venerdì 27 gennaio 2023

La gioia è la legge fondamentale del cristiano perché implica l’amore.

IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 29 gennaio 2023

Rito Romano

Sof 2,3;3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12

 

Rito Ambrosiano

Sir 7, 27-30. 32-36; Sal 127; Col 3, 12-21; Lc 2, 22-33

Ultima Domenica di gennaio

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – Festa

 

            1) La legge delle Beatitudini.

            Il Vangelo di oggi ci propone le beatitudini, che sono così conosciute, citate e commentate che rischiamo di pensare di conoscerle già e di non avere bisogno di rileggerle, di meditarle di nuovo per meglio comprenderle e metterle in pratica.

            La prima parola che Gesù ha detto nel Discorso della Montagna è: “Beati[1]” (Mt 5, 2). Quale nuovo Mosé, il Messia è salito sulla montagna e da questa cattedra dà la legge che afferma la gioia come un dovere per il cristiano. In effetti, le Beatitudini nel Vangelo di san Matteo rispondono al Decalogo del Libro dell’Esodo. La prima alleanza fatta fra Dio e il popolo di Israele fu ratificata con dono della Legge e con l’accettazione da parte d’Israele di questa divina volontà. Anche la Nuova Alleanza comincia con la legge, ma la legge della Nuova Alleanza sono le Beatitudini[2] ed è ratificata dal nostro “sì”, “fiat”, “amen”, grazie al quale in noi, come prima di tutti, in Maria, la gioia si è fatta carne ed ha messo la sua dimorata tra e in noi.

            La legge cristiana, i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa, tutti si realizzano nel fatto stesso che abbiamo la gioia, che è Cristo, la gioia che deriva dal possesso di Dio, la gioia che deriva dal fatto che non soltanto siamo amati e crediamo all’amore, ma a quest’amore rispondiamo donandoci totalmente al Signore. E in ciò sta la felicità: di amare perché amati.

            La Legge dell’Antico Testamento è portato a pienezza dal dono della “Legge delle Beatitudini” del Nuovo Testamento. Questo dono ci fa capire come effettivamente l’unica legge del cristiano non può essere che la gioia, dal momento che tutte le Beatitudini iniziano sempre con la stessa parola: “beati”. “Beati” perché poveri, “beati” perché miti, “beati” perché puri di cuore, “beati” perseguitati: comunque, sempre “beati”. Le beatitudini sono leggi  donate da Cristo per indicarci la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua Passione e della sua Risurrezione. Le Beatitudini “illuminano le azioni e le disposizioni caratteristiche della vita cristiana; sono le promesse paradossali che, nelle tribolazioni, sorreggono la speranza; annunziano le benedizioni e le ricompense già oscuramente anticipate ai discepoli; sono inaugurate nella vita della Vergine e di tutti i Santi” (CCC 1717). 

            Le Beatitudini sono una promessa di pienezza di vita e una legge che indica un programma di vita lieta. Tuttavia non si deve pensare alle beatitudini come a gioie esenti da prove e sofferenze, come a uno “stare bene” puramente terrestre. Si deve comprenderle come possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha un senso (cioè una direzione e un significato), fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. Va anche ricordato che questa felicità la si misura alla fine del percorso di sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

            Vivere le Beatitudini è vivere come Cristo, ma è difficile, in effetti il cristianesimo “non è facile, ma felice” (Paolo VI).

 

 

            2) Ritratto di Cristo e nostro. 

            Le beatitudini non sono solo la nuova legge che Cristo promulga, esse “dipingono il suo santo volto e ne descrivono la carità” (CCC 1717), facendo emergere i tratti della sua figura e mettendo in evidenza il suo modo di pensare e di agire che dobbiamo fare nostro con amore.

            Da una parte, le beatitudini rappresentano il ritratto del Figlio di Dio venuto fra noi, dall’altra, descrivono le caratteristiche dello discepolo che, nella sequela del Maestro, per la forza dello Spirito, vive l’imitazione del suo Signore, lasciandosi abitare da Lui.  Dunque, mettiamo in pratica e beatitudini per divenire uomini nuovi con la grazia che ci viene da Gesù: in esse riconosciamo il progetto e il percorso della santità secondo il Vangelo, perché il santo non è che l’uomo nuovo reso tale da Cristo.

            Quello che Cristo esige non è soltanto di essere santi, perfetti nell’amore (Siate perfetti com'è perfetto il Padrevostro che è nei cieli” - Mt 5, 48), ma di essere beati, felici nella nostra perfezione, perché la santità non può essere distinta dalla felicità. 

            Ma se la beatitudine suppone la perfezione, che cos’è perfezione? 

            È la presenza nel nostro cuore di Dio a cui abbiamo detto di “sì”.

            E’ il vivere la vita stessa di Dio, il quale si dona a ciascuno di noi. 

            Di conseguenza, è importante che ciascuno di noi diventi consapevole di questo dono che abbiamo ricevuto. E, nella misura che ne saremo consapevole, nella misura che veramente crederemo in questo dono, nella stessa misura faremo esperienza della gioia, che è esperienza di essere amati.

            Ma il tema della gioia non lo troviamo solamente nel Vangelo di oggi. Tutta la Liturgia della Parola di questa domenica mette in risalto la gioia, partendo in primo luogo dalla beatitudine della povertà, come appare dal ritornello del salmo responsoriale, dalla lettura di Sofonia e dallo stesso passo della prima lettera ai Corinti, dove Paolo dice che Dio si serve di quelli che non contano per confondere il mondo. “Beati i poveri” implica certamente un invito a mettere al centro della propria attenzione i poveri. Il povero di spirito è colui che si fida di Dio, attende da Dio, ripone la sua fiducia unicamente in Dio. Come la intende San Matteo la povertà di spirito non è riducibile a un astratto e generico distacco dai beni. Al contrario, è un atteggiamento concreto e pubblico, il cui contenuto è determinato dalle beatitudini successive: la costruzione della pace, la fame di giustizia, la misericordia, la limpidezza interiore. Tutti atteggiamenti concreti e attivi. Pur mettendo in primo piano atteggiamenti interiori e spirituali, San Matteo non dimentica di invitare a un concreto e coraggioso impegno per la giustizia e la pace.

            Ecco dunque la legge cristiana: l’essere contenti, l’esser beati nell’amore ricevuto e condiviso con spirito di povertà.

            Con questa descrizione esistenziale che è proposta come legge, il Redentore risponde all’innato desiderio di felicità, il quale è di origine divina. Dio l’ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare. “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche prima che venga esposta in tutta la sua portata (Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 3, 4: PL 32, 1312). “Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di Te” (Sant'Agostino, Conf., 10, 20, 29). 

            “Dio solo sazia” (San Tommaso d’Aquino, Expositio in symb. Ap. 1). E’ per questo che è giusto e doveroso riconoscere che la gioia delle beatitudini trova il suo fondamento nella certezza di un futuro felice, in comunione con Dio e dono di Dio, e insieme nella gioiosa scoperta che già ora è possibile pregustare un modo nuovo di vivere. 

            

            3) Le beatitudini e la vita consacrata nel mondo.

            Il mondo pone il fondamento della propria gioia nel possesso dei beni, nel successo, o in altre cose simili. Invece Cristo con il Vangelo della gioia ci invita a mettere il fondamento della nostra gioia nel suo amore ed assomigliargli assumendo i suoi paradossali tratti di uomo vero, perché povero, mite, umile, piangente, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, artigiano di pace, perseguitato per la giustizia (cfr. Mt. 5, 3 – 10)

            Un modo significativo di imitare Cristo e mettere in pratica le beatitudini è quello delle vergini consacrate nel mondo. Con il dono totale di se stesse, queste donne testimoniano che è possibile essere felici e non lasciarsi affascinare dalle cose del mondo pur vivendoci. Davanti alle cose umane siamo come gli antichi greci davanti alla Medusa: rimanevano pietrificati. E noi stessi rimaniamo pietrificati e non abbiamo più la capacità di credere, di andare fino a Dio. Le cose terrene hanno un potere affascinatore; non soltanto ci strappano a Dio, ma ci paralizzano, ti impediscono di accedere a Lui, ci impediscono di avere una vera esperienza di quella che è la nostra vera ricchezza, Dio stesso.  Questa consacrate ci ricordano che Dio solo sazia (San Tommaso d'Aquino, Expositio in symb. Ap. 1), che Dio solo basta (Santa Teresa d’Avila[3]), che il nostro corpo vive della nostra anima e la nostra anima vive di Dio, cercando il quale cerchiamo la felicità (Cfr. Sant’Agostino, Confessioni, 10, 20, 29). E trovando Dio, troviamo la vera ed eterna felicità (P. Olivier Marie).

 

Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Sermo 53, 1-6.9

 

Chi sono i veri beati

 

       "Tutti vogliono essere beati. Chi - però - è povero di spirito?" Nella festa di questa vergine santa, che dette testimonianza a Cristo e la meritò da lui, uccisa pubblicamente e coronata in segreto, ammaestriamo la Carità vostra con quella esortazione che il Signore pronunciava nel suo Vangelo, annunziando molte cause della vita beata, che nessuno dice di non volere. In verità, non esiste chi non voglia essere beato. Ma che gli uomini non ricusino di sottostare alle condizioni richieste, così come desiderano ricevere la pattuita mercede! Chi non correrebbe celermente, quando gli si dice: Sarai beato? Ascolta volentieri, e quando vien detto: Se avrai fatto questo, non si ricusi l’impegno, se si aspira al premio; e si accenda l’animo all’alacrità dell’opera con l’aiuto della ricompensa. Ciò che vogliamo ciò che desideriamo, ciò che chiediamo, sarà dopo: ciò che, al contrario, ci viene ordinato di fare, in vista di ciò che verrà dopo, sia ora. Ecco, comincia a rimeditare i detti divini, ivi compresi i precetti e i pesi evangelici: "Beati i poveri di spirito poiché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Dopo, sarà tuo il regno dei cieli; ora, sii povero di spirito . Vuoi che dopo sia tuo il regno dei cieli? Guarda di chi sei tu ora. Sii povero di spirito. Chiedi forse di sapere che significa essere povero di spirito? Chi è superbo non è povero di spirito: quindi l’umile è povero di spirito. Alto è il regno dei cieli: "ma, chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11).

 

       "Chi è il mite?" Sta attento a qual che segue: "Beati", egli aggiunge, "i miti, perché possederanno la terra" (Mt 5,5). Ora tu vuoi possedere la terra: bada, però, di non essere posseduto dalla terra. Possederà il mite, sarà posseduto il non-mite. E, quando ascolti del premio promesso e cioè che possederai la terra, non dilatare il grembo dell’avarizia, con la quale vuoi possedere ora la terra, con esclusione persino del tuo vicino: non ti inganni una tale opinione. Possederai la terra solo quando aderirai a colui che ha fatto il cielo e la terra. Questo infatti significa essere mite: non resistere al tuo Dio, affinché in ciò che fai di bene, ti piaccia egli e non te stesso; mentre in ciò che giustamente soffri di male, non sia egli a dispiacerti, bensì te stesso. Infatti, non è piccola cosa se cercherai di piacere a lui dispiacendoti; dispiaceresti a lui, per contro, piacendo a te stesso.

 

       "Coloro che piangono". Fa’ attenzione al terzo: "Beati coloro che piangono, perché saranno consolati" (Mt 5,4). Nel lutto è l’impegno, nella consolazione la ricompensa. Infatti, coloro che piangono carnalmente, quali consolazioni hanno? Temibili molestie. Sarà consolato chi piange, se teme di non piangere ancora. Ad esempio, il figlio morto contrista mentre dà gioia il nato: quello è tolto via, questo è accolto, in quello è tristezza in questo timore: in nessuno quindi è consolazione. Dunque, vera consolazione sarà quella che vien data e non può essere tolta; cosicché quelli che amano essere consolati dopo, ora piangono da pellegrini.

 

       "Gli affamati". Ed ecco il quarto, opera e servizio: "Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5,6). Tu vuoi essere saziato. Donde? Se brami la sazietà di carne - una digerita sazietà -, tornerai ad aver fame. "E chi beve di quest’acqua, tornerà ad avere sete" (Jn 4,13), egli dice. La medicina che si applica ad una ferita, non fa più male, se è riuscita a risanarla; per contro, ciò che si applica alla fame, quasi esca, si risolve a poco. Infatti, passata la sazietà, ritorna la fame. Arriva perciò quotidianamente il rimedio di sazietà, ma non è risanata la ferita dell’infermità. Abbiamo fame quindi, e saziamoci di giustizia, affinché dalla medesima giustizia possiamo essere saziati, della quale ora abbiamo fame e sete. Saremo in effetti saziati di quello di cui abbiamo fame e sete. Il nostro uomo interiore abbia fame e sete: egli ha in effetti il suo cibo e la sua bevanda. "Io sono", spiega egli, "il pane che è disceso dal cielo" (Jn 6,41). Ora che hai il pane dell’affamato, desidera anche la bevanda dell’assetato: "Poiché presso di te è la fonte della vita" (Ps 35,10).

 

       "I misericordiosi". Ora, attento al seguito che dice: "Beati i misericordiosi, poiché di loro Dio avrà misericordia" (Mt 5,7). Fa’ e sarà fatto: fa’ con l’altro, perché sia fatto a te. Infatti, tu abbondi e difetti: abbondi di cose temporali, difetti delle eterne. Ascolti il mendicante e sei tu stesso mendico di Dio. Ti si chiede, e chiedi a tua volta. E come avrai agito con il tuo richiedente, così Dio agirà con il suo. Sei pieno e vuoto ad un tempo: riempi il vuoto della tua pienezza, affinché la tua vuotaggine sia riempita della pienezza di Dio.

 

       "I puri di cuore". Ascolta quel che segue: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8). Questo è il fine del nostro amore, il fine per cui ci perfezioniamo, per cui ci consumiamo. Si finisce il cibo, si finisce il vestito: il cibo, perché si consuma mangiando; il vestito, perché si finisce [si porta a termine] tessendo. E di questo e di quello si dice del pari che finisce: ma questa fine tende alla consumazione, quella alla perfezione. Qualunque cosa facciamo, o facciamo bene, sosteniamo, lodevolmente ci scaldiamo, incolpevolmente desideriamo, quando sarà pervenuto alla visione di Dio, non lo ricercheremo più. Cosa cerca in effetti colui al quale si fa presente Dio? O cosa potrà bastare a colui al quale non basta Dio? Noi vogliamo vedere Dio, chiediamo di vedere Dio, ardiamo dal desiderio di vedere Dio. Chi mai non è d’accordo? Ma, osserva quel che è detto: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Questo prepara, affinché tu veda. In effetti, per parlare secondo la carne, a che pro desideri il sorgere del sole con occhi cisposi? Siano sani gli occhi, e quella luce sarà una gioia: non sono sani gli occhi, quella luce risulterà un tormento. Non ti sarà permesso infatti di vedere con cuore non-puro, poiché non si vede che con cuore puro. Sarai respinto, sarai allontanato, non vedrai. "Beati", infatti, "i puri di cuore, perché vedranno Dio". Quanti beati ho già enumerato? Quali cause di beatitudine, quali opere, quali doveri, quali meriti, quali premi? Non è detto in alcun luogo. "Essi vedranno Dio. Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti: possederanno la terra. Beati quelli che piangono: saranno consolati. Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia: saranno saziati. Beati i misericordiosi: troveranno misericordia". Da nessuna parte è detto: Essi vedranno Dio. Arrivati però ai puri di cuore, ecco che qui si promette la visione di Dio.

 

       "In che senso la visione di Dio è promessa specificamente ai puri di cuore". Quindi, non che tu debba intendere quei precetti e quei premi nel senso che ascoltando: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio", tu ritenga che i poveri di spirito non vedranno, o non vedranno i miti, o coloro che piangono, o quelli che hanno fame e sete della giustizia, oppure i misericordiosi. Non argomenterai che, visto che questi vedranno in quanto puri di cuore, quelli siano separati dalla visione. Tutte queste cose sono infatti comuni a tutti loro. Essi vedranno, però non vedranno specificamente per questo e cioè perché poveri di spirito, perché miti, o perché piangono, hanno fame e sete della giustizia, o perché sono misericordiosi: ma anche perché sono puri di cuore. Di modo che, se determinate opere corporali si addicono a determinate membra del corpo, sì che si può dire, ad esempio: Beati coloro che hanno i piedi, perché cammineranno; beati coloro che hanno le mani, perché opereranno, beati coloro che hanno la voce, perché grideranno; beati coloro che hanno bocca e lingua, perché parleranno; beati coloro che hanno gli occhi, perché così potranno vedere? In tal modo, quasi componendo delle membra spirituali, egli [Gesù] insegnò ciò che è pertinente ad uno in rapporto con l’altro. Adatta è l’umiltà per avere il regno dei cieli; atta la mansuetudine per possedere la terra; adatte fame e sete di giustizia per essere saziati; atta la misericordia per implorare misericordia; adatto un cuore puro per vedere Dio.

 



[1] La traduzione con l’aggettivo “beati” del termine greco “makárioi” da dove viene pure l’espressione “magari” non rende adeguatamente il significato che questo aggettivo ha in greo. “Beati” non va inteso solamente come un aggettivo, ma come un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cfr. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cfr. Mt 23,13-32Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cfr Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola.

[2] Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l'antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l'etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell'Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5,17s). Comunque è importante sottolineare che Gesù non intende di abolire il Decalogo, al contrario, lo rafforza.

 

[3] La preghiera completa di Santa Teresa d’Avila è: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace”.

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