Rito romano
XV Domenica del Tempo Ordinario –
Anno C - 14 luglio 2013
Dt 30, 10-14; Sal 18; Col 1,
15-20; Lc 10, 25-37
Rito
ambrosiano
VIII
Domenica di Pentecoste
1Sam
8,1-22a; Sal 88; 1Tm 2,1-8; Mt 22, 15-22
Dare
a Cesare e a Dio.
1) Quattro personaggi e un luogo da individuare.
All’ascolto
o lettura della parabola del Samaritano, nascono subito alcune
domande:
Il
sacerdote chi è? Sono io quel sacerdote.
E
il levita? Sono ancora io.
E
l’uomo ferito? Ancora io.
E
il samaritano chi è? È Gesù. E Gesù cosa fa? Si fa mio prossimo,
si prende cura di me in modo tale da diventare Lui come me: diventa
ferito, nudo, crocifisso al mio posto, e io. invece, sono curato,
rivestito di dignità e riportato in vita.
Il
sacerdote e il levita avevano compiuto il loro servizio nel tempio di
Gerusalemme e ritornavano a casa. Al vedere l’uomo ferito non si
fermarono. Forse ritenevano morto quello che invece era solo mezzo
morto, e non volevano toccarlo, perché il cadavere rendeva
culturalmente impuri (Cf. Lev
21,1). Oppure avevano paura di essere anch’essi aggrediti. In loro
tutto ciò è più forte della compassione. In quanto sacerdote e
levita rappresentavano uomini che dovevano incarnare il comandamento
dell’amore di Dio. Ma l’amore del prossimo? Purtroppo, culto e
compassione erano in loro due cose distinte.
E
la locanda che cos’è? La Chiesa, che accoglie tutti.
Noi
siamo abituati all’espressione “buon Samaritano” e ci sembra un
modo di dire normale, che però ovvio non è. Di tratta di un un
ossimoro2
(una contraddizione).
In effetti per gli Ebrei di duemila anni fa i samaritani erano gli
eretici, gli scismatici, gli esseri disprezzati ancor più dei
pagani. Quindi se c’era qualcuno che non poteva essere il loro
prossimo, erano i samaritani . Inoltre Gesù non dice che il
samaritano è da aiutare perché prossimo, ma “osa” donare
ai suoi compaesani un Samaritano quale esempio della perfezione umana
e divina, per avere la vita felice ed eterna.
Questo
dono
è stato capito così bene nella Chiesa che Gesù è da sempre
indicato come il “buon Samaritano”, e la Chiesa stessa si fa
“prossimo” all’umanità indigente.
Cristo
e la Chiesa con Lui si chinano sull’uomo debole e ferito, per
salvarlo, perché il Regno di Dio ha questo “prezzo”:
la
compassione.
Il
Figlio di Dio, la Misericordia fatta carne, porta la benedizione di
Dio, facendosi prossimo dell’uomo, che da lui è compatito, curato
e guarito per il Regno dei Cieli.
Per
farci capire la grandezza e la profondità di questa sua prossimità,
Gesù usa varie parabole: quella del buon pastore che salva le pecore
spogliate, battute e messe a morte (Gv
10,10),
quella del figlio del padrone della vigna che si presenta dopo i
profeti mandati invano (Gv
10;
Lc
20,9-18),
e quella del Samaritano che mostra un viaggiatore che non evita un
uomo sanguinante per le ferite, ma gli gli va accanto per compassione
e lo toglie dalla strada dove giaceva ferito.
Immaginiamoci
la scena e immedesimiamoci nel ferito soccorso dal samaritano, che
arriva dopo i sacerdoti e i leviti che non hanno voluto e non hanno
potuto salvare l’uomo ferito, forse anche perché era uno
sconosciuto, estraneo alla loro tribù e famiglia. E' riflessa qui la
storia della salvezza in cui Gesù viene sotto l’aspetto di un
samaritano disprezzato, rivela ciò che le altre tecniche della
salvezza hanno dimenticato, costruisce proprio là dove queste
tecniche hanno fallito.
In
Cristo, Dio si è avvicinato all’uomo con una figura semplice ed
umana. Il Dio che ora conosciamo “non
è troppo alto né troppo lontano”
da noi e la sua legge è molto vicina a noi; è nella nostra bocca e
nel nostro cuore perché la mettiamo in pratica (prima lettura del
rito romano). Solo facendo quello che anche Cristo ha fatto,
incontriamo veramente il Prossimo (Dio) e il prossimo (l’uomo): il
nostro cuore non matura che nell’accoglienza dell’Altro e
dell’altro, ed ha un solo “bel difetto”, ha bisogno di essere
amato.
Dunque Gesù, nel concludere la
parabola, capovolge la seconda domanda (la prima è stata: “Cosa
devo fare per avere la vita eterna?”) del dottore della Legge 3.
Questi aveva chiesto: “Chi
è il mio prossimo?”.
La domanda sembra fatta per
convincere Gesù che “amare Dio” è senza limiti e orizzonti, ma
che “amare il prossimo” aveva dei limiti ben precisi. Mi pare che
la domanda supponga che noi possiamo scegliere quale sia il prossimo
da amare, con la possibilità di rifiutare coloro che non sono degni
di essere amati. Gesù la capovolge: “Chi
ha avuto compassione4
di lui?”. Dunque è
importante non solamente sapere di chi dobbiamo avere compassione, ma
conoscere chi ha compassione di noi. Oggi Lui vuole insegnarci non
tanto chi è il nostro prossimo, ma farci capire Chi viene vicino a
noi che giaciamo per strada. In primo piano non vi è colui che
gestisce la sua compassione e la distribuisce a chi ritiene
opportuno, ma colui che nel bisogno attende un gesto di compassione
da un Viandante che si fa a lui prossimo, avvicinandosi e curandoci.
3)
Il prezzo del Regno
di Dio: la compassione.
Se
nelle righe precedenti ho suggerito di immedesimarci nell’uomo
ferito per capire che il nostro prossimo è Cristo, ora propongo di
immedesimarci nel Samaritano per essere prossimi all’umanità
ferita, che desidera risollevarsi, ma che da sola non può farlo. Il
sacerdote e il levita non si fermarono come fece il samaritano,
perché i loro occhi non erano come quelli del Signore. Il
Samaritano, invece, ha gli occhi di Dio e guarda all’umanità come
la guarda Gesù: “Cristo,
il Figlio di Dio, posa il suo sguardo sul dolore umano e si serve del
dolore per rivelarci il suo amore, per incarnarvi la sua carità.
Quanto "scendere" dev'essersi compiuto in me, se solo il
dolore può rivelarmi l'amor di Dio! Quanta carità da parte di Dio,
s'Egli ha dovuto risalire
con noi ogni nostro
Calvario, perché potessimo credere all'Amore.”
(Don Primo Mazzolari, Tempo
di credere, Brescia
1964, p. 103).
Questo
amore si commuove (muovere con), ha compassione
(patire con), parola che -anche se meno forte di quella greca che
indica “viscere commosse”- indica non tanto l'elemosina del
ricco al povero, il soccorso del sano verso il malato, ma il vivere
insieme la passione della vita del fratello e della sorella, la cui
umanità è ferita.
L’etimologia
della parola “compassione” ci spinge a viverla sentendo il
dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi. Il dottore della
legge questo l’ha capito bene. Gesù quindi conferma la sua
risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione nella
compassione, è un percorrere la strada sulle orme di Cristo Gesù
nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede una disponibilità
totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una
storia, in un stabilità di vita. Questa è la via per la vita
eterna: fare lo stesso tragitto che Gesù ha descritto e realizzato,
venendo ad abitare il luogo della nostra infermità.
C’è
da chiedere a Cristo uno sguardo ed un cuore come il suo. Mentre la
ragione vuole misurare il dono di Dio in base a ciò che la ragione
stessa può comprenderlo, Cristo ci rivela il Suo Cuore, che è di
una tenerezza inimmaginabile. Tante persone nella Chiesa hanno capito
e accolto questo cuore e la sua tenerezza.
Cito
un esempio di una Missionaria della Carità, che conobbi a Roma. Era
una suora italiana, che a 60 anni di età aveva lasciato la sua
Congregazione dove era Consigliera generale, per entrare tra le suore
di Madre Teresa di Calcutta. Questa Beata l’accolse e con
attenzione materna le disse di venire a Calcutta quando il clima era
più sopportabile. Dopo un mese di adattamento alla nuova vita, mandò
questa “nuova” sorella a lavorare (o come Madre Teresa diceva: “a
fare apostolato”) nella Casa dei morenti. Là in questa Casa di
misericordia e di pietà vi erano e vi sono ancora varie stanzette,
dove i malati terminali sono curati amorosamente. Sul muro di ogni
stanzetta c’è una frase del Vangelo. La suora italiana cominciò a
lavare le piaghe del malato e intanto guardava il muro della cella su
cui c’era scritto: “Questo è il mio corpo”. Finito il suo
“apostolato”, tornò in convento per la cena. Nel refettorio
c’era anche Madre Teresa, che le chiese: “Che cosa hai fatto
questo pomeriggio?”. La suora rispose: “Sono rimasta tre ore con
Gesù”. Da samaritana sulle orme del Samaritano si era chinata
sull’uomo, con il quale Gesù si identifica: “Ho
avuto fame, ho avuto sete, ero in prigione, ero malato, nudo. Ogni
volta che avete soccorso il più piccolo dei miei fratelli avete
soccorso me”
(cf Mt
25,35).
Viviamo
nella misericordia e pratichiamo la compassione, mettendoci in
ginocchio davanti al nostro prossimo come Gesù ha fatto alla lavanda
(in francese: lavement) dei piedi e sulla Croce, e come fanno tanti
uomini e donne che lavano le ferite fisiche e spirituali dei loro
fratelli e sorelle.
Guardando
noi in questa comunione di misericordia reciproca, gli altri potranno
“leggere” il Vangelo e “vederlo” in azione. Tramite la nostra
vita in Cristo la verità è data ai sapienti e l’amore ai cuori.
Dio
si mette nelle nostre mani di misericordia. Non cerchiamo altri
responsabili. Il solo responsabile siamo noi, perché ciascuno di noi
ha il compito di portare nel suo cuore il Dio vivente, il dio che non
si impone mai, ma sempre si propone chiamandoci a vivere e rivivere
il suo pellegrinaggio, ad aprire la porta alla quale lui bussa:
“Ecco,
sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, io entrerò e mi siederò
alla sua mensa e cenerò con lui e lui con me”
(Ap
3,20).
Quanto
detto finora vale per tutti i cristiani: secolari e religiosi. Ma per
le persone che si consacrano in che modo si specifica la vocazione ad
essere samaritani? Mostrare con la loro esistenza che culto e
compassione non sono contrapposti. Ad una sua suora che chiedeva a
San Vincenzo de Paolis: “Se
sto facendo l’adorazione del Ss.mo Sacramento e un povero bussa
alla porta, che devo fare? Continuare a pregare oppure andare dal
povero? Il Santo fondatore delle Figlie della Carità rispose: “Non
lasci Dio, se lasci Dio per Dio”.
Il che non vuol dire solo che nel povero c’è Dio, quindi si può
smettere di pregare per aiutare il bisognoso. Vuol dire che in una
consacrazione verginale a Dio, si hanno occhi così puri da vedere
nel povero Dio e servirlo nella misericordia e nella lode.
4)
Locanda del “Tutti-accoglie”.
Gesù
nella parabola di oggi parla anche del fatto che il Samaritano portò
l’uomo ferito ne “Il Tutti accoglie5”,
che è tradotto con locanda o albergo.
Questo “Il Tutti-accoglie” è
una fragile casa, sospesa tra Gerico e Gerusalemme, che nasce ovunque
uno è disposto ad accogliere tutti.
Dio
accoglie tutti, accoglie nel segno profondo dell'amore.
La
Chiesa accoglie tutti, maternamente. In questo “ospizio pubblico”
ci si prende cura del sofferente come una madre sta chinata sul
figlio per curarlo. Questo prendersi cura6
in greco è una parola che indica come la madre sta sopra il figlio,
una cura preoccupata che diventa però attiva sopra di lui. A questo
servizio di cura materna sono chiamate in modo particolare le Vergini
Consacrate. Il Rito della loro Consacrazione le invita a dedicarsi
con amore, a curare e alleviare le piaghe fisiche e spirituali di
ogni fratello o sorella feriti nell’anima e nel corpo, perché
grazie al cuore puro sanno vedere nel volto del sofferente il Volto
dei volti: quello di Cristo.
1
Il prossimo,
in greco “plesion”,
in ebraico “re’a”,
designa “uno che è vicino”, che abita accanto, con cui si ha
qualcosa in comune. Per l’ebreo era il connazionale, in quanto
membro del popolo eletto; tutt’al più vi si potevano includere i
convertiti al giudaismo.
2
L'ossimoro
(dal
“oxìmoron”
composto da oxùs
= acuto e moròs
= ottuso) è una figura retorica, che consiste nell'accostamento di
due termini di senso contrario, contraddittorio o comunque in forte
antitesi tra loro.
L’effetto che si ottiene è quello di un paradosso apparente. Per
es.: lucida follia; tacito tumulto; silenzio assordante; convergenze
parallele; insensato senso, piacere disgustoso. Se
alcuni ossimori sono stati immaginati per attirare l'attenzione del
lettore o dell'interlocutore, altri nascono per indicare una realtà
che non possiede nome. Questo può accadere perché una parola non è
mai stata creata, oppure perché il codice della lingua, in virtù
di alcuni limiti formali, deve contraddire se stesso per poter
indicare alcuni concetti particolarmente profondi.
E’ il caso dell’espressione “buon Samaritano”.
3
I dottori della legge ebrei contavano 613 precetti, di cui 365
negativi (un per ogni giorno dell’anno), 248 positivi, come era
–secondo gli antichi- il numero delle ossa, per indicare che la
legge entra “negativamente” ogni giorno nell’uomo per
purificarlo, togliergli la negatività del male e penetrare
”positivamente” le ossa, struttura del corpo, strutturando
l’uomo nel bene.
4
Il testo greco dice splancnìzomai
“essere mosso, preso
nelle viscere”, nel profondo dell'anima, viscere materne, viscere
d’amore, tipiche di Dio il cui guardare a noi diventa compassione.
“Ne ebbe compassione” si traduce oggi indebolendo un po’
l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di
misericordia che colpisce l’anima del Samaritano, lui stesso
diviene il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni
pericolo. Dunque qui la domanda è mutata: non si tratta più di
stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si
tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l'altro
conta per me come “me stesso”.
5
In greco c’è la parola pandòcheion
che significa “accoglie tutti” ed è una casa tra Gerusalemme,
la Gerusalemme celeste, e Gerico. Questa casa che accoglie tutti è
il simbolo della Chiesa che accoglie tutti.
6
In greco c’è epemelethe da epi - meleomai che vuol dire prendersi
cura di, preoccuparsi di, darsi pena, badare, vigilare
Lettura
patristica
Brani
di
Origene
(185-253), Sant’Ambrogio di Milano (339-397), Severo
di Antiochia (circa 465-538)
“Accade
dunque che sulla stessa strada discendessero prima un sacerdote, poi
un levita, che magari avevano fatto del bene ad altre persone, ma non
lo fecero a costui che era disceso da Gerusalemme a Gerico. Il
sacerdote, che secondo me raffigura la Legge, lo vede; e ugualmente
lo vede il levita, il quale, io credo, rappresenta i profeti. Tutti e
due lo vedono, ma passano oltre e lo abbandonano là. Ma la
provvidenza riservava quest’uomo mezzo morto alle cure di colui che
era più forte della legge e dei profeti, cioè del Samaritano, il
cui nome significa ‘Guardiano’. Questi è colui che non
sonnecchia né dorme vegliando su Israele (Sal 121.4). È per
soccorrere l’uomo mezzo morto che questo samaritano si è messo in
cammino; egli non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote
e il levita, o piuttosto, se discende, discende per salvare il
moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: Tu sei un
samaritano e un posseduto dal demonio (Gv 8.48); e Gesù, mentre ha
negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di
essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon “guardiano”.”
(Origene,
Comm.
a Luca
34.5)
“Dunque
questo samaritano discende- e chi è che discende dal cielo se non
colui che è salito al cielo, il Figlio dell’Uomo che è nel cielo
(Gv 3.13)?- e vedendo quell’uomo mezzo morto che nessuno sino
allora aveva potuto guarire... si avvicinò a lui; cioè, accettando
di soffrire come noi, si è fatto nostro prossimo, ed esercitando la
sua misericordia, ci si è fatto vicino. (...) Poiché dunque nessuno
ci è più prossimo di colui che ha guarito le nostre ferite,
amiamolo come Signore, e amiamolo anche come prossimo: niente infatti
è così prossimo come il capo alle membra. Amiamo anche colui che è
imitatore di Cristo: amiamo colui che soffre per la povertà altrui,
a motivo dell’unità del corpo. Non è la parentela che ci fa l’un
l’altro prossimi, , ma la misericordia, poiché la misericordia è
conforme alla natura: non c’è niente infatti di più conforme alla
natura che aiutare chi con noi partecipa della stessa natura.”
(Ambrogio, Comm.
a Luca
7.74, 84).
«Un
uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico». Cristo... non ha detto «uno
scendeva», bensì «un uomo scendeva», perché il brano concerne
tutta l'umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato
il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del
paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa
«La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e
cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile
della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio... Una volta
che l'umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta... il
branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di
briganti. La spogliano del vestito della perfezione, non le lasciano
nulla della sua forza d'animo, né della purezza, della giustizia o
della prudenza, nulla di ciò che caratterizza l'immagine divina (Gen
1,26), ma dopo averla colpita con i colpi ripetuti dei diversi
peccati, la atterrano e la lasciano finalmente mezza morta...La legge
data da Mosè è passata..., ma le è mancata la forza, e non ha
potuto condurre l'umanità alla piena guarigione, non ha potuto
rialzare l'umanità che giaceva in questo modo... Infatti la Legge
offriva dei sacrifici e delle offerte che «non hanno il potere di
condurre alla perfezione coloro che si offrono a Dio»... perché «è
impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri»
(Eb 10,1-4)...Infine, un Samaritano passò accanto. Apposta Cristo
dona a se stesso il nome di Samaritano. Infatti... egli è venuto in
persona, compiendo il disegno della Legge e mostrando con le sue
opere «chi è il prossimo» e cosa significa «amare gli altri come
se stesso». (Severo di Antiochia, Vescovo, Discorsi,
89 ).
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