Rito Romano – II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia – Anno B – 7 aprile 2024
At 4,32-35; Sal 117;1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31
Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
II Domenica di Pasqua e della divina Misericordia
1) Pace e perdono.
La liturgia di questa II Domenica di Pasqua celebra Cristo risorto, che dona pace e perdono. In effetti, il Vangelo di oggi ci racconta che, la sera della sua Pasqua, Gesù entra nel Cenacolo, dove si erano rinchiusi gli Apostoli, e dice loro: “Pace a voi”. Con l’offerta del dono della sua pace Cristo ricolma il cuore degli apostoli con la sua misericordia. Il saluto tradizionale ebraico shalom, cioè pace, sulla bocca del Risorto non è solo un augurio ma un dono: il dono di quella pace che solamente Lui può dare e che è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La “pace”, che Gesù offre ai suoi amici, è il frutto dell’amore misericordioso di Dio per gli uomini. Questo amore smisurato ha portato Cristo a morire sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e umile, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Questo spiega perché San Giovanni Paolo II ha voluto intitolare alla Divina Misericordia questa Domenica dopo la Pasqua, che celebra Cristo quale Agnello, che è stato immolato per i nostri peccati e che è risorto sconfiggendo la morte e il peccato. L’amore di Dio è più forte del male e della morte e in Cristo risorto ha vinto l’amore, ha vinto la misericordia.
In questa Festa della Divina Misericordia, lasciamo riempire il nostro cuore dalla misericordia di Dio, che gratuitamente ama, perdona e dà pace.
In effetti, questa pace è il frutto della vittoria dell’amore di Dio sul male, è il frutto del perdono. La vera pace, quella profonda, viene dal fare esperienza della misericordia di Dio.
Oggi a noi, come circa duemila anni fa agli Apostoli, insieme con la sua pace, Gesù dona lo Spirito Santo, perché possiamo diffondere nel mondo la sua misericordia, che perdona e dona la vita nuova e vera.
Oggi, è a noi che Cristo dà il mandato di portare agli uomini la remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore, seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni in famiglia e nella società.
2) Missionari senza paura
Oggi, lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal nostro cuore. Gesù ci spinge ad uscire dal “Cenacolo” che la paura ha traformato in un luogo chiuso. Il suo Spirito ci spiange ad essere una “Chiesa in uscita” (Papa Francesco): “Come il Padre ha mandato me, io mando voi” (Gv 20, 21). Durante l’ultima cena il cenacolo fu il luogo dove Gesù aveva dato il pane, ma dopo la passione e morte del Messia quella sala era diventata per gli Apostoli come un sepolcro. Vi vivevano di paura, di paura della morte.
Ma la paura degli Apostoli e di tutti noi non ferma Cristo. Come la grande pietra che sigillava il suo sepolcro non gli fu di ostacolo, così neanche la nostra paura gli fa ostacolo. Entra in questo sepolcro, pieno di paura, a porte sprangate. Non gli fanno difficoltà le porte sprangate come non gli ha fatto difficoltà la pietra del sepolcro. E soprattutto non gli ha fatto difficoltà di venire con queste persone che Lui ha scelto, delle quali uno lo ha tradito, l’altro l’ha rinnegato, gli altri sono fuggiti, l’hanno abbandonato. E come entrò nel luogo dove i suoi Apostoli si erano rifugiati, così oggi viene incontro a noi, scacciando le nostre paure. E’ lì che ci fa risorgere.
Quindi, dopo l’incontro di Cristo con Maria Maddalena nell’amore e nel desiderio, questo incontro nel cenacolo è importante, perché ci fa capire che Cristo risorto ci incontra là, dove noi siamo morti nelle nostre paure, nelle nostre fragilità, nei nostri peccati, nel nostro egoismo, per farci risorgere attraverso la gioia e la pace.
Oggi, il Risorto è a noi che dice : “Pace a voi” (Gv 20, 19.21.26). È evidente che non è solo un saluto. È un dono, il dono che il Risorto fa a noi, suoi amici. E’ un dono da condividere. Perciò la questa pace, acquistata da Cristo col suo sangue, è anche un compito. Essa non è solamente per noi, è per tutti, e noi, i discepoli di oggi, dobbiamo portarla in tutto il mondo.
In questo modo partecipiamo alla pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, aiutandolo ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore. Queste armi non uccidono, ma danno la vita e la pace.
3) Testimoni della gioia.
Nel Vangelo di oggi, Gesù dice più volte: “Pace a voi” e i discepoli “gioirono”. E la gioia e la pace sono il segno della presenza di Cristo risorto.
Ma perché l’esperienza di Gesù risorto che sta in mezzo a noi, e ci mostra le sue mani e il suo fianco, è una esperienza di pace e di gioia? Perchè conosciamo chi siamo noi per Cristo e chi è Cristo per noi. Lui è colui che per noi porta quelle mani inchiodate e quel fianco trafitto. Lui è amore infinito che si dona. E noi, chi siamo noi per Lui? Siamo un amore finito, limitato che si dilata nel suo Amore.
Il fianco trafitto mostra il cuore che ama infinitamente, totalmente. Le mani inchiodate mostrano che il potere di Dio è quello di lavare i piedi e di essere inchiodato a servizio d’amore dell’uomo. Ed è lì che conosciamo il Signore. In queste mani vediamo tutta la vita di Gesù, tutto ciò che Lui ha fatto a servizio dell’amore, con un Amore così estremo da morirne per dare la vita.
Tutti siamo chiamati a rispondere a questo Amore risorto. Come? Testimoniando Cristo con la gioia.
Prendiamo esempio dalla Vergini consacrate, alle quali –nel giorno della consacrazione – è detto: “Cristo, Figlio della Vergine e sposo delle vergini, sarà la vostra gioia e corona sulla terra, finché vi condurrà alle nozze eterne nel suo regno, dove cantando il canto nuovo seguirete l’Agnello dovunque vada” (RCV, progetto di omelia n. 38).
Per rispondere all’Amore di Cristo, queste donne si offrono a Lui totalmente e gioiosamente. La gioia, in effetti, non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono a Dio e al prossimo, e nel volersi bene in Dio. La gioia viene dall’esperienza di essere amati e di farsi missionari di questo Amore in modo totale.
La totalità è esigenza profonda della verginità consacrate, che non ammette la mediocrità. La consacrazione è per sua stessa natura un atto generoso e totale di amore che porta la consacrata in alto, sulla croce, quindi è elevata in alto e nel profondo del cuore di Cristo.
Grazie alla consacrazione la vergine si impegna in tre “doveri”: quello di lodare Dio con più dolcezza, quello di sperare in Dio con più gioia, quello di amare Dio con più ardore, quello di essere missionaria della misericordia, divenendo testimone perseverante della gioia di essere amata e di amare in modo puro e gratuito. Come già insegnava Sant’Agostino nel De sacra virginitate, dove possiamo leggere: “Continuate (nella vostra scelta), o santi di Dio, giovani e ragazze, uomini e donne, voi che vivete nel celibato e voi che non vi siete sposate. Perseverate fino alla fine. Lodate il Signore tanto più soavemente quanto maggiormente egli occupa i vostri pensieri; sperate tanta maggiore felicità quanto più fedelmente lo seguite; amatelo tanto più ardentemente quanto più siete attente ad accontentarlo. Lodate il Signore con maggiore dolcezza, perché a Lui pensate con maggiore pienezza; sperate nel Signore con maggiore gioia perché Lui servite con maggiore attenzione; amate il Signore con maggiore ardore, perché a lui vi studiate di piacere con maggiore dedizione”.
Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540circa – 604)
Hom. 26, 7-9
San Tommaso Apostolo, modello di fede per noi
"Ma Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24). Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano, ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del Signore) era stato custode della perfettissima verginità.
[Tommaso] toccò, ed esclamò: "Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso, hai creduto" (Jn 20,28-29). Quando l’apostolo Paolo dice: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (Eb 11,1), parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò, perché gli viene detto: "Perché mi hai veduto, hai creduto?" Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era Dio, dicendo: "Mio Signore e mio Dio"! Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo, ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.
Riempie di gioia ciò che segue: "Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto" (Gv 20,29). Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede. Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo afferma: "Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti" (Tt 1,16). E Jc aggiunge: "La fede senza le opere è morta" (Gc 2,26).
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