venerdì 27 gennaio 2023

La gioia è la legge fondamentale del cristiano perché implica l’amore.

IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 29 gennaio 2023

Rito Romano

Sof 2,3;3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12

 

Rito Ambrosiano

Sir 7, 27-30. 32-36; Sal 127; Col 3, 12-21; Lc 2, 22-33

Ultima Domenica di gennaio

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – Festa

 

            1) La legge delle Beatitudini.

            Il Vangelo di oggi ci propone le beatitudini, che sono così conosciute, citate e commentate che rischiamo di pensare di conoscerle già e di non avere bisogno di rileggerle, di meditarle di nuovo per meglio comprenderle e metterle in pratica.

            La prima parola che Gesù ha detto nel Discorso della Montagna è: “Beati[1]” (Mt 5, 2). Quale nuovo Mosé, il Messia è salito sulla montagna e da questa cattedra dà la legge che afferma la gioia come un dovere per il cristiano. In effetti, le Beatitudini nel Vangelo di san Matteo rispondono al Decalogo del Libro dell’Esodo. La prima alleanza fatta fra Dio e il popolo di Israele fu ratificata con dono della Legge e con l’accettazione da parte d’Israele di questa divina volontà. Anche la Nuova Alleanza comincia con la legge, ma la legge della Nuova Alleanza sono le Beatitudini[2] ed è ratificata dal nostro “sì”, “fiat”, “amen”, grazie al quale in noi, come prima di tutti, in Maria, la gioia si è fatta carne ed ha messo la sua dimorata tra e in noi.

            La legge cristiana, i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa, tutti si realizzano nel fatto stesso che abbiamo la gioia, che è Cristo, la gioia che deriva dal possesso di Dio, la gioia che deriva dal fatto che non soltanto siamo amati e crediamo all’amore, ma a quest’amore rispondiamo donandoci totalmente al Signore. E in ciò sta la felicità: di amare perché amati.

            La Legge dell’Antico Testamento è portato a pienezza dal dono della “Legge delle Beatitudini” del Nuovo Testamento. Questo dono ci fa capire come effettivamente l’unica legge del cristiano non può essere che la gioia, dal momento che tutte le Beatitudini iniziano sempre con la stessa parola: “beati”. “Beati” perché poveri, “beati” perché miti, “beati” perché puri di cuore, “beati” perseguitati: comunque, sempre “beati”. Le beatitudini sono leggi  donate da Cristo per indicarci la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua Passione e della sua Risurrezione. Le Beatitudini “illuminano le azioni e le disposizioni caratteristiche della vita cristiana; sono le promesse paradossali che, nelle tribolazioni, sorreggono la speranza; annunziano le benedizioni e le ricompense già oscuramente anticipate ai discepoli; sono inaugurate nella vita della Vergine e di tutti i Santi” (CCC 1717). 

            Le Beatitudini sono una promessa di pienezza di vita e una legge che indica un programma di vita lieta. Tuttavia non si deve pensare alle beatitudini come a gioie esenti da prove e sofferenze, come a uno “stare bene” puramente terrestre. Si deve comprenderle come possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha un senso (cioè una direzione e un significato), fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. Va anche ricordato che questa felicità la si misura alla fine del percorso di sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

            Vivere le Beatitudini è vivere come Cristo, ma è difficile, in effetti il cristianesimo “non è facile, ma felice” (Paolo VI).

 

 

            2) Ritratto di Cristo e nostro. 

            Le beatitudini non sono solo la nuova legge che Cristo promulga, esse “dipingono il suo santo volto e ne descrivono la carità” (CCC 1717), facendo emergere i tratti della sua figura e mettendo in evidenza il suo modo di pensare e di agire che dobbiamo fare nostro con amore.

            Da una parte, le beatitudini rappresentano il ritratto del Figlio di Dio venuto fra noi, dall’altra, descrivono le caratteristiche dello discepolo che, nella sequela del Maestro, per la forza dello Spirito, vive l’imitazione del suo Signore, lasciandosi abitare da Lui.  Dunque, mettiamo in pratica e beatitudini per divenire uomini nuovi con la grazia che ci viene da Gesù: in esse riconosciamo il progetto e il percorso della santità secondo il Vangelo, perché il santo non è che l’uomo nuovo reso tale da Cristo.

            Quello che Cristo esige non è soltanto di essere santi, perfetti nell’amore (Siate perfetti com'è perfetto il Padrevostro che è nei cieli” - Mt 5, 48), ma di essere beati, felici nella nostra perfezione, perché la santità non può essere distinta dalla felicità. 

            Ma se la beatitudine suppone la perfezione, che cos’è perfezione? 

            È la presenza nel nostro cuore di Dio a cui abbiamo detto di “sì”.

            E’ il vivere la vita stessa di Dio, il quale si dona a ciascuno di noi. 

            Di conseguenza, è importante che ciascuno di noi diventi consapevole di questo dono che abbiamo ricevuto. E, nella misura che ne saremo consapevole, nella misura che veramente crederemo in questo dono, nella stessa misura faremo esperienza della gioia, che è esperienza di essere amati.

            Ma il tema della gioia non lo troviamo solamente nel Vangelo di oggi. Tutta la Liturgia della Parola di questa domenica mette in risalto la gioia, partendo in primo luogo dalla beatitudine della povertà, come appare dal ritornello del salmo responsoriale, dalla lettura di Sofonia e dallo stesso passo della prima lettera ai Corinti, dove Paolo dice che Dio si serve di quelli che non contano per confondere il mondo. “Beati i poveri” implica certamente un invito a mettere al centro della propria attenzione i poveri. Il povero di spirito è colui che si fida di Dio, attende da Dio, ripone la sua fiducia unicamente in Dio. Come la intende San Matteo la povertà di spirito non è riducibile a un astratto e generico distacco dai beni. Al contrario, è un atteggiamento concreto e pubblico, il cui contenuto è determinato dalle beatitudini successive: la costruzione della pace, la fame di giustizia, la misericordia, la limpidezza interiore. Tutti atteggiamenti concreti e attivi. Pur mettendo in primo piano atteggiamenti interiori e spirituali, San Matteo non dimentica di invitare a un concreto e coraggioso impegno per la giustizia e la pace.

            Ecco dunque la legge cristiana: l’essere contenti, l’esser beati nell’amore ricevuto e condiviso con spirito di povertà.

            Con questa descrizione esistenziale che è proposta come legge, il Redentore risponde all’innato desiderio di felicità, il quale è di origine divina. Dio l’ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare. “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche prima che venga esposta in tutta la sua portata (Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 3, 4: PL 32, 1312). “Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di Te” (Sant'Agostino, Conf., 10, 20, 29). 

            “Dio solo sazia” (San Tommaso d’Aquino, Expositio in symb. Ap. 1). E’ per questo che è giusto e doveroso riconoscere che la gioia delle beatitudini trova il suo fondamento nella certezza di un futuro felice, in comunione con Dio e dono di Dio, e insieme nella gioiosa scoperta che già ora è possibile pregustare un modo nuovo di vivere. 

            

            3) Le beatitudini e la vita consacrata nel mondo.

            Il mondo pone il fondamento della propria gioia nel possesso dei beni, nel successo, o in altre cose simili. Invece Cristo con il Vangelo della gioia ci invita a mettere il fondamento della nostra gioia nel suo amore ed assomigliargli assumendo i suoi paradossali tratti di uomo vero, perché povero, mite, umile, piangente, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, artigiano di pace, perseguitato per la giustizia (cfr. Mt. 5, 3 – 10)

            Un modo significativo di imitare Cristo e mettere in pratica le beatitudini è quello delle vergini consacrate nel mondo. Con il dono totale di se stesse, queste donne testimoniano che è possibile essere felici e non lasciarsi affascinare dalle cose del mondo pur vivendoci. Davanti alle cose umane siamo come gli antichi greci davanti alla Medusa: rimanevano pietrificati. E noi stessi rimaniamo pietrificati e non abbiamo più la capacità di credere, di andare fino a Dio. Le cose terrene hanno un potere affascinatore; non soltanto ci strappano a Dio, ma ci paralizzano, ti impediscono di accedere a Lui, ci impediscono di avere una vera esperienza di quella che è la nostra vera ricchezza, Dio stesso.  Questa consacrate ci ricordano che Dio solo sazia (San Tommaso d'Aquino, Expositio in symb. Ap. 1), che Dio solo basta (Santa Teresa d’Avila[3]), che il nostro corpo vive della nostra anima e la nostra anima vive di Dio, cercando il quale cerchiamo la felicità (Cfr. Sant’Agostino, Confessioni, 10, 20, 29). E trovando Dio, troviamo la vera ed eterna felicità (P. Olivier Marie).

 

Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Sermo 53, 1-6.9

 

Chi sono i veri beati

 

       "Tutti vogliono essere beati. Chi - però - è povero di spirito?" Nella festa di questa vergine santa, che dette testimonianza a Cristo e la meritò da lui, uccisa pubblicamente e coronata in segreto, ammaestriamo la Carità vostra con quella esortazione che il Signore pronunciava nel suo Vangelo, annunziando molte cause della vita beata, che nessuno dice di non volere. In verità, non esiste chi non voglia essere beato. Ma che gli uomini non ricusino di sottostare alle condizioni richieste, così come desiderano ricevere la pattuita mercede! Chi non correrebbe celermente, quando gli si dice: Sarai beato? Ascolta volentieri, e quando vien detto: Se avrai fatto questo, non si ricusi l’impegno, se si aspira al premio; e si accenda l’animo all’alacrità dell’opera con l’aiuto della ricompensa. Ciò che vogliamo ciò che desideriamo, ciò che chiediamo, sarà dopo: ciò che, al contrario, ci viene ordinato di fare, in vista di ciò che verrà dopo, sia ora. Ecco, comincia a rimeditare i detti divini, ivi compresi i precetti e i pesi evangelici: "Beati i poveri di spirito poiché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Dopo, sarà tuo il regno dei cieli; ora, sii povero di spirito . Vuoi che dopo sia tuo il regno dei cieli? Guarda di chi sei tu ora. Sii povero di spirito. Chiedi forse di sapere che significa essere povero di spirito? Chi è superbo non è povero di spirito: quindi l’umile è povero di spirito. Alto è il regno dei cieli: "ma, chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11).

 

       "Chi è il mite?" Sta attento a qual che segue: "Beati", egli aggiunge, "i miti, perché possederanno la terra" (Mt 5,5). Ora tu vuoi possedere la terra: bada, però, di non essere posseduto dalla terra. Possederà il mite, sarà posseduto il non-mite. E, quando ascolti del premio promesso e cioè che possederai la terra, non dilatare il grembo dell’avarizia, con la quale vuoi possedere ora la terra, con esclusione persino del tuo vicino: non ti inganni una tale opinione. Possederai la terra solo quando aderirai a colui che ha fatto il cielo e la terra. Questo infatti significa essere mite: non resistere al tuo Dio, affinché in ciò che fai di bene, ti piaccia egli e non te stesso; mentre in ciò che giustamente soffri di male, non sia egli a dispiacerti, bensì te stesso. Infatti, non è piccola cosa se cercherai di piacere a lui dispiacendoti; dispiaceresti a lui, per contro, piacendo a te stesso.

 

       "Coloro che piangono". Fa’ attenzione al terzo: "Beati coloro che piangono, perché saranno consolati" (Mt 5,4). Nel lutto è l’impegno, nella consolazione la ricompensa. Infatti, coloro che piangono carnalmente, quali consolazioni hanno? Temibili molestie. Sarà consolato chi piange, se teme di non piangere ancora. Ad esempio, il figlio morto contrista mentre dà gioia il nato: quello è tolto via, questo è accolto, in quello è tristezza in questo timore: in nessuno quindi è consolazione. Dunque, vera consolazione sarà quella che vien data e non può essere tolta; cosicché quelli che amano essere consolati dopo, ora piangono da pellegrini.

 

       "Gli affamati". Ed ecco il quarto, opera e servizio: "Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5,6). Tu vuoi essere saziato. Donde? Se brami la sazietà di carne - una digerita sazietà -, tornerai ad aver fame. "E chi beve di quest’acqua, tornerà ad avere sete" (Jn 4,13), egli dice. La medicina che si applica ad una ferita, non fa più male, se è riuscita a risanarla; per contro, ciò che si applica alla fame, quasi esca, si risolve a poco. Infatti, passata la sazietà, ritorna la fame. Arriva perciò quotidianamente il rimedio di sazietà, ma non è risanata la ferita dell’infermità. Abbiamo fame quindi, e saziamoci di giustizia, affinché dalla medesima giustizia possiamo essere saziati, della quale ora abbiamo fame e sete. Saremo in effetti saziati di quello di cui abbiamo fame e sete. Il nostro uomo interiore abbia fame e sete: egli ha in effetti il suo cibo e la sua bevanda. "Io sono", spiega egli, "il pane che è disceso dal cielo" (Jn 6,41). Ora che hai il pane dell’affamato, desidera anche la bevanda dell’assetato: "Poiché presso di te è la fonte della vita" (Ps 35,10).

 

       "I misericordiosi". Ora, attento al seguito che dice: "Beati i misericordiosi, poiché di loro Dio avrà misericordia" (Mt 5,7). Fa’ e sarà fatto: fa’ con l’altro, perché sia fatto a te. Infatti, tu abbondi e difetti: abbondi di cose temporali, difetti delle eterne. Ascolti il mendicante e sei tu stesso mendico di Dio. Ti si chiede, e chiedi a tua volta. E come avrai agito con il tuo richiedente, così Dio agirà con il suo. Sei pieno e vuoto ad un tempo: riempi il vuoto della tua pienezza, affinché la tua vuotaggine sia riempita della pienezza di Dio.

 

       "I puri di cuore". Ascolta quel che segue: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8). Questo è il fine del nostro amore, il fine per cui ci perfezioniamo, per cui ci consumiamo. Si finisce il cibo, si finisce il vestito: il cibo, perché si consuma mangiando; il vestito, perché si finisce [si porta a termine] tessendo. E di questo e di quello si dice del pari che finisce: ma questa fine tende alla consumazione, quella alla perfezione. Qualunque cosa facciamo, o facciamo bene, sosteniamo, lodevolmente ci scaldiamo, incolpevolmente desideriamo, quando sarà pervenuto alla visione di Dio, non lo ricercheremo più. Cosa cerca in effetti colui al quale si fa presente Dio? O cosa potrà bastare a colui al quale non basta Dio? Noi vogliamo vedere Dio, chiediamo di vedere Dio, ardiamo dal desiderio di vedere Dio. Chi mai non è d’accordo? Ma, osserva quel che è detto: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Questo prepara, affinché tu veda. In effetti, per parlare secondo la carne, a che pro desideri il sorgere del sole con occhi cisposi? Siano sani gli occhi, e quella luce sarà una gioia: non sono sani gli occhi, quella luce risulterà un tormento. Non ti sarà permesso infatti di vedere con cuore non-puro, poiché non si vede che con cuore puro. Sarai respinto, sarai allontanato, non vedrai. "Beati", infatti, "i puri di cuore, perché vedranno Dio". Quanti beati ho già enumerato? Quali cause di beatitudine, quali opere, quali doveri, quali meriti, quali premi? Non è detto in alcun luogo. "Essi vedranno Dio. Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti: possederanno la terra. Beati quelli che piangono: saranno consolati. Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia: saranno saziati. Beati i misericordiosi: troveranno misericordia". Da nessuna parte è detto: Essi vedranno Dio. Arrivati però ai puri di cuore, ecco che qui si promette la visione di Dio.

 

       "In che senso la visione di Dio è promessa specificamente ai puri di cuore". Quindi, non che tu debba intendere quei precetti e quei premi nel senso che ascoltando: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio", tu ritenga che i poveri di spirito non vedranno, o non vedranno i miti, o coloro che piangono, o quelli che hanno fame e sete della giustizia, oppure i misericordiosi. Non argomenterai che, visto che questi vedranno in quanto puri di cuore, quelli siano separati dalla visione. Tutte queste cose sono infatti comuni a tutti loro. Essi vedranno, però non vedranno specificamente per questo e cioè perché poveri di spirito, perché miti, o perché piangono, hanno fame e sete della giustizia, o perché sono misericordiosi: ma anche perché sono puri di cuore. Di modo che, se determinate opere corporali si addicono a determinate membra del corpo, sì che si può dire, ad esempio: Beati coloro che hanno i piedi, perché cammineranno; beati coloro che hanno le mani, perché opereranno, beati coloro che hanno la voce, perché grideranno; beati coloro che hanno bocca e lingua, perché parleranno; beati coloro che hanno gli occhi, perché così potranno vedere? In tal modo, quasi componendo delle membra spirituali, egli [Gesù] insegnò ciò che è pertinente ad uno in rapporto con l’altro. Adatta è l’umiltà per avere il regno dei cieli; atta la mansuetudine per possedere la terra; adatte fame e sete di giustizia per essere saziati; atta la misericordia per implorare misericordia; adatto un cuore puro per vedere Dio.

 



[1] La traduzione con l’aggettivo “beati” del termine greco “makárioi” da dove viene pure l’espressione “magari” non rende adeguatamente il significato che questo aggettivo ha in greo. “Beati” non va inteso solamente come un aggettivo, ma come un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cfr. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cfr. Mt 23,13-32Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cfr Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola.

[2] Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l'antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l'etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell'Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5,17s). Comunque è importante sottolineare che Gesù non intende di abolire il Decalogo, al contrario, lo rafforza.

 

[3] La preghiera completa di Santa Teresa d’Avila è: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace”.

giovedì 19 gennaio 2023

Conversione è staccarsi dal male per aderire al bene: Cristo, e camminare con Lui

III Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 22 gennaio 2023

Rito Romano

Is 8,23b - 9,3; Sal 26; 1 Cor 1,10-13. 17; Mt 4,12-23

 

Rito Ambrosiano

Es 16,2-7a.13b-18-17; Sal 104; 2Cor 8, 7-15; Lc 9,10b-17

III Domenica dopo l’Epifania

 

            1) Conversione e Carità.

            Domenica scorsa il Vangelo di San Matteo ci ha ricordato che Cristo Gesù è l’Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo. In questa Domenica lo stesso Evangelista ci propone le prime parole della predicazione di Gesù, Agnello senza macchia, che ha preso su di sé il peccato e che dice: “Convertitevi (in greco “metanoeite”), perché il Regno dei Cieli è vicino” (Mt 4, 17). 

            Il verbo greco usato da San Matteo ha come sostantivo “metanoia”, cioè “cambiamento di mente”, ed indica che la penitenza è profondo e completo mutamento della mente e del cuore sotto l’influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno dei Cieli. 

            Non va però dimenticato che penitenza vuol dire anche cambiamento di vita in coerenza con quello del cuore. E dunque se la penitenza è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano, si può giustamente affermare che non si ha vita cristiana senza conversione.

            A questo punto è importante precisare che è la carità che fa la vita cristiana e che la carità è conversione, perché tutto il nostro essere si volge a Dio. Nella conversione il nostro cuore e la nostra mente si rivolgono completamente a Dio. “Conversio” vuol dire volgersi. Che cos’è questo volgersi? Il voltarsi verso Cristo non è tanto un moto materiale, è un movimento spirituale dal male al bene, con il fermo proposito di vivere di Lui, in Lui e per Lui.  

            Noi dobbiamo quindi interpretare l’imperativo d’amore: “Convertitevi” solamente come l’invito a pentirsi dei propri peccati, è l’indicare la necessità di rivoluzionare la vita. E’ come se Gesù dicesse: “Cambiate logica”, “Cambiate strade, non vedete che quella dove siete è un cammino che non conduce alla vita ma alla morte?” E’ l’offerta di un'opportunità: “Venite con me. Dove sono io la vita c’è, è vera e duratura”.

            E’ questo quello che il Redentore intende dire: “Cambiate modo di pensare e di agire perché il regno si è fatto vicino. Che cos’è il regno dei cieli, o di Dio? È la vita vera che fiorisce in tutte le sue forme. Il regno è di Dio, ma è per gli uomini che Dio ama paternamente e eternamente, davvero per sempre.

            Va tenuto presente che la conversione non è fatto una volta per tutte, è la vocazione della vita. Qualcuno può pensare che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell’Eucaristia, si arriva alla perfezione donata nel Battesimo e riconfermata nell’Eucaristia e si arriva a mettere in pratica il Discorso della Montagna. Non è così. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo e da Lui rinnovati. Per questo abbiamo bisogno di quella conversione permanente, che si alimenta all’umiltà di saperci peccatori in cammino, finché il Signore ci dia la mano definitivamente e ci introduca nella vita eterna. In questo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, dobbiamo vivere.

            Per il fatto che ci siamo convertiti a Gesù, il quale è verità e amore, dobbiamo seguirlo per tutta la vita ed essere testimoni del suo amore. Dio è amore, e l’incontro con Lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, che apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che “nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24).     L’importante dunque è far crescere in noi il bisogno di riporre in Dio solo l’unica nostra mia speranza.

            2) Conversione e vocazione.

            La conversione non è un cammino a ritroso, all’indietro. La conversione è sì un ritorno a casa, ma è una dimora di cielo. Il nostro cammino di conversione è verso l’alto. La conversione cristiana non è soltanto morale (un peccatore che ritrova la via del bene) o religiosa (un ateo che viene alla fede in Dio), ma conversione alla persona di Cristo, “sole che sorge dall’alto” e chiave di volta del destino umano. Convertendoci cioè voltandoci verso Cristo, accade l’incontro che cambia integralmente tutto il nostro modo di pensare e di vivere. E’ un incontro-conversione che fa rinascere dall’Alto (cfr. Gv 3,7) e ci fa capire la nostra vocazione che è di seguire Cristo non tanto per fare delle cose buone ma  per realizzare l’invito di Figlio di Dio: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). 

            Tre sono i livelli di risposta a questa vocazione conversione alla perfezione infinita dell’amore di Dio: 

“Amatevi l’un l’altro come ciascuno ama se stesso”;

“Amatevi come io vi ho amato”;

 “Amate come vi ama il Padre vostro celeste”. 

            Dunque, se prendiamo sul serio l’invito alla conversione evangelica che oggi ci è ridetto, dobbiamo amare comeCristo ci chiede, programmando la nostra vita quotidiana e prendendo le decisioni concrete che questo “amore come” esige.

            Di questi tre “come” oggi sottolineo il terzo perché la vocazione è principalmente volgersi a Dio  per diventare come Lui: “Torna a te. E, una volta rientrato in te, volgiti ancora verso l’Alto: non restare in te. Prima torna a te dal mondo esterno, e poi restituisci te stesso a Colui che ti ha creato, e che ha cercato te, perduto; ha trovato te, fuggitivo; ha convertito te a se stesso, tu che gli avevi voltato le spalle. Torna a te, dunque, e muovi verso di lui che ti ha creato” (Sant’Agostino d’Ippona, Discorso 330, 3). Impresa certamente impossibile senza la grazia continua di Cristo Redentore e dello Spirito Santificatore: la Parola di Dio, i sacramenti, la preghiera, il magistero della Chiesa, le opere di carità, i consigli evangelici, ecc. Si tratta in ultima analisi di diventare letteralmente come Cristo: “Rallegriamoci e rendiamo grazie a Dio: non soltanto siamo diventati cristiani, ma siamo diventati Cristo stesso…Stupite, gioite: siamo diventati Cristo! Se Cristo è il Capo e noi le membra, l’uomo totale è Lui e noi (Id., Commento al Vangelo di Giovanni 21, 8).

 

            3) La vocazione delle vergini consacrate.

            L’invito alla conversione cioè la vocazione è dunque una chiamata alla santità, a diventare come Cristo. Capito ciò, la risposta a questo invito è dire come ha fatto la Madonna: “Eccomi, accada di me secondo la tua parola”. E’, come hanno fatto gli apostoli che subito lasciarono le reti, la barca e la loro famiglia e lo seguirono (cfr Mt 4, 20s).

            Il loro “sì” alla vocazione di Dio,  è stato preceduto da altri “Eccomi”. Quello fiorito sulle labbra di Abramo, di Mosè, di Samuele, Isaia, ecc. E’ come quando si faceva l’appello a scuola ed ognuno con prontezza rispondeva dicendo “presente!”. 

            Cosa ha di misterioso questo “Eccomi” che apre il cuore di Dio, che è la risposta sufficiente a Dio? Per il resto ci pensa Lui ma vuole prima di sentire questo "Eccomi". Vuol dire "Signore sono qui, non fuggo dalla tua presenza, sono disponibile, ti ascolto, il mio cuore è pronto" come dice un Salmo: "Il mio cuore è pronto per te Signore".

            Ogni “Eccomi” è un miracolo della grazia di Dio, è la libertà che misteriosamente si apre alla grazia e oggi questo miracolo è più che mai evidente. Che oggi il Signore chiami con modi più che mai tenui, misteriosi, rispettosi, e che un giovane o una ragazza abbiano il coraggio di chiudere le orecchie a tutte le attrattive del mondo e rispondere “Eccomi” è un miracolo che il nostro cuore, la nostra bocca e la nostra vita permettono a Dio di fare.

            Questo di tutti i cristiane deve essere, e dunque anche il nostro, un “Eccomi” gioioso, entusiastico, stupito perché dentro ci deve essere il senso di essere scelti, di essere stati individuati da Dio, oggetto di una predilezione di Dio.

            Un modo attuale di dire questo “Eccomi” è quello delle vergini consacrate nel mondo. Come diceva sant’Ambrogio: «Le vergini consacrate sono nel mondo segno di vera bellezza».      La bellezza della vita consacrata è anche il tema di fondo dell'Esortazione postsinodale Vita consecrata, sviluppato ampiamente partendo dall'icona della Trasfigurazione. San Giovanni Paolo II scriveva: “ ‘Come è bello restare con te, Signore, dedicarci a te, concentrare in modo esclusivo la nostra esistenza su di te!’. In effetti, chi ha ricevuto la grazia di questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come rapito dal suo fulgore: egli è ‘il più bello tra i figli dell'uomo’ (Sal 45/44, 3” (Ibid. n. 15). 

            Quella dell’Ordo Virginum è una forma di vita che sta ormai diffondendosi costantemente  in tante nazioni.

            Su questo Ordo si esprime chiaramente il CIC (Can 604), così come lo manifestano i testi liturgici (il Rito della consacrazione) e quelli magisteriali anche recenti. Oggi faccio riferimento alla sopracitata Esortazione apostolica, che –secondo me- descrive bene l’Ordo Virginum nella sua specificità, collocandolo subito dopo la menzione della vita monastica, quale forma per così dire germinale delle successive esperienze di vita religiosa e consacrata: “E’ motivo di gioia e di speranza  vedere che torna oggi a fiorire l’antico Ordine delle vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano pur restando nel mondo. Da sole o associate, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l’amore per Cristo Sposo” (n. 7). 

            Quello dell’Ordo Virginum è un carisma antichissimo. Si tratta di una tradizione antica da risuscitare nelle condizioni presenti, con la stessa forza e genialità delle origini. Dunque, non siamo di fronte a una realtà vaga, generica, amorfa; ha invece una sua precisa identità, anche se non facile da descrivere nei particolari. Certo è un carisma da vivere con semplicità e umiltà, come una (non l’unica) via ecclesiale alla santità, come esistenza offerta a Dio con la dedizione silenziosa, gratuita e attenta. 

 

 

Lettura patristica

San Giovanni Crisostomo

In Matth. 14, 1-2

 

  "Da allora Gesù prese a predicare e a dire: «Convertitevi, perché è vicino il regno dei cieli»" (Jn 1,9). Ma quando Gesù comincia a predicare? Da quando Giovanni fu chiuso in prigione. Ma perché non predicò prima? E che bisogno aveva di Giovanni Battista, dato che le sue opere gli rendevano già un’efficace testimonianza? Ecco: perché noi potessimo comprendere maggiormente la sua grandezza: Gesù Cristo ha i suoi profeti, così come il Padre ha avuto i suoi. Proprio questo rileva Zaccaria nel suo cantico: "E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo" (Lc 1,76). Era necessario il precursore, inoltre, perché agli insolenti Giudei non restasse alcuna scusa, come testimonia lo stesso Gesù Cristo con le parole: "È venuto Giovanni, che non mangiava né beveva, e hanno detto: Ha il demonio addosso. È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve ed essi dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Alla sapienza, però, è resa giustizia dai figli suoi" (Mt 11,18-19). E ancora era necessario che tutto quanto riguardava il Cristo fosse manifestato in anticipo da un altro, prima di esserlo da lui stesso. Infatti, se dopo tante testimonianze e dopo tali prove, i Giudei dissero: "Tu rendi testimonianza a te stesso; la tua testimonianza non è valevole" (Jn 8,13), che cosa avrebbero osato dire se, prima che Giovanni avesse parlato, si fosse presentato in pubblico e avesse reso per primo testimonianza in favore di sé?

 

       Ecco ancora perché Gesù non comincia a predicare prima di Giovanni e non compie alcun miracolo, se non dopo che il suo precursore è stato rinchiuso in prigione: nel timore che nascesse qualche scisma tra il popolo. Per la stessa ragione Giovanni non compie miracoli, allo scopo di lasciar accorrere tutta la folla a Gesù, trascinata dai prodigi che il Signore faceva. Infatti, se anche dopo i miracoli operati da Gesù Cristo, i discepoli di Giovanni, sia prima che dopo il suo incarceramento, erano ancora presi da gelosia verso Gesù e molti pensavano che il Messia non fosse lui, bensì Giovanni, che cosa sarebbe accaduto se Dio non avesse preso queste sagge misure?

 

       Ecco le ragioni per cui anche Matteo vuol sottolineare che «da allora» Gesù incominciò a predicare. E, all’inizio della sua predicazione, Gesù insegna ciò che Giovanni ha detto. Nei suoi primi discorsi non parla ancora di se stesso, ma si contenta di predicare la penitenza. Per quel tempo era già abbastanza desiderabile far accettare la penitenza, dato che allora il popolo non aveva ancora di Cristo un’idea sufficientemente adeguata. E all’inizio, non annuncia niente di terribile o di spaventoso, come aveva fatto Giovanni parlando della scure tagliente già posta alle radici dell’albero, del ventilabro che ripulisce l’aia, e di un fuoco inestinguibile. Dapprima, parla soltanto dei beni futuri, rivelando a coloro che lo ascoltano il regno che ha loro preparato nei cieli.

 

       "Gesù camminava lungo il mare di Galilea, quando vide due fratelli: Simone, detto Pietro, e Andrea, suo fratello, che gettavano la loro rete in mare, essendo pescatori. E disse loro: «Seguitemi e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, abbandonando subito le reti, lo seguirono" (Mt 4,18-20). Giovanni evangelista descrive in maniera diversa la chiamata di questi apostoli; è evidente, quindi, che quanto ci narra Matteo è la loro seconda chiamata, come chiunque può costatare anche da molte altre circostanze. Giovanni, infatti, dice esplicitamente che questi due discepoli si avvicinarono a Gesù prima che il precursore fosse incarcerato, mentre quanto Matteo narra qui avvenne dopo l’arresto del Battista. Inoltre, Giovanni precisa che fu Andrea a chiamare Pietro, mentre Matteo dice che Gesù li chiamò tutt’e due. E ancora Giovanni riferisce: "Gesù, vedendo Pietro venire verso di lui, gli disse: Tu sei Simone, figlio di Giona, sarai chiamato Cefa - che vuol dire pietra" (Jn 1,42). Matteo, dal canto suo, lascia intendere che Simone era già chiamato con questo secondo nome, quando dice che Gesù vide «Simone, detto Pietro». Si può, tuttavia, arrivare alla stessa conclusione, riferendosi al luogo ove i due fratelli furono chiamati da Gesù e a parecchie altre circostanze; lo si deduce anche dal fatto che essi gli obbedirono con immediatezza, lasciando tutto quanto possedevano: essi, infatti, erano ormai ben preparati e pronti. Giovanni evangelista ci presenta Andrea, che va a trovare Gesù nella sua casa e che da lui apprende molte cose, mentre qui Matteo riferisce che i due discepoli, udita una sola parola di Gesù, immediatamente lo seguirono. È quindi verosimile che questi apostoli avessero già seguito Gesù prima e che poi lo avessero lasciato; è verosimile inoltre che, quando essi seppero che Giovanni era stato messo in prigione e Gesù si era allontanato, siano tornati nuovamente alla loro antica professione di pescatori nel loro paese; perciò Cristo li ritrova mentre stanno pescando. Quando essi vollero lasciare Gesù la prima volta, egli non lo impedì loro e neppure li abbandonò definitivamente perché allora lo avevano lasciato. Infatti, dopo aver permesso loro di andarsene, torna a loro una seconda volta per riprenderli e guadagnarli alla sua causa: e questo è il modo migliore di pescare gli uomini.

 

       Osservate, ora, la fede e l’obbediente docilità dei discepoli. Gesù parla, mentre essi si trovano nel bel mezzo del loro lavoro (e voi sapete quale occupazione appassionante sia la pesca); ebbene essi, appena sentito il suo invito, non si ritraggono, né rinviano e neppure dicono: Lasciaci andare a casa un momento per parlare con i nostri parenti; ma, abbandonata ogni cosa, lo seguono, come fece un tempo Eliseo nei confronti di Elia. È una obbedienza pronta e perfetta come questa, che Gesù Cristo esige da noi, una obbedienza che esclude ogni ritardo, anche quando vi fossero fortissime ragioni ad ostacolarla. Per questo, quando s’avvicinò a Gesù un altro discepolo, chiedendogli di poter seppellire il padre, Gesù non lo lasciò andare, per dimostrarci che fra tutte le opere la prima e la più necessaria è seguirlo. E se voi osservate che la promessa che egli fa loro è grande, io vi risponderò che li ammiro ancor di più in quanto, senza aver veduto alcun miracolo di Gesù, prestano fede a tale promessa e pospongono tutto per seguirlo. Essi credettero che le parole, dalle quali erano stati pescati, avrebbero consentito anche a loro di pescare un giorno gli altri uomini. Questa, infatti, fu la promessa che Gesù fece.

 

       Ma a Giacomo e a Giovanni non promise niente di simile, perché l’obbedienza dei due primi apostoli aveva già aperto loro la via; e, d’altra parte, essi avevano già udito molte cose sul conto di Gesù e non avevano quindi bisogno di promesse. Considerate ora con quanta cura il Vangelo ci sottolinea le condizioni di povertà di questi discepoli. Gesù li trovò intenti a rattoppare le loro reti (Mt 4,21-22), che erano costretti a riparare non potendo procurarsene altre nuove. Ebbene, è una non mediocre dimostrazione di virtù quella di sopportare senza sforzo la miseria, di vivere del faticoso ma lecito lavoro, di essere uniti fra loro dalla forza dell’amore e di tenere perciò con sé il padre, che servono e mantengono.

 

       Non appena Gesù ebbe chiamato i discepoli, cominciò subito a compiere miracoli in loro presenza, per confermare in tal modo quanto Giovanni Battista aveva detto di lui.

 

 

venerdì 13 gennaio 2023

Il mite Agnello di Dio, innocente e solidale


 II Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 15 gennaio 2023

Rito Romano

Is 49, 3. 5-6; Sal 39; 1 Cor 1, 1-3; Gv 1, 29-34

 

Rito Ambrosiano

Nm 20,2.6-13; Sal 94; Rm 8,22-27; Gv 2,1-11

II Domenica dopo l’Epifania

 

            1) L’Agnello e la Colomba al Giordano e a Messa.

            Dopo il tempo natalizio che si è concluso con la celebrazione delle tre epifanie di Gesù (a Betlemme con i Re magi, sulle rive del Giordano con il Battesimo, a Cana con il miracolo dei 600 litri di acqua trasformata in vino), ecco il tempo ordinario[1], che nel linguaggio corrente evoca non solo quotidianità ma ripetitività e monotonia. Invece, la Chiesa con la sua Liturgia ci invita a vivere il tempo ordinario come prolungamento quotidiano[2] - nella nostra umanità, nella nostra umile storia di ogni giorno - di quello che abbiamo vissuto a Natale.

            Per aiutarci a prolungare nella vita ordinaria quanto è stato celebrato nel tempo  di Natale ormai concluso, il Vangelo di oggi ci propone l’incontro tra Giovanni il Battista e Cristo, che al Giordano comincia il suo quotidiano lavoro di Salvatore. In effetti, Lui ci salva dal peccato prendendolo su di sé in quanto “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29)[3].

            Un giorno, che si prospettava un giorno come un altro, durante il suo “lavoro quotidiano” di predicatore e di battezzatore, Giovanni vide fra la gente, che andava da lui, il Messia da lui tanto atteso. Scorse in un uomo del quale non conosceva l’identità di Figlio di Dio un che di veramente eccezionale. Vide che su quest’Uomo discendeva come colomba lo Spirito di Dio e su di Lui rimaneva (cfr. Gv 1, 32), disse a gran voce “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. 

            Due animali miti e pacifici, immagini di non-violenza e di dolcezza, sono al cuore di questa rivelazione: l’agnello e la colomba.

            Gesù è l’agnello mite e innocente, che si lascia condurre alla morte (cfr. Ger 11,19; Is 53,7), offrendosi a Dio per il peccato del mondo. Questo Agnello, che è l’Amato, il Prediletto, è pure il Servo del Signore (cfr. soprattutto Is 53,4-6.12), che si carica del peccato del mondo, per toglierlo dalle nostre spalle e cancellarlo agli occhi del Padre, dal quale invoca e ottiene la misericordia e il perdono.

            Lo Spirito Santo scende su Gesù come colomba, perché come colomba lo Spirito trova il suo nido di amore in Gesù. Dimorando su Cristo, questa colomba indica che l’Amore del Padre che si stabilisce in Gesù come in una abitazione permanente (vedi Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22). Con gli occhi del corpo Giovanni vede un “semplice” uomo, che andava da lui mischiato fra gli altri peccatori penitenti. Grazie all’indicazione dello Spirito con gli occhi dello spirito il Battista riconosce nel cugino Gesù il Messia e lo indica a tutti ad alta voce quale Agnello di Dio, proclamando che veniva a cancellare il peccato.

            Ma perché questo mite ed innocente Agnello deve morire?. Di chi è vittima? Dell’ira di Dio, che si placa solamente con il sangue dei sacrifici? Della giustizia di Dio, la quale esige che un innocente versi il suo sangue come risarcimento delle offese?

            Nell’Antico Testamento, come il libro dell’Esodo ci racconta, il sangue dell’agnello sugli stipiti delle case liberò il popolo ebreo dalla morte e la carne dell’agnello, mangiata all’inizio dell’esodo, diventa forza per il cammino di Israele. 

            Nel Nuovo Testamento, l’Agnello di Dio, il Figlio che è fatto servo, il buon pastore che si è fatto agnello, si fa garante non più e non solamente della liberazione del popolo di Israele, ma del “mondo” intero, di tutta umanità.

            L’Agnello di Dio è vittima dell’amore del Padre per l’umanità. Per l’uomo Dio sacrifica suo Figlio, che sacrifica la propria vita per i suoi fratelli in umanità.

            Questo Agnello, che conduce alla sorgente della vita, della felicità, e asciuga ogni lacrima dai nostri occhi (cfr. Ap7,14-17), mostra un’obbedienza e un amore che vanno fino alla Croce. Lui è il Servo di Dio che prende su di sé – togliendolo via – il peccato del popolo.  Infatti, “quando il tempo della misericordia di Dio arrivò, l’Agnello venne sulla terra e portò il perdono, portando via il peccato” (Sant’Agostino d’Ippona, Comment. in Ioan., 7, 5-6).

            L’Agnello-Cristo prende su di sé e porta via il peccato del mondo, perché è il Servo innocente per antonomasia ed è solidale con i peccatori. Anche se è consapevole della sua innocenza e dalla sua origine divina, non prende le distanze dai peccatori, si mescola con loro e, oggi, con noi.

 

            2) Il sacrificio dell’Agnello è un sacrificio di comunione.

            Gesù Cristo è l’Agnello immacolato porta sulle sue spalle la croce dei nostri peccati, sale in croce e su questa croce s’immola da Agnello. Lui porta sulle sue spalle i nostri peccati, tutti, e sulla croce sono puliti dal suo Sangue, bruciati dal fuoco dello Spirito Santo che si sparge col suo Sangue. 

            Questo, che accadde sulla croce, riaccade misteriosamente nel battesimo e nella confessione sacramentale, dove il potere del suo Sangue toglie i miei peccati. 

            Questa salita in croce di Gesù si rinnova sacramentalmente ad ogni Messa, e noi, siccome siamo battezzati, siamo stati fatti un solo corpo con Lui, e come il suo corpo viene sacrificato nella Messa, anche noi siamo sacrificati con Lui. Perciò in questa Messa, rendiamo grazie a Dio, per Gesù Cristo, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, il nostro Salvatore, che ci toglie le tenebre e le ombre di morte, donandosi Lui stesso in Persona, nella comunione eucaristica.

            Entrare in comunione con lui, fare la comunione, significa diventare ciò che (o meglio Colui che) mangiamo e rinnovare questo atto di consegna di noi stessi e del nostro peccato a Lui. che viene a noi come agnello per prenderlo su di sé.

            Ad ogni Messa la Chiesa rinnova il sacrificio redentore di Cristo, e – tramite il Con un atto di immenso amore Gesù prende sulle sua spalle il peccato per toglierlo dalle nostre spalle, come libero dono. La sua non è una espiazione[4], intesa in senso giuridico, che è quanto di più lontano dalla concretezza dell’amore di Dio. La sua è un’espiazione che si coniuga con il perdono, che è la caratteristica del Dio di Gesù Cristo. Il peccato dunque è tolto non solo perché è cancellato, portato via, ma perché l’Amore è immesso nell’uomo.

            Per continuare ad immettere questo Amore il modo privilegiato è quello di fare la comunione. Comunicare assumendo la carne dell’Agnello di Dio che si è fatto cibo per noi è 

è entrare nella comunione con la persona del Signore vivo. Questa comunione, questo atto del “mangiare”, è realmente un incontro tra due persone, è un lasciarsi penetrare dalla vita di Colui che è il Signore, di Colui che è il mio Creatore e Redentore. Scopo di questa comunione è l’assimilazione della mia vita alla sua, la mia trasformazione e conformazione a Colui che è Amore vivo.

            In questo contesto vorrei richiamare l’importanza della testimonianza verginale proprio in relazione al mistero dell'Eucaristia. Infatti il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. 

            Nell'Eucaristia le vergini consacrate trovano ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo. Anticipando le “nozze dall’Agnello” (Ap 19, 7.9) queste donne consacrate nel mondo si affidano completamente all’Agnello eucaristico e testimoniano che Lui è conforto e spinta per essere, anche al giorno d’oggi, segno dell’amore gratuito e fecondo che Dio ha verso l’umanità. 

            Queste donne testimoniano che Cristo, che è la misericordia di Dio fatta carne, trasforma noi, assimilandoci a Lui. Ci rende capaci di vivere secondo la sua stessa logica di donazione e trasfigura il nostro quotidiano così che “se siamo appesantiti dal male, Gesù in Sacramento è la giustizia. Se abbiamo bisogno di aiuto, Lui è la forza. Se temiamo la morte, Lui è la vita. Se desideriamo il Cielo, Lui è la via. Se vogliamo fuggire le tenebre, Lui è la luce. Se cerchiamo il cibo, Lui è l’alimento” (cfr. Sant’Ambrogio).

 

 

Lettura Patristica

Melitone di Sardi

In Pascha, 1-11; 31-34

 

È stata appena letta la Scrittura sull’esodo ebraico e sono state spiegate le parole del mistero: come viene immolato l’agnello e come viene salvato il popolo. Sforzatevi di ben comprendere, carissimi! E in questo modo che è nuovo e antico, eterno e temporaneo, corruttibile e incorruttibile, mortale e immortale il mistero della Pasqua: antico secondo la Legge, ma nuovo secondo il Logos; temporaneo per il simbolo, eterno per la grazia, corruttibile per l’immolazione dell’agnello, incorruttibile per la vita del Signore; mortale per la sepoltura [nella terra], immortale per la risurrezione dai morti.

 

       Antica è la Legge, ma nuovo il Logos; temporaneo il simbolo, eterna la grazia; corruttibile l’agnello, incorruttibile il Signore; immolato come agnello, risuscitato come Dio.

 

       Infatti, come pecora fu condotto al macello per essere immolato (Is 53,7), e tuttavia egli non era una pecora; e a mo’ di agnello senza voce, e tuttavia egli non era un agnello. In effetti, il simbolo è passato e la verità è stata trovata [verificata].

 

       Invero, al posto dell’agnello è venuto Dio e al posto della pecora un uomo, e nell’uomo, Cristo che contiene tutto.

 

       Così dunque l’immolazione dell’agnello, il rito della Pasqua e la lettera della Legge sono terminati in Cristo Gesù, in vista del quale tutto accadde nella Legge antica e più ancora nell’Ordine ("greco": Logos) nuovo.

 

       Infatti, anche la Legge diventata Logos, e l’antico nuovo - entrambi usciti da Sion e da Gerusalemme -, e il comandamento grazia, e il simbolo verità, e l’agnello Figlio, e l’agnello uomo, e l’uomo Dio.

 

       In effetti, partorito come Figlio, e condotto come agnello, e immolato come capretto, e sepolto come uomo, egli risuscitò come Dio, essendo per natura Dio e uomo.

 

       Lui che è tutto: legge in quanto giudica, Logos in quanto insegna, grazia in quanto salva, Padre in quanto genera, Figlio in quanto è generato, agnello in quanto soffre, uomo in quanto è sepolto, Dio in quanto è risuscitato.

 

       Questo è Gesù, il Cristo; "a lui la gloria nei secoli. Amen" (2Tm 4,18 Ga 1,5 2P 3,18).

 

       E questo è il mistero della Pasqua, quale è descritto nella Legge, come abbiamo letto poc’anzi...

 

       O mistero strano e inesplicabile! L’immolazione dell’agnello risulta essere la salvezza d’Israele, e la morte dell’agnello diviene la vita del popolo, e il sangue intimidì l’angelo.

 

       Dimmi, o angelo, cosa ti ha intimidito: l’immolazione dell’agnello o la vita del Signore? Il sangue dell’agnello o lo Spirito del Signore?

 

       È evidente che tu sei rimasto intimidito perché hai visto il mistero del Signore compiersi nell’agnello, la vita del Signore nell’immolazione dell’agnello, la prefigurazione del Signore nella morte dell’agnello.

 

       Ecco perché tu non colpisci Israele, mentre privi l’Egitto dei suoi figli. Quale inatteso mistero!

 

     

 



[1] L’anno liturgico è composto dal Temporale e dal Santorale. Il primo comprende il ciclo natalizio con i tempi di Avvento e di Natale: il ciclo pasquale con i tempi di Quaresima e di Pasqua; e le 34 domeniche del Tempo Ordinario. Il Santorale comprende i giorni in cui la liturgia celebra il ricordo dei Santi.

Il Triduo Pasquale, poiché ricorda la passione, la morte e la risurrezione di Gesù, è il centro e il culmine dell’anno liturgico. L’anno liturgico inizia con l’Avvento e termina con la solennità di Cristo Re, che si celebra la 34^ domenica del tempo ordinari

[2] Il tempo ordinario è il tempo del cammino verso il Regno come condizione quotidiana. Nei cosiddetti “tempi forti” restiamo sempre pellegrini, ma con soste segnate da un impegno di conoscenza e di partecipazione ai misteri di Gesù che celebriamo; nel tempo ordinario ogni domenica ci fa celebrare la Pasqua del Signore, l’evento che ci permette la fede, la speranza e la carità sulla strada che ci porta al Regno di Dio.

[3] La frase “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” può essere tradotta anche così: “Ecco l’Agnello di Dio che porta su di sé il peccato del mondo”. Il verbo greco “airo”, che l’Evangelista e Apostolo Giovanni mette sulla bocca di Giovanni il Battista: “Ecco l’Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”, non significa solo “portare”, “prendere sulle proprie spalle” ma anche “togliere via”. 

Con questa espressione l’Evangelista Giovanni si riferisce sia al quarto carme del Servo del Signore (Is 53,1-12), sia all’agnello espiatorio (Lv 14, 12-13), sia all’agnello pasquale (Es 12, 1-14; Gv 19,36) che diventa il simbolo della redenzione.

[4] Nel linguaggio corrente, il verbo “espiare” ha acquisito un significato negativo, nel senso di “subire una pena”, e poco importa se il reo accetti o meno la sentenza di condanna: se subisce la pena, espia. Invece l’idea biblica di ‘espiare’ è quella di “portare rimedio al male”. Nella prima lettera di Giovanni si legge: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10), ma sarebbe più esatto rendere “vittima di espiazione” con “strumento di perdono”. Ecco, espiazione è da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo e sacrificio “in risarcimento”  del danno causato dal peccato. Gesù non è stato condannato da Dio al posto nostro, anche se ha sofferto al posto nostro e a vantaggio nostro. L’amore del Padre ha fatto del Figlio in croce lo strumento di purificazione dei nostri peccati, il ponte di riconciliazione con noi peccatori.