Rito
romano
XXXIII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 17 novembre 2013
Ml
3, 19-20; Sal 97; 2 Ts 3, 7-12; Lc 21, 5-19
La
perseveranza è l’attesa operosa di Cristo.
Rito
ambrosiano
I
Domenica di Avvento1
– Anno A
Is
51, 4-8; Sal 49; 2Ts 2,1-14; Mt 24,1-31
Avvento:
tempo di attesa della tenerezza di Dio.
1)
Il problema è capire cosa fare adesso, non sapere cosa succedere
alla fine.
Leggendo
il brano del Vangelo di Luca di questa domenica (21,5-19) è facile
pensare esclusivamente, o quasi, agli avvenimenti della fine del
mondo che chiuderanno la storia umana: la fine del mondo, la vittoria
del Signore, il giudizio ultimo. Invece lo scopo di questo dialogo di
Gesù non è quello di soddisfare la curiosità di chi aspira a
conoscere come sarà questo “al di là” del tempo e dello spazio,
ma di illuminare il presente. L’ascolto di queste parole permette
al discepolo di Cristo di “vedere” il mondo - che passa e finisce
- come “segno” di una realtà che rimane per sempre. Gesù, la
sua persona, la sua parola, sono la chiave interpretativa di tutta la
realtà e della storia: Egli è il Figlio di Dio che si è fatto
uomo, è la Parola incarnata, è la fragilità che passa e la vita
eterna che rimane, Egli è "il
nuovo Tempio,
2
in nuovo luogo dove si incontra Dio”
(Benedetto XVI). è l’Amore che si rivela come passione e
compassione sulla Croce.
La
Croce, che grazie a Cristo non è più uno squallida legno di morte,
ma uno splendido trono, che irradia l’Amore. La Croce di Gesù è
il momento più intenso della rivelazione del senso di tutto ciò che
esiste: è il punto più drammatico della oscurità, della fragilità,
dell'assurdo non senso e pure è il momento della luce più intensa,
della vita che risorge, che vince al di là della morte. La Croce di
Gesù è la rivelazione che il senso finale di tutto è l'Amore:
l'amore che si annienta, che muore per diventare veramente amore, che
si svuota di sé per accogliere il dono più grande.
L'Amore
è il senso più vero di questo mondo che passa e che muore, per
poter entrare nell'infinito dell'Amore che non passa più. Così, non
sappiamo come sarà l’“oltre”, l’“al di là”, ma sappiamo
che sarà la pienezza dell'amore che è già la vita del mondo
nell’“al di qua”.
Gesù
invita i suoi discepoli (vale a dire noi) a non attaccarsi alle cose
che passano, a non farsi illusioni, a non crearsi idoli, ma a vivere
intensamente l’“oggi” che passa incominciando a gustare l'amore
che non passerà mai, e che diventerà sempre più grande. Vivere
l'amore, liberare, dilatare gli spazi dell'amore, è il messaggio di
Gesù attraverso il suo discorso escatologico3:
solo l'Amore rimane per sempre.
E’
per questo che il Redentore invita a “camminare nella carità”
(espressione usata per indicare gli Esercizi spirituali prima fatti e
poi scritti da S. Ignazio di Loyola e ripresa da Papa Francesco)
Ma
non dimentichiamo
che la carità non è solo fare la carità ai poveri dando loro soldi
o altri aiuti materiali, ma è crescere rivestiti della speranza
cristiana nel vincolo dell’amore fraterno e nella fede salda (cfr 1
Gv
2,14). La
via
amoris
dolorosa
(cioè il cammino dell’amore nel dono completo di sé) che è la
Via Crucis,
è per il cristiano quella strada che lo porta alla piena
configurazione nel Cristo. A questo riguardo Santa Chiara disse di
San Francesco d’Assisi innamorato di Cristo: “Lo
amò fino ad assomigliarGli fisicamente”
e si chiese: “Potrò
anch’io fare così?”.
La
vita di questa Santa Suora mostra che è possibile assomigliare a
Cristo, se ci si mette alla sua scuola di carità, se si cammina
costantemente dietro l’Amato tanto atteso. Qui intendo la parola
attesa nel senso originario di “tendere a”, “essere alla
ricerca di”.
Quindi
si “attende” il
Signore:
- cercandolo. Sulla ricerca di Dio è molto chiaro un apoftegma4 dei Padri del deserto che dice: “Un uomo alla ricerca di Dio chiese a un cristiano: “Come posso trovare Dio?”. Il cristiano replicò: “Ora te lo mostro”. Lo portò sulla riva del mare e immerse la faccia dell’altro nell’acqua per tre volte. Poi gli chiese: “Cosa desideravi più di ogni altra cosa quando la tua faccia era nell’acqua?”. “L’aria”, replicò l’uomo che cercava Dio. “Quando desidererai Dio come hai desiderato l’aria, lo troverai”, disse il cristiano”.
- Perseverando nel suo amore. “Come l’amore è forte nelle grandi difficoltà, così è perseverante nella grigia, noiosa vita quotidiana. Esso sa che per piacere a Dio una cosa è necessaria: Fare con grande amore le cose più piccole.” (S. Suor Faustina Kowalska).
- testimoniando la sua verità, e non fantasticando sulla vicinanza della fine del mondo.
In
questa testimonianza ci sono di esempio le Vergini Consacrate. In
effetti la consacrazione verginale fa crescere in loro un
atteggiamento di fiducia nei confronti del mondo, dell’umanità e
uno stile di ascolto della storia e delle problematiche umane
congiungendola, per consuetudini di lavoro e di vita, ad ogni uomo e
donna per cui si fanno compagne di viaggio, strumenti di comunione e
testimoni di amore.
Questa
donne consacrate partecipano all’opera creativa di Dio attraverso
il lavoro che permette loro di provvedere al proprio sostentamento e
di aprirsi alla condivisione dei beni.
Inoltre
con la loro vita danno voce all’invocazione dello Spirito e della
Chiesa: “Maranathà, Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20), tenendo
viva un’attesa vigilante e profetica.5
Infine
le vergini consacrate richiamano il desiderio di Dio agli uomini e
alle donne del proprio tempo e svelano una modalità con cui Dio oggi
si fa presente nella storia e la redime.
1
Il tempo d'Avvento
Ambrosiano comincia dai primi vespri
della domenica che
segue immediatamente l’11
novembre, festa
di San
Martino, ragione per la quale nella tradizione ambrosiana prende
anche il nome di Quaresima
di San Martino.
Non è formato da quattro
settimane,
come nel Rito
Romano, ma da sei
settimane. Termina con le feriae
de Exceptato
("ferie dell'Accolto") che costituiscono in sostanza la
novena di
Natale. La domenica
precedente il Natale
è detta Domenica
dell'Incarnazione;
in essa il sacerdote
veste paramenti
bianchi anziché
morelli. In terra ambrosiana la benedizione delle case è fatta
durante questo periodo, mentre in terra “romana” si fa nel
periodo pasquale.
2
Etimologicamente, la parola “TEMPIO”
discende dal latino “TEMPLUM”, a sua volta derivato da “TEM-LO”,
un antico termine di radice indoeuropea che significa “tagliare”.
“TEM-LO” è affine al greco “TéMNO”, avente identico
significato, da cui
“TéMENOS”, che significa “recinto sacro”. In sintesi,
l’etimologia della parola “TEMPIO” sta a designare un’area,
una porzione di spazio ritagliata dal mondo, recintata e destinata
ad ospitare una presenza sovrumana, un luogo speciale consacrato al
culto di Dio.
Il
Tempio è la casa di Dio. Abitando in mezzo al suo popolo, Dio si
rende presente ai suoi fedeli. Nel mondo bibliico il tempio occupa
il centro della vita religiosa e nazionale e gode di una forte
carica simbolica. Dunque, la fine del Tempio di Gerusalemme, luogo
di Dio e principio di vita, è simbolo della fine del mondo.
Il
Tempio per il Cristiano è il Corpo di Cristo ed è anche la Chiesa,
l’assemblea dei fedeli. Il
termine Chiesa alla lingua italiana e francese dal latino ecclesĭa,
che a sua volta viene dal greco classico ἐκκλησία
(ekklēsía).
In greco classico, per ἐκκλησία si intendeva un'assemblea
politica, militare o civile. La parole inglese “church”
viene dall’antico inglese cirice,
derivante dal germanico “kirik”,
che a sua volta viene dal Greco κυριακή kuriakē,
che vuol dire “del Signore” " (forma possessiva di κύριος
kurios
", cioè “lord”.
L'espressione
è ripresa nelle parti più recenti della Bibbia detta dei Settanta
(la versione in greco della Bibbia) per tradurre i termini ebraici
qāhāl
e ‛ēdāh,
con il senso di "adunanza" del popolo ebraico, adunanza
religiosa e politica allo stesso tempo.
È dunque nella Bibbia dei Settanta che il termine ἐκκλησία
inizia ad assumere in greco un significato specificamente
"cultuale e giuridico". Gli scrittori del Nuovo
Testamento non hanno ricavato questo termine dall'uso che se ne
faceva in Grecia,
ma dal testo biblico dei Settanta.
3
Escatologia,
con l’aggettivo escatologico, vuol dire discorso (logos)
sulle cose ultime (eschaton),
quindi sulla morte e sulla vita eterna. Circa dimensione
escatologica della Chiesa si può sinteticamente dire che la
Chiesa contiene in germe ciò che, attraverso il passaggio
degli uomini e del cosmo, raggiungerà la piena e definitiva
maturazione nella vita eterna. La visione beatificante del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo sarà il premio di chi, nella
ferialità della vita quotidiana, spesso intrisa di sofferenza,
ha cercato di accogliere, vivendola, la Parola di Dio.
Nella
tradizione
catechistica
della Chiesa si utilizza il termine “novissimi”
(dal latino
novissima,
“le cose ultime”) per indicare quattro
parole chiave del destino finale dell'uomo:
- Morte: ultima cosa che accade in questo mondo. Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21 ). “Non muoio, entro nella vita” (Santa Teresa del Bambino Gesù).
- Giudizio di Dio: l'ultimo giudizio che ognuno dovrà sostenere.
- Inferno: lo “stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1031);
4
Apoftegma
(o apotegma,
in greco αποφθεγμα) è un sostantivo di origine greca
il cui significato va rintracciato in relazione ai verbi
apophthénghesthai,
che significa "enunciare una sentenza", o apophtheggomai
che significa "enunciare una risposta in forma definitiva".
La parola, quindi, assume il significato di "detto",
"sentenza", "massima" e si usa per una frase o
sentenza di tipo aforistico
che reca in estrema sintesi una verità profonda ed al contempo
stringente. In particolare l'apoftegma ha dei tratti in comune con
l'aneddoto, con la sentenza e con il proverbio, pur non essendo
completamente riconducibile ad alcuno di essi.
5
A questo proposito si veda l’articolo di Maryvonne Gasse (o.v.) La
femme en ligne de front. Un
combat eschatologique,
pp. 395-398 du livre “L’Ordre
des Vierges – Une vocation ancienne et nouvelle – Don du
Seigneur à son Eglise”,
Imprimerie Saint Josephe 2013, pp 463.
Lettura
Patristica
Riflessione
attribuita a Sant’Agostino di Ippona
Se
mi ami non piangere!
Se conosci il mistero immenso del cielo dove
ora vivo,
se potessi vedere e sentire quello che io sento e vedo
in
questi orizzonti senza fine
e in questa luce che tutto investe e
penetra,
non piangere se mi ami!
Sono
ormai assorbito dall'incanto di Dio,
dalle sue espressioni di
sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo sono così piccole e
meschine al confronto!
Mi è rimasto l'affetto per te,
una
tenerezza che non hai mai conosciuto.
Ci
siamo amati e conosciuti nel tempo:
ma tutto era allora così
fugace, limitato!
Io vivo nella serena e gioiosa
attesa del
tuo arrivo fra noi:
tu pensami così;
nelle tue battaglie pensa a
questa meravigliosa casa,
dove non esiste la morte, e dove ci
disseteremo insieme,
nel trasporto più puro e intenso, alla fonte
inestinguibile
della gioia e dell'amore!
Non piangere più se
veramente mi ami! Se mi ami non piangere!
Se conosci il mistero
immenso del cielo dove ora vivo,
se potessi vedere e sentire quello
che io sento e vedo
in questi orizzonti senza fine
e in questa
luce che tutto investe e penetra,
non piangere se mi ami!
Sono
ormai assorbito dall'incanto di Dio,
dalle sue espressioni di
sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo sono così piccole e
meschine al confronto!
Mi è rimasto l'affetto per te,
una
tenerezza che non hai mai conosciuto.
Ci siamo amati e conosciuti
nel tempo:
ma tutto era allora così fugace, limitato!
Io vivo
nella serena e gioiosa
attesa del tuo arrivo fra noi:
tu pensami
così;
nelle tue battaglie pensa a questa meravigliosa casa,
dove
non esiste la morte, e dove ci disseteremo insieme,
nel trasporto
più puro e intenso, alla fonte inestinguibile
della gioia e
dell'amore!
Non piangere più se veramente mi ami!
Dalle
“Esposizioni sui Salmi” di Sant’Agostino d’Ippona (En.
in ps. 120, 3)
Vigili
ed operosi in attesa della venuta di Cristo
Siete certamente persuasi che
l’ora del Signore
viene come un ladro di notte. Se il padrone di casa sapesse l’ora
in cui il ladro viene, in verità vi dico, non permetterebbe certo
che la parete della sua casa venisse sfondata (Mt
24, 43). Voi osservate: Ma se la sua ora viene come il ladro, chi
potrà sapere quando verrà? Se non sai a che ora viene, sta’
sempre desto affinché, non sapendo l’ora in cui viene, ti trovi
sempre pronto alla sua venuta. Anzi, il non conoscere l’ora della
sua venuta mira forse proprio a questo: a farti stare sempre pronto.
Se quel padrone di casa fu sorpreso dal giungere improvviso dell’ora,
fu perché si trattava – almeno così è presentato – di un
padrone superbo. Non voler essere un padrone e l’ora non ti
prenderà alla sprovvista. Ma cosa dovrò essere?, chiederai. Una
persona come quella descritta nel salmo: Io
sono povero e dolente
(Sal 68, 30). Se sarai povero e dolente, non sarai un padrone che
l’ora, venendo repentina, sorprenderà e repentinamente abbatterà.
Padroni di questo tipo sono tutti coloro che, facendo assegnamento su
se stessi e le proprie cupidigie, diventano gonfi d’orgoglio, anche
se poi finiscono con lo squagliarsi nelle delizie di questo mondo.
Essi si innalzano a danno degli umili e maltrattano i santi, che
hanno compreso essere stretta la via per la quale si va alla vita (Mt
7, 14). Gente siffatta verrà colta di sorpresa da quell’ora,
somigliando nella loro vita a quei tali che vivevano all’epoca di
Noè. Ne avete udita or ora la descrizione fatta dal Vangelo. Dice:
La venuta del Figlio
dell’uomo sarà come ai giorni di Noè. Mangiavano, bevevano,
prendevano moglie e prendevano marito, piantavano vigne, costruivano
case, fino a che Noè non entrò nell’arca e venne il diluvio che
li disperse tutti (Mt
24, 37-39; Lc 17, 26-27). Che dire? Andranno davvero tutti in rovina
coloro che fanno queste cose? Coloro che si maritano o prendono
moglie? Coloro che piantano vigne o costruiscono case? No, ma vi
andranno coloro che tali cose sopravvalutano, che le preferiscono a
Dio e per esse sono disposti a offendere disinvoltamente Dio.
Diametralmente opposti sono coloro che di tutte queste cose o non si
servono per nulla o se ne servono come persone non asservite ad esse.
Fanno assegnamento più sull’Autore dei doni ricevuti che non sulle
cose ricevute in dono; e, quanto alle cose in se stesse, vi vedono un
tratto della sua misericordia che viene a consolarli. Per cui non si
appagano dei doni per non precipitare lontano dal Donatore. Persone
di questo genere non saranno prese alla sprovvista dal giungere di
quell’ora, che sarà come il giungere di un ladro. A loro diceva
l’Apostolo: Voi non
siete nelle tenebre, cosicché quel giorno vi abbia a sorprendere
come un ladro, poiché siete tutti figli della luce e figli del
giorno (1 Ts 5, 4-5).
Capitolo
41 del
Dialogo
della divina Provvidenza
di
Santa Caterina da Siena
“Anche
l’anima giusta che finisce la vita in affetto di carità ed è
legata a Dio nell’amore, non può crescere in virtù, poiché viene
a mancare il tempo di quaggiù, ma può sempre amare con quella
dilezione che la porta a Me, e con tale misura le viene misurato il
premio. Sempre mi desidera e sempre mi ama, onde il suo desiderio non
è vuoto; ma sebbene abbia fame, è saziato, e saziato ha fame; e
tuttavia è lungi il fastidio della sazietà, come è lungi la pena
della fame.
Nell’amore
i beati godono dell’eterna mia visione, partecipando ognuno,
secondo la sua misura, di quel bene, che io ho in me medesimo. Con
quella misura d’amore con la quale sono venuti a me, con essa viene
loro misurato. Essi sono rimasti nella mia carità ed in quella del
prossimo; sono stati insieme uniti nella carità comune ed in quella
particolare, che esce pure da una medesima carità.
Godono ed
esultano, partecipando l’uno del bene dell’altro con l’affetto
della carità, oltre al bene universale, che essi hanno tutti
insieme. Godono ed esultano cogli angeli, coi quali sono collocati i
santi, secondo le diverse e varie virtù, che principalmente ebbero
nel mondo, essendo tutti legati nel legame della carità. Hanno poi
una partecipazione singolare di bene con coloro coi quali si amavano
strettamente d’amore speciale nel mondo, col quale amore crescevano
in grazia, aumentando la virtù. L’uno era cagione all’altro di
manifestare la gloria e lode del mio nome, in sé e nel prossimo.
Nella vita eterna non hanno perduto questo affetto, ma l’hanno
aggiunto al bene generale, partecipando più strettamente e con più
abbondanza l’uno del bene dell’altro.
Non vorrei
però che tu credessi che questo bene particolare, di cui ti ho
parlato, l’avessero solo per sé: non è così, ma esso è
partecipato da tutti quanti i gustatori, che sono i cittadini del
cielo, i miei figli diletti, e da tutte le creature angeliche. Quando
l’anima giunge a vita eterna, tutti partecipano del bene di
quell’anima, e l’anima del bene loro. Non è che il vaso di
ciascuno possa crescere, né che abbia bisogno di empirsi, poiché è
pieno e quindi non può crescere; ma hanno un’esultanza, una
giocondità, un giubilo, un’allegrezza, che si ravvivano in loro,
per quanto sono venuti a conoscere di quell’anima. Vedono che per
mia misericordia ella è tolta alla terra con la pienezza della
grazia, e così esultano in me per il bene che quell’anima ha
ricevuto dalla mia bontà.
E
quell’anima gode pure in me, nelle altre anime, e negli spiriti
beati, vedendo e gustando in loro la bellezza e dolcezza della
mia carità. I loro desideri gridano sempre dinanzi a me per la
salvezza di tutto quanto il mondo. Poiché la loro vita finì nella
carità dei prossimo, non hanno lasciata questa carità, ma sono
passati con essa per la porta del mio Unigenito Figliuolo, nel
modo che ti dirò più sotto. Vedi dunque che essi restano con quel
legame dell’amore, col quale finì la loro vita: esso resta e dura
per tutta l’eternità.
Sono tanto
conformi alla mia volontà, che non possono volere se non quello che
io voglio; poiché il loro libero arbitrio è legato per
siffatto modo col legame della carità che, quando viene meno il
tempo di questa vita alla creatura, che ha in sé ragione e che muore
in stato di grazia, essa non può più peccare. Ed è tanto unita la
sua volontà alla mia che, se il padre o la madre vedessero il
figliolo nell’inferno, o il figlio ci vedesse la madre, non se ne
curerebbero; anzi sono contenti di vederli puniti come miei nemici.
In nessuna cosa si scordano di me; i loro desideri sono appagati.
Desiderio dei beati è di vedere trionfare il mio onore in voi
viandanti, che siete pellegrini in questa terra e sempre correte
verso il termine della morte. Nel desiderio del mio onore bramano la
vostra salute, e perciò sempre mi pregano per voi. Un tale desiderio
è sempre adempiuto per parte mia, se voi ignoranti non recalcitraste
contro la mia misericordia.
Hanno
ancora il desiderio di riavere la dote della loro anima, che è il
corpo; questo desiderio non li affligge al presente, ma godono per la
certezza che hanno di vederlo appagato: non li affligge, perché,
sebbene ancora non abbiano il corpo, tuttavia non manca loro la
beatitudine, e perciò non risentono pena. Non pensare che la
beatitudine del corpo, dopo la resurrezione, dia maggiore
beatitudine all’anima. Se fosse così, ne verrebbe che i beati
avrebbero una beatitudine imperfetta, fino a che non riprendessero il
corpo; cosa impossibile, perché in loro non manca perfezione alcuna.
Non è il corpo che dia beatitudine all’anima, ma sarà l’anima a
dare beatitudine al corpo; darà della sua abbondanza, rivestendo nel
dì del giudizio la propria carne, che aveva lasciato in terra.
Come
l’anima è resa immortale, ferma e stabilita in me, così il corpo
in quella unione diventa immortale; perduta la gravezza della
materia, diviene sottile e leggero. Sappi che il corpo glorificato
passerebbe di mezzo a un muro. Né il fuoco né l’acqua potrebbero
nuocergli, non per virtù sua ma per virtù dell’anima, la quale
virtù è mia, ed è stata data a lei per grazia e per quell’amore
ineffabile col quale la creai a mia immagine e somiglianza. L’occhio
del tuo intelletto non è sufficiente a vedere, né l’orecchio
a udire, né la lingua a narrare, né il cuore a pensare, il bene
loro.
Oh, quanto
diletto provano nel vedere me, che sono ogni bene! Oh, quanto diletto
avranno, allorché il loro corpo sarà glorificato! E sebbene
manchino di questo bene fino al giorno del giudizio universale, non
hanno pena, perché l’anima è piena di felicità in se stessa. Una
tale beatitudine sarà poi partecipata al corpo, come ti ho spiegato.
Ti parlavo
del bene, che ritrarrebbe il corpo glorificato nell’Umanità
glorificata del mio Figlio Unigenito, la quale dà a voi certezza
della vostra resurrezione. Esultano i beati nelle sue piaghe, che
sono rimaste fresche; sono conservate nel suo corpo le cicatrici, che
continuamente gridano a me, sommo ed eterno Padre, misericordia.
Tutti si conformano a lui in gaudio e giocondità, occhio con occhio,
mano con mano, e con tutto il corpo del dolce Verbo, mio Figlio.
Stando in me, starete in lui, poiché egli è una cosa sola con me;
ma l’occhio del vostro corpo si diletterà nell’Umanità
glorificata del Verbo Unigenito mio Figlio. Perché questo? Perché
la loro vita finì nella dilezione della mia carità, e perciò dura
loro eternamente.
Non possono
guadagnare alcun nuovo bene, ma si godono quello che si sono portato,
non potendo fare alcun atto meritorio, perché solo in vita si merita
e si pecca, secondo che piace al libero arbitrio della vostra
volontà. Essi non aspettano con timore, ma con allegrezza, il
giudizio divino; e la faccia del mio Figlio non parrà loro
terribile, né piena d’odio, perché sono morti nella carità,
nella dilezione di me e nella benevolenza del prossimo. Così tu
comprendi come la mutazione della faccia non sarà in lui, quando
verrà a giudicare con la mia maestà, ma in coloro che saranno
giudicati da lui. Ai dannati apparirà con odio e con giustizia; ai
salvati, con amore e misericordia.”
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