presenza di Cristo nel sacramento, ma anche di unirci all’offerta pura e perfetta del nostro Salvatore. L’adorazione eucaristica ci dona il desiderio e la forza di metterci senza esitazione nelle mani di Dio, in totale e lieto abbandono in Lui.
Un esempio di tale offerta di sé ci viene dalle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne manifestano con la vita ciò che il loro cuore crede e adora. Esse testimoniano che è possibile vivere eucaristicamente mediante la loro offerta totale a Cristo – Sposo eucaristico. Queste donne testimoniano come ogni consacrazione al Signore deve esprimersi sempre mediante l’offerta completa di sé. “il mistero eucaristico ha anche un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto quest’ultima è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che lei accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione e nutrimento della sua dedizione totale a Cristo”(Benedetto XVI,  Sacramentum Caritatis, 81).
Con un’esistenza che si alimenta del Corpo di Cristo, le donne consacrate mostrano che la verginità non è soltanto capacità di offrirsi completamente in dono a Dio, ma la di accogliere il dono di Dio, la scelta di Dio.
Con la loro vita alimentata dall’Eucaristia, sono testimoni visibile dell’amore di Dio invisibile mostrando nella semplicità della vita quotidiana che la vita umana può diventare eucaristia. Così mostrano che la preghiera diventa vita e la vita diventa preghiera.

1 Questa festa, nella sua forma storica, è sorta nel secolo 13° e si è sviluppata ampiamente nelle Comunità cattoliche in tutto il mondo. Tuttavia l’inizio di questa festa può essere visto già in quella prima “processione” composta dagli apostoli, che circondavano Cristo e nello stesso tempo portandolo nei loro cuori come Eucaristia, uscirono dal cenacolo verso il monte degli Ulivi. Era il Giovedì santo.


2 Per chi crede, “mistero” non è qualcosa di oscuro, in cui nulla c’è da capire. Al contrario, si tratta di qualcosa di così profondo, in cui c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e mai possiamo dire di averne raggiunto il fondo.
3 A. De Saint-Exupery, Il piccolo principe, Milano 1979, p. 98.



Lettura (quasi) Patristica
San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa
(Opuscolo 57, nella festa del Corpo del Signore, lect. 1-4)
 
O prezioso e meraviglioso convito!
L'Unigenito Figlio di Dio, volendoci partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura e si fece uomo per far di noi, da uomini, dèi.
Tutto quello che assunse, lo valorizzò per la nostra salvezza. Offrì infatti a Dio Padre il suo corpo come vittima sull'altare della croce per la nostra riconciliazione. Sparse il suo sangue facendolo valere come prezzo e come lavacro, perché, redenti dalla umiliante schiavitù, fossimo purificati da tutti i peccati.
Perché rimanesse in noi, infine, un costante ricordo di così grande beneficio, lasciò ai suoi fedeli il suo corpo in cibo e il suo sangue come bevanda, sotto le specie del pane e del vino.
O inapprezzabile e meraviglioso convito, che dà ai commensali salvezza e gioia senza fine! Che cosa mai vi può essere di più prezioso? Non ci vengono imbandite le carni dei vitelli e dei capri, come nella legge antica, ma ci viene dato in cibo Cristo, vero Dio. Che cosa di più sublime di questo sacramento?
Nessun sacramento in realtà è più salutare di questo: per sua virtù vengono cancellati i peccati, crescono le buone disposizioni, e la mente viene arricchita di tutti i carismi spirituali. Nella Chiesa l'Eucaristia viene offerta per i vivi e per i morti, perché giovi a tutti, essendo stata istituita per la salvezza di tutti.
Nessuno infine può esprimere la soavità di questo sacramento. Per mezzo di esso si gusta la dolcezza spirituale nella sua stessa fonte e si fa memoria di quella altissima carità, che Cristo ha dimostrato nella sua passione.
Egli istituì l'Eucaristia nell'ultima cena, quando, celebrata la Pasqua con i suoi discepoli, stava per passare dal mondo al Padre.
L'Eucaristia è il memoriale della passione, il compimento delle figure dell'Antica Alleanza, la più grande di tutte le meraviglie operate dal Cristo, il mirabile documento del suo amore immenso per gli uomini.