Rito Romano – V Domenica di Pasqua– Anno B – 28 aprile 2024
At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Rito Ambrosiano
At 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54; Sal 117; 1Cor 2,6-12; Gv 17,1b-11
V Domenica di Pasqua
1) La vera vite.
La Liturgia della Chiesa, che domenica scorsa ci ha presentato Cristo pastore buono e vero, oggi ce Lo presenta come Vite vera.
Nell’Antico Testamento la vite, che fu piantata da Noè sfuggito al diluvio, segnò l’inizio di un’epoca. Con il Cantico dei Cantici divenne il simbolo della sposa. Questo paragone venne usato da Osea, da Geremia , da Isaia e nei Salmi per indicare come sposa del Signore Israele, che spesso si dimostrò infedele.
Nel Nuovo Testamento, l’apostolo San Giovanni introduce un cambio di prospettiva. La vite non è più il popolo, ma Gesù stesso. Quindi gli appartenenti al popolo di Dio sono in intima, stretta relazione con il Figlio di Dio, che dà loro la linfa della vita.
In effetti, nel Vangelo scritto dal discepolo prediletto di Cristo non è più Israele la vigna di Dio, ma il Figlio. Non solo, dice anche che la vigna è costituita da una sola vite e quella vite è Gesù stesso. Lui è la vera vite del Padre, è Lui il nuovo Israele.
La vera vite è l’unica in grado di produrre finalmente i frutti attesi, che l’Agricoltore cercava in Israele.
La “vera” vite è quella che produce frutto. Questa vite si contrappone alla vigna “falsa”, sterile, che non produce frutto. Cristo è la vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Il Figlio suo diventa Figlio dell’uomo e Cristo è la vite “vera”, che produce il frutto desiderato da Dio, che produce l’uva vera: il frutto dolce che è l’amore.
Il Padre-Agricoltore non si accontenta di un frutto modesto, cerca molto frutto. Il Cristo, vite vera, porta frutto attraverso noi tralci, se rimaniamo nel tronco, diventando capaci di un dono d’amore capace di portare molto frutto.
Per questo il Padre ha cura della vite, tagliando i rami inutili e potando gli altri. Se è la vite che dona la vita al tralcio, è l’Agricoltore che favorisce la vitalità del tralcio e la sua capacità di dono. Bisogna lasciarsi potare, cioè purificare dalle mani sapienti e amorose del Padre. La perfezione di noi stessi non consiste tanto nello sforzarci in impegnativi percorsi dell’anima, ma abbandonarci nelle mani del Padre, che rendere feconda la nostra capacità di amare.
Se pregheremo ogni giorno Dio, amandoLo, e ameremo il prossimo, condividendo con i nostri fratelli il pane vero e vivendo di amore reciproco e di misericordia, il nostro rimanere in Cristo sarà veramente fecondo di frutti di vita vera in terra e nel cielo.
2) Rimanere in Cristo.
Come tralci alla vite è indispensabile rimanere in Cristo, dimorare in Lui, lasciarci amare, aggrapparci a Lui, alle sue braccia distese, crocifisse per amore. Ecco il programma della vita cristiano.
Rimanere in Lui non significa inventarsi chissà che cosa, è, semplicemente, essere crocifissi con Lui, prendendo la nostra croce quotidianna.
Rimanere in Lui è restare là dove Lui ci conduce, nella storia concreta della nostra vita di ogni giorno, che siamo chiamati a vivere, coscienti che”senza di Lui non possiamo fare nulla” (cfr Gv 15,5). A un uomo che gli chiedeva: “Come è possibile tenere insieme la libertà dell’uomo e il non poter far nulla senza Dio?”, Giovanni il Profeta, vissuto nel deserto di Gaza nel V secolo, rispose: “Se l’uomo inclina il suo cuore verso il bene e chiede a Dio l’aiuto, ne riceve la forza necessaria per compiere la propria opera. Perciò la libertà dell’uomo e la potenza di Dio procedono insieme. Questo è possibile perché il bene viene dal Signore, ma esso è compiuto grazie ai suoi fedeli (cfr Ep. 763, SC 468, Paris 2002, 206). Il vero “rimanere” in Cristo garantisce l’efficacia della preghiera, come scrive il beato Guerrico d’Igny: “O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu infatti sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza” (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodia, SC 202, 1973, 522).
Rimanere è un dono da chiedere per non staccarci mai da lui, che è l’Amore che diventa la nostra casa. Se non chiediamo, se non siamo mendicanti dell’Amore, non possiamo riceverlo in dono.
Rimanere in lui, crescendo nella consapevolezza che per vivere in questa casa, impliche che occorre coltivare il sentimento della gratitudine, perché un cuore grato è un cuore fedele, lieto di essere amato da Dio e di amare i fratelli, lieto di essere amico di Cristo, che non vuole servi ma amici. Ed essere amici di Gesù vuol dire accettare la sua Persona, vuol dire accettare il suo amore per noi, vuol dire amarLo e amare il nostro prossimo.
Un esempio speciale di questa accettazione di Cristo, di questa adesione a Lui è quello delle Vergini consacrate. Queste donne sono chiamate ad essere nel mondo testimoni della fedeltà di Dio che è il custode della loro.
Fedeli alla Parola rivolta a loro da Dio fin dal giorno del battesimo e che nel tempo ha preso la forma di una chiamata a vivere la vocazione cristiana, vivono la loro consacrazione verginale nell’ascolto costante di questa Parola.
Fedeli come spose al loro Sposo, perché la caratteristica delle consacrate dell’Ordo Virginum che è quella di vivere il loro essere spose di Cristo nella vigilante custodia della promessa di Gesù: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20) e nell’essere voce che, nella gratuità, responsabilità e libertà pura delle relazioni, grida alla Chiesa e al mondo: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!” (Mt 25,6).
Fedeli a Cristo, le donne dell’Ordo Virginum sono portatrici della Parola dell’Amato. E’ dall'amore sempre fedele di Dio che esse attingono forza nel perseverare nell’abbraccio la verginità per il Regno dei cieli (Mt 19,12) e si impegnano a vivere ogni giorno con autenticità e concretezza quell'Amore che manifesta il volto di Dio.
E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così queste discepole, sapientemente potate dalla parola del Maestro (cfr Gv 15,2-4) amato verginalmente come Sposo, rimangono in Cristo quali tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. In effetti il dedicarsi alla meditazione della Sacra Scrittura ed alla preghiera non è da loro vissuto come ripiegamento su se stesse, ma come un allargamento del cuore per abbracciare l’umanità intera, particolarmente quella che soffre (cfr Papa Francesco, Vultum Dei quaerere, n. 16). Rimanendo saldamente unite a Cristo come tralci alla Vite, anche queste donne consacrate sono associate al suo mistero di salvezza, come la Vergine Maria, che presso la Croce rimanette unita al Figlio nella stessa donazione totale d’amore.
Lettura patristica
Sant’Ambrogio di Milano (339/340 – 397)
Exameron III, V, 12, 49-52
Saprai certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, così hai in comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che rallegra il cuore dell’uomo (Ps 103,15). E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da procurarti letizia e giocondità. In te si trova la dolcezza della tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in te; in te stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la Scrittura dice: "Bevi l’acqua dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi" (Pr 5,15). Anzitutto nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre, chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta rigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per mezzo di questi, sale in alto.
Del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire, mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà. Di essa dice bene il profeta: "Hai trasportato la vite dall’Egitto e ne hai piantato le radici e la terra ne è stata riempita. La sua ombra ha ricoperto i monti e i suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e fino al fiume le sue propaggini" (Ps 79,9-12). E il Signore stesso parlò per bocca d’Is dicendo: "Il mio diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e la circondai d’un muro e vangai tutt’attorno la vigna di Sorec e nel mezzo vi innalzai una torre" (Is 5,1-2). La circondò infatti come con la palizzata dei comandamenti celesti e con la scolta degli angeli. Infatti "l’angelo del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono" (Ps 33,8). Pose nella Chiesa come la torre degli apostoli, dei profeti, dei dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La vangò tutt’intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla infatti grava la mente più delle preoccupazioni di questo mondo e dell’avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene mostrato nel Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva inferma, era così curva da non poter guardare in alto. Era curva la sua anima che, rivolta ai guadagni, non vedeva la grazia celeste. Gesù la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi terreni. Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai quali dice: "Venite a me tutti voi che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò" (Mt 11,28). L’anima di quella donna, come se le avessero scavato intorno la terra, poté respirare e si raddrizzò.
Ma anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si tagliano quelli che ostentano un’inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l’esperto agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e ragguardevole, si senta superiore e nessuno, se povero, e di oscuri natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia per tutti un’unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e identica cortesia. Perciò nel mezzo si innalza una torre, per mostrare tutt’intorno l’esempio di quei contadini, di quei pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro esempio i nostri sentimenti si elevino, non giacciano a terra spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l’animo a ciò che sta sopra di noi e abbia il coraggio di dire: "Ma la nostra cittadinanza è nei cieli" (Ph 3,20). Quindi, per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto dalla tempesta, ognuno, come fa la vite con i suoi viticci e le sue volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. È la carità che ci unisce a ciò che sta sopra di noi e ci introduce in cielo. "Se uno rimane nella carità, Dio rimane in lui" (1Jn 4,16). Perciò anche il Signore dice: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre frutto da solo, se non resta unito alla vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci" (Jn 15,4-5).
Manifestamente il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere richiamato quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella, riscaldata dal tepore primaverile, dapprima comincia a gemmare, poi manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali nascendo l’uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi, conserva l’asprezza del prodotto immaturo e non può diventare dolce se non raggiunge la maturazione sotto l’azione del sole. Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto più dolce che vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d’un colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi frutti, il tempo dell’età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo suole essere senz’altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è cresciuto sino alla perfetta maturità. A quest’uomo perfetto solitamente non nuoce né il freddo della morte con il suo brivido né il sole dell’iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la grazia divina e spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti lodino tutti coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come ghirlande di tralci, contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della loro prudenza, dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro testimonianza, dalla bellezza della loro santa vita, dall’abbondanza della loro misericordia, così che ti possano dire: "La tua sposa è come vite ricca di grappoli nell’interno della tua casa" (Ps 127,3), perché con l’esercizio di una generosa liberalità riproduci l’opulenza d’una vite carica di grappoli.
Lecture patristique
saint Augustin d’Hippone (354 - 430)
Commentaire sur l'évangile de Jean, 80, 1, 81, 1.3-4
CCL 36, 527-531
Dans le passage de l'évangile où notre Seigneur dit qu'il est la vigne, et ses disciples les sarments, il parle ainsi en tant que chef de l'Église, et nous ses membres. Car le Christ est le médiateur entre Dieu et les hommes (1Tm 2,5). En effet, la vigne et les sarments ont la même nature, et voilà pourquoi, parce qu'il était Dieu, d'une autre nature que nous, il s'est fait homme, afin que la nature humaine fût en lui comme une vigne dont nous pourrions être les sarments.
Il disait aux disciples: Demeurez en moi, comme moi en vous. Ils n'étaient pas en lui de la même manière dont lui était en eux. Cette union réciproque ne lui procure aucun profit: c'est eux qu'elle avantage. Les sarments sont dans la vigne non pas pour enrichir celle-ci, mais pour recevoir d'elle le principe de leur vie. La vigne est dans les sarments pour leur communiquer sa sève vivifiante, non pour la recevoir d'eux. Ainsi cette permanence du Christ dans les disciples, et la permanence de ceux-ci dans le Christ, leur est doublement avantageuse, mais nullement au Christ. Car si vous retranchez un sarment, un autre peut surgir de la racine qui reste vivante, tandis que le sarment coupé ne peut vivre séparé de la racine.
Considérez encore plus attentivement ce que la Vérité ajoute: Moi, je suis la vigne, et vous, les sarments. Celui qui demeure en moi et en qui je demeure, celui-là donne beaucoup de fruit, car, en dehors de moi, vous ne pouvez rien faire (Jn 15,5). Pour que personne ne s'imagine que le sarment pourrait de lui-même porter quelque peu de fruit, alors que Jésus avait dit: Celui-là donne beaucoup de fruit, il ne dit pas: parce que, en dehors de moi, vous pouvez faire peu de chose, mais: vous ne pouvez rien faire. Que ce soit peu ou beaucoup, on ne peut le faire en dehors de lui puisque, en dehors de lui, on ne peut rien faire. Si le sarment porte peu de fruit, le vigneron l'émonde pour qu'il en porte davantage. Cependant si le sarment ne demeure pas uni à la vigne et ne vit pas de sa racine, il ne peut, par lui-même, porter le moindre fruit.
Si le Christ n'avait pas été un homme, il n'aurait pas pu être la vigne. Cependant il ne fournirait pas cette grâce aux sarments, s'il n'était pas également Dieu. Mais, parce que, sans cette grâce, on ne peut pas vivre, et parce que la mort est au pouvoir de notre libre arbitre, notre Seigneur ajoute: Si quelqu'un ne demeure pas en moi, il est comme un sarment qu'on a jeté dehors et qui se dessèche. Les sarments secs, on les ramasse, on les jette au feu, et ils brûlent (Jn 15,6). C'est pourquoi, si le bois de la vigne est d'autant plus méprisable lorsqu'il ne demeure pas uni à la vigne, il est d'autant plus glorieux quand il le demeure. Le Seigneur le dit par le prophète Ézékiel: lorsque ces bois de la vigne sont coupés, ils ne rendent aucun service au cultivateur et ne servent à aucun ouvrage ar tisanal (cf. Ez 15,4-5). Le bois de la vigne n'a que deux destinations: la vigne ou le feu. S'il ne reste pas sur la vigne, il sera brûlé. Pour ne pas aller au feu, il doit rester sur la vigne.
Si vous demeurez en moi, et que mes paroles demeurent en vous, demandez tout ce que vous voudrez, et vous l'obtiendrez (Jn 15,7). Lorsqu'on demeure dans le Christ, que peut-on demander, sinon ce qui convient au Christ? Que peut-on vouloir, quand on demeure dans le Seigneur, sinon ce qui n'est pas étranger au salut? Nous demandons une chose parce que nous sommes dans le Christ, mais nous voulons autre chose parce que nous sommes encore en ce monde. Du fait que nous y demeurons, nous sommes parfois tentés de demander ce dont nous ignorons que cela nous est nuisible. Mais chassons l'idée que nous obtiendrons cela si nous demeurons dans le Christ, car il ne fait ce que nous lui demandons que si cela est bon pour nous.
Mais si nous demeurons en lui parce que ses paroles demeurent en nous, nous demanderons tout ce que nous voudrons, et nous l'obtiendrons.
Patristic reading
Saint Augustin of Hippo (354 - 430)
Tractate LXXX
On Jn 15:1-3
1. This passage of the Gospel, brethren, where the Lord calls Himself the vine, and His disciples the branches, declares in so many words that the Mediator between God and men, the man Christ Jesus,1 is the head of the Church, and that we are His members. For as the vine and its branches are of one nature, therefore, His own nature as God being different from ours, He became man, that in Him human nature might be the vine, and we who also are men might become branches thereof. What mean, then, the words, “I am the true vine”? Was it to the literal vine, from which that metaphor was drawn, that He intended to point them by the addition of “true”? For it is by similitude, and not by any personal propriety, that He is thus called a vine; just as He is also termed a sheep, a lamb, a lion, a rock, a corner-stone, and other names of a like kind, which are themselves rather the true ones, from which these are drawn as similitudes, not as realities. But when He says, “I am the true vine,” it is to distinguish Himself, doubtless, from that [vine] to which the words are addressed: “How art thou turned into sourness,2 as a strange vine?”3 For how could that be a true vine which was expected to bring forth grapes and brought forth thorns?4
2. “I am,” He says, “the true vine, and my Father is the husbandman. Every branch in me that beareth not fruit, He taketh away; and every one that beareth fruit, He purgeth it, that it may bring forth more fruit.” Are, then, the husbandman and the vine one? Christ is the vine in the same sense as when He said, “The Father is greater than I;”5 but in that sense wherein He said, “I and myFather are one,” He is also the husbandman. And yet not such a one as those, whose whole service is confined to external labor; but such, that He also supplies the increase from within. “For neither is he that planteth anything, neither he that watereth; but God that giveth the increase.” But Christ is certainly God, for the Word was God; and so He and the Father are one: and if the Word was made flesh,-that which He was not before,-He nevertheless still remains what He was. And still more, after saying of the Father, as of the husbandman, that He taketh away the fruitless branches, and pruneth the fruitful, that they may bring forth more fruit, He straightway points to Himself as also the purger of the branches, when He says, “Now ye are clean through the word which I have spoken unto you.” Here, you see, He is also the pruner of the branches-a work which belongs to the husbandman, and not to the vine; and more than that, He maketh the branches His workmen. For although they give not the increase, they afford some help; but not of themselves: “For without me,” He says, “ye can do nothing.”’ And listen, also, to their own confession: “What, then, is Apollos, and what is Paul but ministers by whom ye believed, even as the Lord gave to every man. I have planted, Apollos watered.” And this, too, “as the Lord gave to every man;” and so not of themselves. In that, however, which follows, “but God gave the increase,”6 He works not by them, but by Himself; for work like that exceeds the lowly capacity of man, transcends the lofty powers of angels, and rests solely and entirely in the hands of the Triune Husbandman. “Now ye are clean,” that is, clean, and yet still further to be cleansed. For, had they not been clean, they could not have borne fruit; and yet every one that beareth fruit is purged by the husbandman, that he may bring forth more fruit. He bears fruit because he is clean; and to bear more, he is cleansed still further. For who in this life is so clean as not to be in need of still further and further cleansing? seeing that, “if we say that we have no sin, we deceive ourselves, and the truth is not in us; but if we confess our sins, He is faithful and just to forgive us our sins, and to cleanse us from all unrighteousness;” to cleanse in very deed the clean, that is, the fruitful, that they may be so much the more fruitful, as they have been made the cleaner.
3. “Now ye are clean through the word which I have spoken unto you. Why does He not say, Ye are clean through the baptism wherewith ye have been washed, but “through the word which I have spoken unto you,” save only that in the water also it is the word that cleanseth? Take away the word, and the water is neither more nor less than water. The word is added to the element, and there results the Sacrament, as if itself also a kind of visible word. For He had said also to the same effect, when washing the disciples’ feet, “He that is washed needeth not, save to wash his feet, but is clean every whit.”7 And whence has water so great an efficacy, as in touching the body to cleanse the soul, save by the operation of the word; and that not because it is uttered, but because it is believed? For even in the word itself the passing sound is one thing, the abiding efficacy another. “This is the word of faith which we preach,” says the apostle, “that if thou shalt confess with thy mouth that Jesus is the Lord, and shalt believe in thine heart that God hath raised Him from the dead, thou shall be saved. For with the heart man believeth unto righteousness, and with the mouth confession is made unto salvation.”8 Accordingly, we read in the Ac of the Apostles, “Purifying their hearts by faith;”9 and, says the blessed Peter in his epistle, “Even as baptism doth also now save us, not the putting away of the filth of the flesh, but the answer10 of a good conscience.” “This is the word of faith which we preach,” whereby baptism, doubtless, is also consecrated, in order to its possession of the power to cleanse. For Christ, who is the vine with us, and the husbandman with the Father, “loved the Church, and gave Himself for it.” And then read the apostle, and see what he adds: “That He might sanctify it, cleansing it with the washing of water by the word.”11 The cleansing, therefore, would on no account be attributed to the fleeting and perishable element, were it not for that which is added, “by the word.” This word of faith possesses such virtue in the Church of God, that through the medium of him who in faith presents, and blesses, and sprinkles it, He cleanseth even the tiny infant, although itself unable as yet with the heart to believe unto righteousness, and to make confession with the mouth unto salvation. All this is done by means of the word, whereof the Lord saith, “Now ye are clean through the word which I have spoken unto you.”
1 1Tm 2,5
2 Hebrew ynDm, pass. part. of rDm, to depart [from God], and so, perhaps, “stragglers,” i.e. “straggling branches of [a strange vine];” or, as in English version, “degenerate branches,” rather than as in text, where Augustin gives, in amaritudinem, vitis aliena, following the LXX., which reads, “ajllotriva.” The Vulgate is better: in pravum, vinea aliena.-Tr.
3 Jr 2,21
4 Is 5,4
5 Chap. 14,28.
6 1Co 3,5-7
7 Chap. 13,10.
8 Rm 10,10
9 Ac 15,9
10 Literally, “questioning,” interrogatio, 1P 3,21.
11 Ep 5,25-26
Sette (e sette non è un numero casuale perché indica la pienezza) le immagini che Gesù accosta all’espressione: “Io sono”, rivelando una particolare dimensione di se stesso: io sono il pane della vita (Gv 6,35), io sono la luce del mondo (Gv 8,12), io sono la porta delle pecore (Gv10,7), io sono il buon pastore (Gv 10,11), io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,15), io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6), io sono la vite vera (Gv 15,1).