II
Domenica di Pasqua – Anno C – 7 aprile 2013
Domenica
della divina Misericordia
Rito
romano
At.
5,12-16; Sal 117; Ap.1, 9-11. 12-13. 17.19; Gv. 20,19-31
Rito
ambrosiano
At
4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
1)
La
misericordia è l’elemosina di Dio.
Quello
che vorrei sottolineare del Vangelo di questa domenica è il fatto
che, per aiutare la fede di San Tommaso Apostolo, Gesù riappare di
nuovo nel Cenacolo e chiede a questo apostolo, che era assente alla
Sua prima apparizione, di mettere le dita nel Suo costato trafitto,
da cui sulla croce erano sgorgati sangue e acqua ((cfr
Gv
19, 34).
Oggi
a noi è chiesto di fare memoria dell’incontro di una uomo
incredulo, che poté mettere la sua mano nel costato di Cristo, dal
cui cuore trafitto dal peccato scaturisce ancora l’onda grande
della misericordia. Anche
se i nostri peccati fossero neri come la notte, la misericordia
divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che
il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore...
il resto lo farà Dio.
Ogni cosa ha inizio nella sua
misericordia e nella sua misericordia finisce, scriveva Santa
Faustina Kowalska. Per questo il
Beato Giovanni Paolo II ha dedicato alla divina misericordia la
Domenica seconda dopo Pasqua.
In effetti la liturgia di oggi,
a partire della preghiera di inizio, è una liturgia di misericordia.
Certo la decisione di Giovanni Paolo II fu ispirata pure dalle
rivelazioni private avute da Santa Faustina Kowalska, la quale vide
partire dal costato di Cristo due raggi di luce, uno rosso, che
rappresenta il sangue, e l’altro bianco che rappresenta l’acqua.
Se
il sangue evoca il sacrificio della croce e il dono dell’eucaristia,
l'acqua ricorda il battesimo ed il dono dello Spirito Santo (cfr Gv
3,5; 4,14; 7,37-39).
Attraverso
il cuore trafitto di Cristo crocifisso la misericordia divina
raggiunge gli uomini. Gesù è “l'Amore
e la Misericordia in persona”
(Santa Faustina Kowalska, Diario,
374). La Misericordia è un “secondo nome” dell'Amore (cfr Dives
in misericordia,
7), colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua capacità
e disponibilità di farsi carico di ogni bisogno, soprattutto il
bisogno del perdono. “Alla
grande ferita dell’anima corrisponde la grande misericordia di Dio”
(Sant’Eusebio).
Gesù
“usa” l’unguento della piaga del Suo costato per curare il
cuore di Tommaso, piagato dall’incredulità. La medicina della sua
misericordia è più grande delle colpe umane. Si fa incontro a
Tommaso, agli altri apostoli e, oggi, a ciascuno di noi e non chiede:
“Cosa
hai fatto?”
ma “Mi
ami?”,
come domandò a Pietro in riva al lago dopo la risurrezione. Pietro,
e noi pure, non abbiamo che il nostro dolore come risposta a Cristo,
ma a Lui basta. E, come fece con Pietro, ci conferma nel suo amore
misericordioso, un amore che libera, guarisce e salva
Noi
siamo poca e fragile cosa, ma possiamo essere nella gioia se diciamo:
“Signore
Gesù confido in te”
(come fu suggerito a santa Faustina da Gesù: cfr Diario, 327 ),
perché è fonte di letizia l’annuncio di questa misericordia: Gesù
è misericordia. Egli è mandato dal Padre per farci conoscere che
l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo la
misericordia.
Dobbiamo
domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la
misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà,
amore, speranza, perdono e ogni grazia. Dobbiamo pure domandarci se
pratichiamo l’elemosina. L'elemosina è un fatto che tocca le
radici della vita dell'uomo perché è
accettazione del modo di vivere di Cristo, il quale da “ricco
che era si è fatto povero per voi, per arricchirvi mediante la sua
povertà”
(2 Cor
8,9).
E' accettazione che Cristo sia la ricchezza della nostra vita, e va
seguito senza rimpiangere i propri beni (cfr
Mt
19,21s).
L’elemosina-misericordia
non è pura e semplice filantropia, ma amore per Cristo, che
raggiungiamo attraverso i nostri fratelli poveri: “ciò
che avete fatto ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a me”
(cfr Mt 25). Tanto è vero che Cristo accetta che si "sciupi"
per lui il profumo prezioso invece di venderlo per i poveri: è
Cristo il fondamento valido di ogni amore per il prossimo.
2)
La misericordia come vocazione.
San
Tommaso, toccando l’uomo e riconoscendo Dio “Signor mio e Dio
mio”, credette e fu confermato con gli altri Apostoli nella
vocazione di annunciare il Vangelo di misericordia :
“Come il Padre ha mandato me, io mando voi”.
Da questo momento il “vento” di Dio portò i discepoli sino agli
estremi confini della terra e... fino al martirio. Come in una nuova
creazione, lo Spirito del Risorto fa capaci i discepoli di qualcosa
d'inaudito: perdonare i peccati. Vanno a tutti perché gli uomini e
le donne, sotto tutti i cieli, hanno bisogno proprio di questo:
misericordia e perdono.
Anche
il dolore è rovesciato:
dal momento che Cristo è risorto “ tutto
il dolore che c’è nel mondo non è dolore di agonia, ma dolore
di parto”
(
P. Claudel ).
Allora la vita può essere vissuta come una festa, il Risorto offre
immaginazione e coraggio per creare il “nuovo”. Mentre le
ideologie e utopie umane s’infrangono tutte contro lo scoglio della
morte, Gesù apre
le porte della speranza cristiana, che
non delude e non si risolve in un “desiderio smentito”. Nessuna
croce, nessuna prova, nessun dramma può
togliere la pace o spegnere la gioia che
viene dalla Risurrezione
La
Pasqua di Risurrezione mostra che la morte vince solo “per
un poco”, e non ha l’ultima parola.
La
nostra vocazione, come quella di Tommaso e degli altri Apostoli, è
di annunciare il Vangelo di Misericordia, di raccontare la
misericordia di Dio Padre, attraverso la propria capacità di perdono
e di remissione dei peccati (per chi è prete): tutti laici e
sacerdoti siamo chiamati ad essere lievito di misericordia.
Alla
luce del Vangelo è più chiara l’espressione: “Pietà e
tenerezza è il Signore” (Sal
110/111, 4), che ci ha donato con indicibile bontà il suo unico
Figlio, nostro Redentore.
Facendo
tramite la Chiesa esperienza del grande amore con il quale Dio ci ha
amati (Ef 2,4), accogliamo la sua misericordia e proclamiamolo dentro
la comunità cristiana e nel mondo. Siamo chiamati ad essere lievito
di misericordia nella pasta del mondo. Noi non apparteniamo al mondo,
apparteniamo a Cristo e condividiamo la sua missione di essere
lievito di misericordia per far risorgere il mondo
In
questo ci è di esempio il volto della Madre di Gesù, riflesso nel
volto delle vergini consacrate, che si sforzano di seguire il Maestro
divino e, quindi, ad essere per l'umanità il segno della
misericordia e della tenerezza divina.
Come
ci invita Papa Francesco “impariamo ad essere misericordiosi con
tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha
avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo
(Papa Francesco, Angelus,
14 marzo 2013)
La
misericordia è l’amore in eccesso che le Vergini consacrate vivono
donandosi completamente a Cristo, la misura colma e traboccante che
va oltre la giustizia, non commisurato al merito dell’altro, né ai
propri interessi. Esse evangelizzano mediante la misericordia, perché
nella Verginità accolgono sulle loro ginocchia Cristo deposto dalla
Croce e ne proclamano il perdono.
Esse
sono certe dell’Emmanuele, del “Dio con noi” a cui offrono la
vita per essere con Lui Ostia di misericordia, che perdona e rinnova
la vita.
Sperimentando
il perdono di Dio e perdonando sempre diventiamo certi che la Sua
potenza è più grande della nostra debolezza. Certi del "Dio
con noi". Solo da questa certezza può venire la gioia, solo
dalla certezza del "Dio con noi" può venire la gioia.
Dobbiamo
domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la
misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà,
amore, speranza, perdono e ogni grazia. La misericordia di Cristo
tramite loro continua ad essere dono della vita, della vita vissuta
in Cristo, con Cristo per Cristo-Misericordia
NB:
Come aiuto alla riflessione ed alla pratica propongo l’etimologia
della parola Elemosina, l’elenco delle opere di misericordia
corporale e spirituale e un’omelia di San Gregorio di Nissa sulla
misericordia.
Elemosina,
che in francese si dice aumône,
inglese alms, viene dal greco elemosyne:
misericordia,
compassione
(specialmente verso i poveri, quindi beneficenza, dallo stesso tema
elèemon, pietoso, èleos: pietà, eleèo: aver compassione. Ora si
intende ciò che si dà ai poveri per carità. Si vedano le
riflessioni che ho proposte per I Domenica di Quaresima, 17 febbraio
2013.
La
Chiesa - servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza
bimillenaria - riassume l'atteggiamento positivo verso chi è in
difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle corporali
e quelle spirituali.
Le
ricordiamo:
Le
sette opere di misericordia corporale
1) Dar da
mangiare agli affamati
2) Dar
da bere agli assetati
3) Vestire
gli ignudi
4)
Alloggiare i pellegrini
5) Visitare
gli infermi
6) Visitare
i carcerati
7)
Seppellire i morti.
Le
sette opere di misericordia spirituale
8)
Consigliare i dubbiosi
9)
Insegnare agli ignoranti
10)
Ammonire i peccatori
11)
Consolare gli afflitti
12)
Perdonare le offese
13)
Sopportare pazientemente le persone moleste
14) Pregare
Dio per i vivi e per i morti.
Ricorrendo
al numero sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero
il valore simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel
numero, che significa completezza, si vuol esprimere tutto ciò che
riguarda l'aiuto verso il prossimo.
Veniamo
quindi sollecitati a esercitare un amore concreto verso il nostro
prossimo in situazione di disagio.
Come
già raccomandava S. Giovanni ai primi cristiani: “Figlioli,
non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità”
(1
Gv 3,18).
E S. Giacomo: “Siate
di quelli che mettono in pratica la parola, non soltanto ascoltatori,
illudendo voi stessi”
(Gc 1,22).
LETTURA
PATRISTICA
SAN
GREGORIO DI NISSA:
OMELIE
SULLE BEATITUDINI
ORAZIONE
QUINTA
"Beati
i misericordiosi, perché troveranno misericordia"
La
virtù come progresso incessante verso il meglio. Il simbolo della
scala.
“Forse,
ciò in cui fu istruito, enigmaticamente, Giacobbe con una visione,
quando vide una scala che dalla terra giungeva all'altezza del cielo
e Dio che stava sopra di essa [Gen 28,10ss], è qualche cosa di
simile a ciò che ora anche a noi propone l'insegnamento delle
beatitudini, che solleva a pensieri sempre più alti coloro che
ascendono grazie ad esso. Io credo, infatti, che in quella occasione
sia stata rappresentata al patriarca, sotto la forma della scala, la
vita secondo virtù, perché lui stesso imparasse ed insegnasse alla
sua discendenza, che essere innalzati a Dio non consiste in altro che
in questo: con lo sguardo sempre fisso verso l'alto e con
l'incessante desiderio delle realtà superiori, non amare la sosta
nelle azioni rette già compiute, ma anzi ritenere una perdita il non
toccare la realtà posta più in alto. Anche qui, dunque,
l'elevatezza delle beatitudini che si sorreggono una sull'altra, ci
predispone ad accostarci a Dio, il vero beato, che è stabilito al di
sopra di ogni beatitudine. Certamente, come ci accostiamo al sapiente
attraverso la sapienza e al puro attraverso la purezza, così anche
dobbiamo assimilarci al beato attraverso le beatitudini. La
beatitudine, nel senso più vero, è propria di Dio; perciò anche
Giacobbe narrò che Dio poggiava sopra tale scala. La partecipazione
alle beatitudini non è dunque null'altro se non comunione con la
divinità, alla quale il Signore ci innalza attraverso ciò che è
stato detto. A me sembra, dunque, che Egli, con il fatto di far
precedere alla conseguenza l'indicazione della beatitudine, renda in
un certo qual modo "dio" colui che ascolta e comprende il
discorso. "Beati -Egli dice infatti- i misericordiosi, perché
troveranno misericordia". Io so che in molti passi della Sacra
Scrittura i santi chiamano con il nome di "misericordioso"
la potenza divina. Così fa Davide negli inni, così Giona nella sua
profezia, così il grande Mosè, più volte, nella Legge. Se dunque
la denominazione di "misericordioso" spetta a Dio, a
cos'altro ti invita il Logos se non a divenire "dio", come
se tu fossi modellato secondo un attributo proprio della divinità?
Se infatti Dio è chiamato "misericordioso" nella Scrittura
divinamente ispirata e da stimarsi veramente beata è la divinità,
dovrebbe essere evidente il pensiero conseguente: se uno, pur essendo
uomo è misericordioso, egli è reso degno della beatitudine divina,
essendo in lui quell'attributo con cui è designato Dio.
"Misericordioso è il Signore e giusto; il nostro Dio ha
misericordia" [Sal 114,5]. Come dunque può non essere cosa
beata che un uomo sia chiamato con il nome con cui è appellato Dio
per il suo agire, e lo diventi realmente? Ora, anche il divino
apostolo invita con parole proprie ad essere zelanti per i doni più
grandi; lo scopo di quest'invito, per noi, non è di persuaderci a
desiderare il bene (è infatti spontaneo per la natura umana avere
inclinazione per il bene), ma ci è rivolto perché non sbagliamo nel
giudizio del bene. Infatti soprattutto in ciò fallisce la nostra
vita: nel non poter comprendere con chiarezza che cosa sia il bene
per natura e che cosa sia ciò che è supposto tale per errore. Se
infatti il male si fosse presentato nella vita spoglio, senza valersi
di nessuna apparenza di bene, il genere umano non avrebbe disertato a
suo favore. Noi abbiamo dunque bisogno di giudizio per comprendere le
parole che ci sono proposte, perché, edotti riguardo alla vera
bellezza del pensiero che è contenuto in esse, ci conformiamo ad
essa. Come la concezione di Dio è insita naturalmente in ogni uomo
ma, rimanendo sconosciuto chi sia veramente Dio, si genera l'errore
riguardo l'oggetto dei nostri pensieri (alcuni, infatti, venerano la
vera divinità, contemplata nel Padre nel Figlio e nello Spirito
Santo, altri, invece, andarono errando in assurde concezioni,
supponendo che tale divinità fosse nel creato; perciò, la
deviazione, seppur di poco, dalla verità ha aperto la strada alle
empietà), così, se non comprendessimo il vero senso del concetto
proposto, noi, erranti, subiremmo una perdita della verità non da
poco.
La
misericordia come amore reciproco e "simpatia" nata dalla
carità.
Che cosa è
dunque la misericordia e relativamente a cosa si esercita? E come può
essere detto beato colui che riceve in cambio ciò che dà? Dice
infatti il Signore: "beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia. Il senso più accessibile del contenuto del detto
esorta l'uomo all'amore reciproco e alla simpatia poiché, per
l'ineguaglianza e la varietà dei fatti della vita, non tutti vivono
nelle stesse condizioni, né per la reputazione, né per la
costituzione fisica, né per i rimanenti beni. La vita, il più delle
volte, si divide in opposti: in schiavitù e in signoria, in
ricchezza e povertà, in fama e disonore, in deformità fisica e in
buona salute, scindendosi in tutti gli opposti di questo genere.
Perché dunque fosse pareggiato ciò che è scarseggiante con ciò
che abbonda e riempito ciò che è mancante con ciò che è in
eccesso, fu prescritta agli uomini la misericordia per i più
bisognosi. Non è possibile, infatti, sentire l'impulso a curare la
disgrazia del vicino, se la misericordia non ha suscitato nell'anima
simile istinto. Si pensa alla misericordia, infatti, come al
contrario della durezza di cuore. Come l'uomo duro di cuore e furioso
è inaccessibile per coloro che gli si avvicinano, così l'uomo
compassionevole e misericordioso è come addolcito per la sua
disposizione verso il bisognoso, diventando, per colui che è
afflitto, ciò che il suo spirito angosciato ricerca. La misericordia
è, come qualcuno potrebbe interpretare comprendendola con una
definizione, una afflizione volontaria prodottasi per i mali altrui.
Se poi non avessimo dimostrato pienamente il senso di quel concetto,
si potrebbe forse spiegarlo più pienamente con un altro discorso.
Misericordia e una disposizione di canti verso coloro che si trovano
in situazioni penose. Come infatti la durezza di cuore e la ferocia
traggono origine dall'odio, la misericordia è come generata dalla
carità, non potendo esistere senza di lei. Se si volesse poi
sviscerare in modo più penetrante la caratteristica propria della
misericordia, si troverebbe che è un ardore nella disposizione di
carità unita all'affezione del dolore. Infatti si ricerca con ardore
la comunione dei beni con tutti in ugual modo, amici e nemici. La
volontà di condividere le pene è poi caratteristica propria solo di
coloro che sono dominati dalla carità. D'altra parte si è senza
dubbio d'accordo nel riconoscere che la carità è la cosa più
eccellente tra quante si perseguono in questa vita. La misericordia è
poi ardore di carità. è dunque da ritener beato in senso proprio
colui che si trova in tale disposizione d'animo, poiché è come se
avesse toccato il vertice della virtù. Nessuno, poi, consideri la
virtù solo nella dimensione materiale; se così fosse simile
rettitudine di comportamento sarebbe possibile solo a chi ha una
certa potenza a far bene, invece a me sembra più giusto vedere
simile rettitudine nella scelta. Se infatti uno avesse soltanto
voluto il bene, ma gli fosse stato impedito di compierlo, il non
poterlo attuare non lo renderebbe per nulla inferiore, nella
disposizione d'animo, a colui che ha manifestato la sua intenzione
nei fatti. Se ora si è colto il senso della beatitudine, dovrebbe
risultare superfluo spiegare quanto sia grande il guadagno che ne
deriva alla vita, perché sono evidenti perfino ai semplici i
risultati felici per la vita di questo consiglio. Se infatti, per
ipotesi, ci fosse in tutti una simile disposizione d'animo verso
l'inferiore, non ci sarebbe più né superiore né inferiore; la vita
non si differenzierebbe più nell'opposizione dei nomi. La fame non
affliggerebbe più l'uomo, né lo umilierebbe la schiavitù, né lo
addolorerebbe il disonore, ma tutto sarebbe comune a tutti e
un'uguaglianza di diritti e un'egual libertà di parola avrebbe
cittadinanza nell'esistenza umana, poiché chi governa si porrebbe
volontariamente allo stesso livello del resto dei cittadini. Se ciò
accadesse non sarebbero più comprensibili dei motivi di inimicizia:
resterebbe inattiva l'invidia, sarebbe morto l'odio e sarebbero
esiliati il ricordo delle ingiurie, la menzogna, l'inganno, la guerra
(tutti frutti del desiderio di avere di più). Una volta bandita
quella disposizione di inimicizia, vengono rigettati completamente i
germi della malvagità, come venissero da una malvagia radice. Alla
abolizione della malvagità dovrebbe subentrare l'elenco dei beni:
pace, giustizia e tutta la sequela di ciò che è pensato in
relazione al meglio. Quale situazione, dunque, si potrebbe ritenere
più beata del vivere così, senza più riporre la nostra sicurezza
in catenacci o pietre, sicuri dell'aiuto reciproco? Come l'uomo duro
di cuore e feroce si rende ostili coloro che hanno fatto esperienza
della sua selvatichezza, così, al contrario, tutti noi diventiamo
ben disposti verso il misericordioso, poiché naturalmente la
misericordia genera carità in coloro che partecipano di essa. La
misericordia, dunque, come dimostra il discorso, è madre della
benevolenza, pegno di carità e legame di ogni disposizione
amichevole. Che cosa potrebbe essere pensato di più saldo, in questa
vita, di questa sicurezza? Perciò a buon diritto il Logos chiama
beato il misericordioso, poiché beni tanto grandi si manifestano in
questo nome. Ma non è sconosciuta a nessuno l'utilità per la vita
di tale consiglio.
La
sentenza finale di Dio è speculare rispetto alla libera scelta
dell'uomo.
A me pare,
poi, che il senso di tale passo, con la scelta del tempo futuro,
sveli ineffabilmente qualche cosa di più grande di ciò che viene
inteso immediatamente. "Beati i misericordiosi -dice infatti il
Signore- perché troveranno misericordia", come se per i
misericordiosi la ricompensa secondo misericordia fosse posta dopo.
Dunque, per quanto ne siamo capaci, tralasciato questo significato
facile da comprendere e scoperto con facilità dalla gran parte della
gente, accingiamoci, secondo il possibile, a penetrare con il
pensiero oltre il velo. "Beati i misericordiosi, perché
troveranno misericordia". In queste parole è possibile imparare
qualche cosa di più sublime anche per la dottrina: Colui che fece
l'uomo a sua immagine, ripose nella natura della sua opera i principi
di tutti i beni, affinché nessun bene si introducesse in noi
dall'esterno, ma fosse in noi il potere di ciò che vogliamo, traendo
il bene dalla nostra natura come da un forziere. Infatti impariamo,
da una parte per il tutto, che non è possibile altrimenti che uno
incontri ciò che desidera senza che lui stesso si faccia dono del
bene; perciò una volta il Signore disse a coloro che l'ascoltavano:
"Il regno di Dio è dentro di voi" [Lc 17,21] e "chiunque
chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto" [Mt
6,7-8]. Così l'ottenere ciò che desideriamo, il trovare ciò che
cerchiamo, l'introdurci dove desideriamo, sono in nostro potere,
qualora lo vogliamo, e sono legati alla facoltà del nostro animo.
Insieme con questo, conseguentemente, si stabilisce anche il pensiero
contrario: anche l'inclinazione verso il peggio ha luogo senza che si
eserciti nessuna necessità esterna; essa si realizza nel momento
stesso in cui compiamo la scelta, venendo all'essere solo allora. Il
male, in se stesso, secondo la propria sostanza, non può essere
trovato da nessun'altra parte al di fuori della scelta. Da ciò si
mostra chiaramente la facoltà di autogoverno e di autodeterminazione
di cui il Signore della natura ha dotato gli uomini, facendo
dipendere ogni cosa, sia buona, sia malvagia, dalla nostra libera
scelta e si mostra anche chiaramente che il giudizio divino, facendo
seguito con un'incorruttibile e giusta sentenza alle scelte fatte
secondo il nostro proponimento, a ciascuno distribuisce quanto ognuno
si sia trovato a procurarsi; a coloro che, come dice l'Apostolo [Eb
12,7], cercano gloria e onore con la perseveranza nelle buone opere,
Dio dà la vita eterna, ma a coloro che disubbidiscono alla verità e
danno credito all'ingiustizia, Dio distribuisce collera e afflizione
e tutti quanti i nomi che indicano la triste retribuzione. Come gli
specchi corretti mostrano l'immagine dei volti tali quali sono i
volti, sereni per coloro che sono sereni, cupi per coloro che sono
corrucciati (e nessuno farebbe colpa alla natura dello specchio se
apparisse cupa l'immagine dell'originale caduto nell'abbattimento),
così anche il giusto giudizio di Dio si conforma alle nostre
disposizioni, rendendoci dal suo ricompense tali quali sono le azioni
che abbiamo compiuto. "Venite -dice il Signore- benedetti"
e "Andatevene maledetti" [Mt 25,34-41]. C'è qualche
necessità esterna per cui quelli di destra siano chiamati con
dolcezza e quelli di sinistra con tono cupo? I primi non ottennero
misericordia per il loro comportamento e i secondi non resero duro
contro di loro il volere divino per il comportamento duro contro i
loro simili? Il ricco, che si rallegrava nel lusso, non ebbe pietà
del povero che stava afflitto davanti al suo portone e perciò recise
per sé la possibilità della misericordia e quando ebbe bisogno di
misericordia non fu ascoltato. Questo non perché una sola goccia
comporti una perdita per la grande fonte del paradiso, ma perché la
goccia di misericordia non può mischiarsi con la durezza di cuore.
Che c'è in comune, infatti, tra luce e tenebre? Quello che l'uomo
semina raccoglierà, dice l'Apostolo [Gal 6,8], poiché chi semina
nello spirito raccoglierà dallo spirito vita eterna. Io credo che la
semina sia la scelta dell'uomo e la raccolta la ricompensa che segue
la scelta. Fecondo è il frutto dei beni per coloro che hanno scelto
simile raccolta; penosa la raccolta di spine per coloro che hanno
gettato nella vita semi spinosi. è del tutto necessario, infatti,
che uno raccolga la stessa cosa che ha seminato e non è possibile
altrimenti. "Beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia". Quale parola umana potrebbe penetrare la
profondità dei pensieri contenuti in questo discorso?
La
misericordia più profonda è verso se stessi, privati, per il
peccato, della dignità originaria.
L'assolutezza
e l'infinità di tali parole ci induce a ricercare qualche cosa di
più di ciò che è stato detto. Il Signore, infatti, non ha aggiunto
chi sono coloro verso cui è necessario che si operi la misericordia,
ma disse semplicemente: "Beati i misericordiosi". Forse il
Logos, attraverso le parole dette, ci orienta enigmaticamente in tal
senso: il concetto di misericordia è conseguente alla sofferenza che
è chiamata beata. Nella beatitudine precedente, infatti, era beato
colui che aveva trascorso la vita di quaggiù nella sofferenza, in
questa beatitudine a me sembra che il Logos indichi la stessa
dottrina. Come noi, infatti, rimaniamo colpiti dalle disgrazie
altrui, quando ad alcuni dei nostri amici accadono sventure non
volute: o sono stati cacciati dalla casa paterna, o si sono salvati,
privi di tutto, da un naufragio, o sono caduti nelle mani dei pirati
o dei briganti, oppure sono diventati schiavi da liberi che erano, o
prigionieri di guerra da benestanti; oppure coloro che fino a quel
momento erano in vista in una forma di benessere per la loro vita,
hanno ricevuto in cambio qualche altra disgrazia del genere. Come
dunque, di fronte a simili sventure, nasce nella nostra anima una
compartecipazione dolorosa, sarebbe forse molto più opportuno che
avessimo la stessa disposizione riguardo a noi stessi, considerando
il colpo subito dalla nostra vita contro la nostra dignità. Quando
infatti consideriamo quale era la nostra splendida casa da cui siamo
stati gettati fuori; come siamo caduti nelle mani dei briganti; come,
sprofondando nell'abisso di questa vita, siamo stati denudati; a
quali e quanti padroni ci siamo legati invece di vivere in maniera
libera ed autonoma; come abbiamo spezzato la beatitudine della vita
con morte e corruzione; è dunque possibile, se cogliamo questi
pensieri, che la nostra anima si occupi delle sventure altrui e non
si disponga a misericordia nei propri confronti, considerando ciò
che aveva e da quale condizione è stata cacciata? Che cosa c'è di
più miserevole di questa prigionia? Invece della delizia del
paradiso abbiamo ricevuto in sorte, nella vita, questo luogo soggetto
a malattie e a fatiche. In cambio di quella libertà dalle passioni,
abbiamo preso in sorte innumerevoli passioni. In cambio di quel modo
di vivere superiore, la vita insieme con gli angeli, siamo stati
condannati ad abitare al terra insieme con le bestie. Poiché abbiamo
mutato la vita angelica e libera da passioni in quella bestiale, chi
potrebbe facilmente enumerare gli amari tiranni della nostra vita,
padroni furenti e selvaggi? L'ira è un amaro padrone e così
l'invidia; l'odio, che è la passione della superbia, è un tiranno
furente e selvaggio; il ragionamento licenzioso, che assoggetta la
natura a servizi legati alle passioni e alle impurità è come se
deridesse degli schiavi. La tirannide dell'avidità, quale eccesso di
asprezza non supera? Questa, assoggettatasi la misera anima, la
costringe a soddisfare i suoi smisurati desideri, poiché è sempre
bisognosa e non è mai sazia. è come una bestia policefala che invia
attraverso le innumerevoli bocche il cibo allo stomaco insaziabile e
questo non è per nulla soddisfatto di ciò che ha guadagnato, anzi,
ciò che continuamente assume è materia che incendia il desiderio
del di più. Chi dunque, considerando questa vita infelice, potrebbe
rimanere duro e insensibile a tali disgrazie? Il fatto di non provare
misericordia di noi stessi è dovuto all'insensibilità di fronte a
questi mali; come accade ai folli a cui l'eccesso del male ha tolto
anche la consapevolezza di ciò che patiscono. Se dunque uno ha
conosciuto se stesso, come era una volta e come è nel presente
(anche Salomone dice in qualche passo "saggi sono coloro che
conoscono se stessi"), costui non cesserà mai di avere
misericordia di sé e a tale disposizione dell'anima seguirà, come è
verosimile, anche la misericordia di Dio.
Il
misericordioso è giudice di se stesso nel giudizio finale.
Perciò il
Signore dice: "Beati i misericordiosi perché troveranno
misericordia". Essi, non altri: in ciò, infatti, fornisce un
chiarimento il nome, come se uno dicesse: "Cosa beata è il
prendersi cura della salute fisica; colui infatti che se ne prende
cura, vivrà in salute". Così chi ha misericordia è detto
beato perché il frutto della misericordia è possesso proprio di chi
è misericordioso, sia seguendo il discorso che abbiamo scoperto ora,
sia seguendo quello precedente, ossia il mostrare compassione per le
sventure altrui. In entrambi i casi, infatti, è ugualmente bene sia
l'aver misericordia di sé, nel modo detto, sia il compatire le
sventure dei vicini. Perciò l'equità del giudizio di Dio mostra che
la libera scelta dell'uomo verso gli inferiori è in relazione alla
superiore volontà, per cui, in un certo qual modo, l'uomo è giudice
di se stesso esprimendo il giudizio su di sé nelle cause dei suoi
sottoposti. Poiché si crede, e giustamente si crede, che tutta la
natura umana sia sottoposta al tribunale di Cristo, affinché
ciascuno riceva la ricompensa secondo quanto ha compiuto quando era
nel corpo, sia esso bene o male (è forse audace anche dirlo) se è
possibile cogliere con un ragionamento ciò che è ineffabile e
invisibile, è anche già possibile comprendere la beatitudine della
ricompensa per chi ottiene misericordia. Infatti la benevolenza che
nasce nelle anime nei confronti di coloro che mostrano compassione,
verosimilmente, rimane perenne, per tutta l'esistenza, nella vita di
coloro che partecipano della benevolenza. Che cosa, dunque, è
verosimile che accada al momento della resa dei conti, se il
benefattore verrà riconosciuto da coloro che sono stati oggetto del
beneficio? Come disporrà egli la sua anima ascoltando le voci
riconoscenti che lo acclamano di fronte al Dio di tutta la creazione?
Di quale altra beatitudine necessiterà, dunque, colui che è
celebrato come da un araldo in così grande teatro per le ottime
azioni? Infatti, insegna la parola del Vangelo [Mt 25,34ss], coloro
che hanno ricevuto un beneficio, sono presenti nel giudizio del Re
verso i giusti e verso i peccatori. Con entrambi egli fa uso del
dimostrativo, come se indicasse con un dito l'oggetto: "Per
quanto faceste ad uno di questi miei fratelli più piccoli" [Mt
25,40-45]. Il dire "questi" indica la presenza di coloro
che ricevettero il beneficio. Mi dica, dunque, chi preferisce la
materia inanimata delle ricchezze alla futura beatitudine: quale
splendore d'oro, quale fulgore delle pietre preziose, quale ornamento
di abiti è paragonabile a quel bene che la speranza suggerisce?
Quando il Re della creazione abbia rivelato se stesso alla natura
umana, assiso con magnificenza sul suo trono sublime; quando siano
apparse intorno a Lui le innumerevoli miriadi di angeli; e ancor più
quando sia di fronte agli occhi di tutti l'ineffabile regno dei cieli
e, dal lato opposto, si mostrino le terribili punizioni. Ma quando,
in mezzo a queste cose, tutta la natura umana, dalla prima creazione
fino alla pienezza del tutto, sia sospesa tra il timore e la speranza
del futuro, tremando spesso per l'esito finale di ciò che si attende
da ciascuna delle due sorti; mentre coloro che hanno vissuto con una
buona coscienza sono in dubbio sul futuro, qualora vedano altri
trascinati dalla cattiva coscienza, come da un boia, in quelle cupe
tenebre; se costui si presentasse al Giudice, confidando nelle sue
opere, fra le voci di lode e di gratitudine di coloro che hanno
ricevuto il beneficio, splendido nella sua fiducia, forse calcolerà
che quella buona sorte sia da misurare secondo la ricchezza
materiale? Forse accetterà, in cambio di quei beni, tutte le
montagne, le pianure, le valli boscose e il mare tramutati in oro per
lui? Prendiamo invece il caso di colui che ha scrupolosamente
occultato mammona grazie a sigilli chiavistelli, porte di ferro e
nascondigli sicuri, giudicando preferibile ad ogni comandamento
l'ammucchiarsi per lui della materia, sotterrata in luogo segreto; se
sarà trascinato giù a capofitto nel fuoco tenebroso, tutti coloro
che hanno sperimentato in questa vita la sua durezza di cuore e la
sua ferocia, gliela presenteranno davanti e gli diranno: "Ricordati
che hai già ricevuto i tuoi beni durante la vita [Lc 16,25]; nelle
fortezze della tua ricchezza chiudesti insieme anche la misericordia
e lasciasti sottoterra la magnanimità; non ti desti pensiero, in
questa vita, dell'amore degli uomini: ora non hai ciò che non
avesti, non trovi ciò che non hai messo in serbo, non raccogli ciò
che non hai diffuso, non mieti ciò che non hai seminato; la raccolta
sia per te degna della tua seminagione: hai seminato amarezza,
raccogline le messi; stimasti la spietatezza, hai ciò che amasti;
non guardasti con simpatia, neppure ora sarai guardato con
misericordia; trascurasti l'afflitto, ora, mentre perisci, sarai
trascurato; fuggisti la misericordia, la misericordia fuggirà da te;
provasti nausea per il povero, colui che fu povero per causa tua,
proverà ora nausea di te". Se dunque fossero pronunciati questi
o simili discorsi, dove andrebbero a finire l'oro, gli splendidi
suppellettili, la sicurezza riposta nei tesori sigillati, i cani
validi per la guardia notturna? Dove le armi predisposte contro chi
insidia i tesori? Dove l'annotazione registrata sui libri? Perché
tutto ciò è per il pianto e lo stridore dei denti? Chi farà
risplendere le tenebre? Chi estinguerà la fiamma? Chi respingerà il
verme che non ha fine? Dunque fratelli meditiamo le parole del
Signore che ci insegna, in breve, cose tanto grandi relative al
futuro e diventiamo misericordiosi, per divenire grazie a ciò beati
in Cristo Gesù nostro Signore, a cui è la gloria e la potenza nei
secoli dei secoli. Amen.”