Rito
Romano
Is
50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
Rito
Ambrosiano
Is
52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12, 1b-3; Gv 11, 55 -12, 11
1)
Rami di palma
per fare
memoria, non
spettacolo.
La
liturgia di oggi comincia con la processione delle palme. Le persone
che portano questi rami di palma non sono le comparse di una
spettacolo folcloristico, ma sono fedeli di Gesù che fanno memoria
di Lui il quale non resta nel sepolcro dopo la sconfitta del Venerdì
santo ma esce vittorioso dal sepolcro il giorno di Pasqua. Il trionfo
di oggi è il preludio di quello di Pasqua, in cui celebriamo il
trionfo della misericordia. La croce non portò Cristo alla morte, ma
alla vita.
Iniziamo
questa settimana santa facendo memoria della grandezza dell'amore
appassionato di Dio per l'uomo, che per consegnarsi per amore nostro
ai suoi nemici decide di entrare in Gerusalemme, montando una
cavalcatura umile quale è l'asino. Per il suo trionfo Gesù prende
l’animale della semplice gente comune della campagna, e per di più
si tratta di un asino che non gli appartiene, ma che Egli chiede in
prestito per questa occasione. Non arriva in una sfarzosa carrozza
regale, non a cavallo come i Re del mondo, ma su un asino preso in
prestito.
Oggi
quell'asino, che porta Gesù nel mondo, che lo rivela, che parla di
lui, siamo noi, come diceva il defunto Cardinale di Parigi Lustiger,
e questa è una bella immagine perché ci ricorda che Gesù non vuole
essere portato da cavalcature imponenti, ma piccole e umili.
Gesù
è un Re “povero” e, quindi, è un Re di pace, che ha scelto la
Croce come trono. E’ un Re coraggioso perché entra in Gerusalemme
sapendo che va incontro alla Crocifissione, per far maturare i suoi
frutti solamente al di là della Croce, passando attraverso essa per
entrare nella vita eterna: “Se il chicco
di grano, caduto in
terra, non muore, rimane
solo; se invece muore,
produce molto frutto.
Chi ama la propria
vita, la perde e
chi odia la propria
vita in questo mondo,
la conserverà per la
vita eterna” (Gv 12, 24-25).
La
croce che è simbolo di morte, la croce che è simbolo di
maledizione, che è l'espressione della peggiore delle condanne,
diviene con Cristo e per Cristo lo strumento di un’elevazione di
tutta l’umanità e di tutto quanto l’universo nella gloria di Dio
(cfr Sant'Ignazio d'Antiochia).
Questo
è il paradosso cristiano: chi orienta se stesso verso il Regno
eterno seguendo le indicazioni di Cristo Gesù, uomo mite,
misericordioso, pacificatore, puro di cuore, assetato della giustizia
di Dio costui è in grado di cambiare la storia del mondo in modo più
profondo e più efficace dei detentori del potere, per i quali niente
è più importante del domino.
Ne
consegue che la Croce è necessaria. Come cristiani noi non dobbiamo
solo indirizzare il nostro sguardo al Regno permanente, al di là
della morte, e predicarlo. Insieme con Cristo dobbiamo vivere la
necessità della Croce per noi, per completare, nel nostro corpo, per
la Chiesa e per il mondo ciò che ancora, in noi, manca alla Passione
di Cristo (cfr Col 1, 24).
Tutti quelli che soffrono: i malati, gli inguaribili, i prigionieri,
i torturati, gli oppressi e quelli che sono poveri, senza speranza,
devono sapere che essi nella loro situazione non sono condannati
all’impotenza. Se uniscono la loro difficile speranza o la dolorosa
disperazione alla speranza del Figlio di Dio in Croce, concorrono
alla costruzione del vero Regno di Dio più attivamente di molti
“architetti” della felicità terrena. Certo, gli uomini e ancor
più i cristiani devono far di tutto per alleviare la sofferenza
fisica e spirituale dell’umanità, ma non devono dimenticare le
Beatitudini di Cristo, che in Croce Lui non smentisce anzi le
conferma: “Beati voi poveri,
perché vostro è il
regno di Dio.
Beati
voi che ora avete
fame,
perché sarete
saziati.
Beati voi che
ora piangete,
perché
riderete.
Beati voi
quando gli uomini vi
odieranno e quando vi
metteranno al bando e
v’insulteranno e
respingeranno il vostro
nome come scellerato, a
causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel
giorno ed esultate, perché,
ecco, la vostra ricompensa
è grande nei cieli.”(Lc
6, 20 – 24).
2)
Gesù è
veramente il
Figlio di
Dio.
Il
Redentore dunque entra oggi in Gerusalemme, facendo festa per
rivelare sulla Croce la grandezza dell'amore di Dio per l'uomo. Un
festa che avrà il suo vertice il giorno di Pasqua. Giorno in cui
mostrerà in modo radioso il fatto che Lui è il Figlio di Dio, che
ci ama di amore infinito. Come nelle tentazioni del deserto (Lc
4,3.6) così sulla Croce a chi diceva: «Se sei Figlio di Dio»
(27,40.43.44) è in gioco la filiazione divina di Gesù. Una
filiazione negata e svelata, e che proprio nella ragione per cui è
negata mostra la sua novità. Tutti, anche coloro che lo negano,
riconoscono che Gesù ha preteso una filiazione che si è espressa
nella totale consegna alla volontà del Padre, non in concorrenza con
essa. Gli stessi sacerdoti dicono, citando il Salmo 22: «Ha
confidato in Dio» (Mt 27,43). Il verbo greco adoperato da Matteo
dice l'obbedienza fiduciosa, l'abbandono, l'atteggiamento di chi pone
la propria vita nelle mani di un altro e il tempo perfetto dice, poi,
la stabilità: Gesù ha sempre, in tutta la sua vita, posto la
propria fiducia in Dio Padre.
Porre
la propria vita nelle mani di un altro è la manifestazione più alta
della dipendenza. Così Gesù ha espresso la sua coscienza di essere
Figlio: non nella ricerca e nell'affermazione di una grandezza
concentrata su se stesso, rivendicata in concorrenza col Padre, ma in
una grandezza tutta sospesa all'ascolto del Padre, tutta rivolta al
Padre. La filiazione di Gesù rinvia al Padre.
I
sacerdoti dunque, senza volerlo, manifestano la profonda verità di
Gesù. E mostrano intuizione legando insieme la sua fiducia nel Padre
e la sua pretesa di essere Figlio (Mt 27,43). Sbagliando però il
modo di guardare la Croce.
Per
loro, come per noi, è il momento in cui il Padre deve rispondere
alla fiducia del Figlio, venendo in suo soccorso. Invece è il
momento in cui il Figlio mostra tutta la sua fiducia nel Padre. Il
Padre risponderà, ma dopo.
Gesù
muore sulla Croce assaporando sino in fondo l’abbandono. Ma appena
morto la prospettiva si rovescia. La luce scaturisce solo dopo che le
tenebre divennero più fitte (Mt 27,45).
Occorre
essere veramente santi perché la Croce non sia scandalo e assurdità
Non
è facile accettare che Dio salvi l'umanità, si manifesti Salvatore
degli uomini proprio nel totale fallimento umano, proprio nella
suprema umiliazione, nell'abbandono dei discepoli, nell'oltraggio da
parte di coloro che Egli stesso aveva beneficato e nello stesso
abbandono del Padre.
Ci
vuole veramente una grande fede perché noi possiamo riconoscere il
Figlio di Dio in Colui che sopra la Croce grida: “Dio
mio, Dio mio perché
mi hai abbandonato?”. Ci
vuole una grande fede per riconoscere che proprio quest’Uomo è
Colui nel quale riposa ogni nostra speranza: ogni speranza dell'uomo
in uno che grida all'abbandono di Dio.
Due
segni verso la fine del racconto della passione secondo San Mattero
testimoniano che la morte di Gesù è salvezza. Il primo è il velo
del tempio che si lacera (Mt 27,51), il secondo è il
riconoscimento della filiazione divina di Gesù da parte dei soldati
pagani (Mt 27,54).
Il
giudizio dei passanti e dei sacerdoti ebrei era, dunque, falso. La
lacerazione del velo del tempio è una risposta alla derisione dei
passanti: il tempio è davvero finito e una prospettiva nuova si
apre. E il riconoscimento dei soldati è una risposta alle derisioni
dei sacerdoti ebrei
Gesù
è davvero il Figlio di Dio - proprio perché è rimasto sulla Croce
anziché scendere - e mentre i giudei lo rifiutano, i pagani lo
riconoscono. Noi pagani convertiti possiamo vedere ciò che gli altri
non vedono se il cuore è puro.
E
un cuore puro è possibile non solamente quando sentiamo proclamare:
«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio», e pensiamo
istintivamente alla virtù della purezza. Questo rimando è
innegabile: c’è una «purezza di cuore» che si esprime nella
castità dei pensieri, degli sguardi e dei gesti, nel modo di vivere
la nostra sessualità.
Ma
il riferimento più diretto della Beatitudine dei «puri di cuore»
non è all’impurità, bensì all’ipocrisia che è fare della vita
un teatro in cui si recita; è indossare una maschera, cessare di
essere persona e diventare personaggio. Coltivare l’apparenza più
che il cuore, significa dare più importanza all’uomo che a Dio.
L’ipocrisia è dunque essenzialmente mancanza di fede; ma è anche
mancanza di carità verso il prossimo perché non riconosce all’altro
una dignità.
Secondo
il Vangelo quello che decide della purezza o meno di una azione è
l’intenzione: cioè se è fatta per essere visti dagli uomini o per
piacere a Dio (cf Mt 6,2-6). Il puro di cuore in ogni sua
parola, gesto e scelta lascia trasparire se stesso in modo del tutto
sincero, vero, autentico. Il puro di cuore è schietto, leale, retto,
non ambiguo, non inquinato. Si presenta, non si rappresenta! Non
prende a prestito la personalità a secondo delle circostanze. “È
puro un cuore che
non finge e non
si macchia con menzogna
e ipocrisia. Un cuore
che rimane trasparente come
acqua sorgiva, perché non
conosce ; un cuore
il cui amore è
vero e non è
soltanto passione di un
momento” (Benedetto XVI). Come le Vergini consacrate ce
lo testimoniano ogni giorno nell’abbandono totale a Cristo Sposo.
Come lo afferma il Vescovo durante la preghiera di consacrazione
delle Vergini consacrate : « Signore, Dio
nostro, tu che vuoi
dimorare nell’uomo prendi
dimora in color che
ti sono consacrati, tu
che ami i cuori
liberi e puri »
(Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).
Lettura
Patristica
Sant’Agostino
di’Ippona
DALLE
“ESPOSIZIONI SUI SALMI” (En.
in Ps. 61, 22)
Quanti
beni ci ha recati la passione di Cristo!
Sì,
fratelli, era necessario il sangue del giusto perché fosse cassata
la sentenza che condannava i peccatori. Era a noi necessario un
esempio di pazienza e di umiltà; era necessario il segno della croce
per sconfiggere il diavolo e i suoi angeli (cf. Col 2, 14.
15). La passione del Signore nostro era a noi necessaria; infatti,
attraverso la passione del Signore, è stato riscattato il mondo.
Quanti beni ci ha arrecati la passione del Signore! Eppure la
passione di questo giusto non si sarebbe compiuta se non ci fossero
stati gli iniqui che uccisero il Signore. E allora? Forse che il bene
che a noi è derivato dalla passione del Signore lo si deve
attribuire agli empi che uccisero il Cristo? Assolutamente no. Essi
vollero uccidere, Dio lo permise. Essi sarebbero stati colpevoli
anche se ne avessero avuto solo l'intenzione; quanto a Dio, però,
egli non avrebbe permesso il delitto se non fosse stato giusto.
Che
male fu per il Cristo l'essere messo a morte? Malvagi furono certo
quelli che vollero compiere il male; ma niente di male capitò a
colui che essi tormentavano. Venne uccisa una carne mortale, ma con
la morte venne uccisa la morte, e a noi venne offerta una
testimonianza di pazienza e presentata una prova anticipata, come un
modello, della nostra resurrezione. Quanti e quali benefici
derivarono al giusto attraverso il male compiuto dall'ingiusto!
Questa è la grandezza di Dio: essere autore del bene che tu fai e
saper ricavare il bene anche dal tuo male. Non stupirti, dunque, se
Dio permette il male. Lo permette per un suo giudizio; lo permette
entro una certa misura, numero e peso. Presso di lui non c'è
ingiustizia. Quanto a te, vedi di appartenere soltanto a lui, riponi
in lui la tua speranza; sia lui il tuo soccorso, la tua salvezza; in
lui sia il tuo luogo sicuro, la torre della tua fortezza. Sia lui il
tuo rifugio, e vedrai che non permetterà che tu venga tentato oltre
le tue capacità (cf. 1 Cor 10, 13); anzi, con
la tentazione ti darà il mezzo per uscire vittorioso dalla prova. È
infatti segno della sua potenza il permettere che tu subisca la
tentazione; come è segno della sua misericordia il non consentire
che ti sopravvengano prove più grandi di quanto tu possa tollerare.
Di Dio infatti è la potenza, e tua, Signore, è la misericordia; tu
renderai a ciascuno secondo le sue opere.
IN
BREVE...
Si celebra la passione del Signore: è tempo di
gemere, tempo di piangere, tempo di confessare e di pregare. Ma chi
di noi è capace di versare lacrime secondo la grandezza di tanto
dolore? (En. in Ps. 21, 1)
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