XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 9 ottobre 2022
Rito Romano
2Re 5,14-17; Sal 97; 2 Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Rito Ambrosiano
1Re 17,6-16; Sal 4; Eb 13,1-8; Mt 10,40-42
VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
1) La guarigione della lebbra del cuore.
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove sa che dovrà affrontare la morte per fare passare lui e l’umanità intera nella “terra” promessa del Cielo. In questo “esodo” verso la Città della Pace dove farà la Pasqua (il passaggio di ritorno al Padre, il passaggio dalla morte alla vita), Lui non lascia nulla di non visitato dalla sua presenza, nulla di non toccato dalle sue sante mani e dal suo sguardo di misericordia, che guarisce anima e corpo.
In questo cammino verso Gerusalemme, che è a sud della Terra Santa, Gesù segue un percorso geograficamente assurdo, perché va a nord verso la Samaria e la Galilea. Ma Lui segue la mappa del cuore e va verso il centro passando per le periferie non tanto geografiche quanto esistenziali. In effetti chi è più periferico dei lebbrosi, sono dei morti viventi, perché soprattutto a quei tempi dovevano stare fuori dall’umana convivenza. Erano condannati ai margini della vita perché infetti, portatori di una malattia ritenuta contagiosa e che rendeva impuri, immondi.
Questi dieci lebbrosi rappresentano l’umanità intera, intossicata dal peccato, condannata a morte, quindi incapace di fare il cammino della vita. Gesù ordina a tutti (noi compresi) di camminare e di andare a far “certificare” il miracolo della guarigione dai sacerdoti, come prescrive la legge mosaica.
Ma non basta obbedire e camminare, occorre prendere coscienza del dono ricevuto. Purtroppo, uno solo, un samaritano (cioè uno che all’emarginazione della malattia univa l’emarginazione di essere disprezzato dagli altri perché eretico), torna da Cristo per ringraziarlo della guarigione data a tutti. Grazie a questo gesto eucaristico (eucaristia vuole dire ringraziamento) ricevette la guarigione del cuore.
In effetti, in questo incontro tra Gesù è i lebbrosi due sono le parole chiave: “pietà” e “grazie”.
L’invocazione “Signore, pietà”, “Signore, abbi misericordia di noi peccatori” introduce ogni celebrazione eucaristica (che vuole dire “di grazie”) ed è la preghiera che ognuno di noi rivolge al Signore all’inizio della Messa.
L’importante è che l’invocazione: “Signore, pietà” si trasformi in “grazie”. In questo modo riconosceremo pienamente che la nostra miseria ha bisogno di misericordia.
Alla domanda di essere accolti e amati nonostante il nostro male e che si esprime con l’invocazione “Ti prego, Signore, salvami” (Sal 114, 4), Cristo risponde con la sua misericordia infinita, nella quale siamo guariti ad un livello superiore a quello che chiediamo. In effetti, con il miracolo di oggi, il Signore ci insegna che ci sono due livelli di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo; l’altro, più profondo, tocca l’intimo della persona, quello che la Bibbia chiama “cuore”, e da lì si irradia a tutta l’esistenza. La salute del corpo non è contro quella del cuore, anzi la guarigione completa e radicale è la salvezza che fa in modo che il nostro cuore non resti lontano da Cristo.
Teniamo presente, poi, che la salvezza è la relazione con lui, sorgente della vita, non l’essere mondato dalla lebbra, perché poi ci si ammala ancora e si muore. Quindi la salvezza non è semplicemente l’essere mondati, guariti. La salvezza è un’altra cosa, non è la buona salute, perché quella presto o tardi se ne va. La salvezza è la comunione con lui, il tornare a lui, glorificare Dio a gran voce. Redenzione è lo stare con Lui, Paradiso nostro; è l’essere contenti del dono ricevuto e dire a gran voce: “Amo il Signore perché ascolta il grido della mia preghiera. Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo” (Sal 114 1-2). E’ nell’eucaristia che noi viviamo la fede e l’incontro con lui che ci ha amati e salvati. Allora andiamo con gratitudine alla sorgente della nostra fiducia che è il suo amore, grazie al quale possiamo vivere.
2) Salvati grazie al nostro grazie.
Il ritorno (che è sinonimo di conversione) del lebbroso guarito fu dettato dalla riconoscenza verso il Messia che l’aveva sanato. Ma in questo gesto possiamo riconoscervi anche il riconoscimento di Cristo, Sommo Sacerdote, al qual non più la legge mosaica ma la nuova legge dell’amore “impone” di andare perché sia Lui a certificare la salute recuperata. L’invocazione di compassione per la terribile malattia che corrompe il corpo mediante il “grazie” diventa esperienza di amore e di comunione.
Ora non è più solamente un lebbroso guarito, ma un uomo salvato.
Questo Samaritano ha intuito che tornando da Gesù per glorificare Dio è accessibile a lui ciò prima gli era proibito: il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo.
Quest’uomo redento spinto dalla gratitudine si accosta con piena fiducia al trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare Grazia ed essere aiutato al momento opportuno (cfr. Eb. 4, 15-16).
Quest’uomo, che era distrutto, disprezzato, solo e isolato, fa esperienza di salvezza e non solamente gli è ridonata una dignitosa vita terrena, gli è donata la Vita che non passa più.
L’importante che anche noi andiamo da Cristo mendicando pietà e dicendogli: “grazie”, così anche in noi riaccadrà l’esperienza di Gesù guaritore e, soprattutto, redentore che salva nel corpo e nel cuore.
In un modo che può sembrare paradossale ma corretto possiamo dire che il lebbroso salvato (cioè ciascuno di noi che è pentito e riconoscente) diventa l’annuncio vivente del Vangelo della vita.
Oggi, per noi, avviene in un certo senso la stessa cosa: se imploriamo pietà e diciamo grazia diventiamo veri discepoli di Cristo, suoi fedeli annunciatori.
E’ questo l’insegnamento del resto del racconto odierno di San Luca: Gesù loda la fede del samaritano lebbroso e lo indica come annunziatore della buona e lieta novella. Questa è affidata a chi –grazie alla fede - riceve la purificazione dalla lebbra del peccato e la salvezza dell'anima, la redenzione del cuore. Con Romano il Melode preghiamo: “Come hai purificato il lebbroso dalla sua infermità, o Onnipotente, così guarisci il male delle nostre anime, tu che sei misericordioso, per intercessione della Madre di Dio, o medico delle nostre anime, Amico degli uomini e salvatore immune da peccato” (Inni, 23, Proemio).
Il lebbroso samaritano di oggi è ciascuno di noi, malati della lebbra del peccato, purificati dal perdono del Messia, che opera in noi una profonda guarigione interiore e, per questo, siamo costituiti veri discepoli di Gesù salvatore del mondo.
La grandezza del samaritano è stata quella di mettere non solo la sua salute, ma tutta la sua vita nelle mani del Signore.
A questo punto possiamo domandarci che cosa abbia spinto il miracolato di oggi ad abbandonarsi a Cristo con un cuore lieto e pieno di riconoscenza. Possiamo farci anche una domanda analoga, valida per situazioni meno drammatiche: “Che cosa spinge le vergini consacrate nel mondo a riporre tutta la propria vita ai piedi di Cristo-Sposo perché ne faccia ciò che gli è gradito?” Non può che essere la stessa profonda certezza che animò il cuore di Maria davanti dall’annuncio dell’Angelo a Nazareth e fin sotto la Croce a Gerusalemme , che diede forza a San Giuseppe di fronte al compito che Dio gli affidava, che sostenne gli Apostoli dinanzi al martirio: la compassione di Dio si è chinata su di noi, la Misericordia dell’Eterno è scesa qui sulla terra ed ha assunto un volto umano. È Cristo il nostro unico vero Bene ed Egli non vuole altro che il nostro Bene. Egli è nato ed è morto per questo, è risorto ed è qui, Presente nell’Eucaristia, per questo. Per questo possiamo abbandonarci a Lui senza riserve, per questo possiamo recarci da Lui, inginocchiarci supplici, e riporre nel Suo Volere tutta la nostra vita, per sentirci dire ancora: “Ti voglio bene”.
L’affidamento delle Vergini consacrate ci sia esempio quotidiano, semplice e imitabile per legare la nostra fiducia a Gesù, che con il suo santo e puro amore ci comunica purità e salute piena. Nella nostra vita di ogni giorno sperimentiamo che la guarigione ha inizio quando sappiamo di poter contare su qualcuno che vuole il nostro bene, che ci sta accanto, ed è disposto a portare il nostro male, sia esso malattia o peccato.
Ecco, la compassione radicale vissuta da Gesù chiede a ciascuno di noi di interrogarsi sulla propria capacità di stare accanto a chi si sente impuro e malato. Come dimenticare che, proprio il giorno in cui ha deciso di abbracciare un lebbroso, Francesco d’Assisi ha capito sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo cammino di sequela fino a divenire “somigliantissimo a Gesù”, fino a somigliarGli “fisicamente” con le stimmate?
Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre malattie, ma questo suo servizio agli uomini ha un caro prezzo. Egli non può più entrare pubblicamente nei villaggi, ma è costretto a rimanere in luoghi deserti, a vivere cioè la situazione che era prima del lebbroso: Gesù cura e guarisce gli altri al prezzo dell’assunzione su di sé del loro male. Il testo latino della profezia di Isaia sul Servo del Signore dice, tra l’altro: “Noi lo consideravamo come un lebbroso” (Is 53,4b); sì, Gesù, il Servo, il Messia, il Salvatore, si è fatto per noi come un lebbroso, per guarire la nostra lebbra nel corpo e nello spirito! Così, sulla croce sarà piagato come un lebbroso: ma noi possiamo fissare in lui il nostro sguardo nella speranza sicura della guarigione, certi della compassione di colui che “ha preso su di sé le nostre sofferenze e i nostri mali” (Is 53,4a).
Lettura Patristica
Bernardo di Chiaravalle
De diversis, 23, 5-8
La gratitudine promuove sempre più grazie
"Non furono dieci a essere guariti; e gli altri nove dove sono?" (Lc 17,17). Penso che ricordiate che son queste le parole del Salvatore, che rimproverava l’ingratitudine di quei nove. Si vede dal testo quanto abbiano saputo ben pregare coloro che dicevano: "Gesù, figlio di David, abbi pietà di noi" (Lc 18,38); mancò però l’altra cosa di cui parla l’Apostolo (1Tm 2,1), il ringraziamento, perché non tornarono a render grazie a Dio.
Anche oggi vediamo molti impegnati a chiedere ciò di cui sanno d’aver bisogno, ma vediamo ben pochi che si preoccupano di ringraziare per ciò che hanno ricevuto. E non è che è male chiedere con insistenza; ma l’essere ingrati toglie forza alla domanda. E forse è un tratto di clemenza il negare agli ingrati il favore che chiedono. Che non capiti a noi di essere tanto più accusati d’ingratitudine, quanto maggiori sono i benefici che abbiamo ricevuto. È dunque un tratto di misericordia, in questo caso, negare misericordia, com’è un tratto d’ira mostrare misericordia, certo quella misericordia di cui parla il Padre della misericordia attraverso il Profeta, quando dice: "Facciamo misericordia al malvagio, ed egli non imparerà a far giustizia" (Is 26,10)...
Vedi, dunque, che non giova a tutti essere guariti dalla lebbra della conversione mondana, i cui peccati son noti a tutti; ma alcuni contraggono un male peggiore, quello dell’ingratitudine; male che è tanto peggiore, quanto è più interno...
Fortunato quel Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse ricevuto, e perciò tornò a ringraziare il Signore. Fortunato colui che a ogni dono, torna a colui nel quale c’è la pienezza di tutte le grazie; poiché quando ci mostriamo grati di quanto abbiamo ricevuto, facciamo spazio in noi stessi a un dono anche maggiore. La sola ingratitudine impedisce la crescita del nostro rapporto di grazia, poiché il datore, stimando perduto ciò che ha ricevuto un ingrato, si guarda poi bene di perdere tanto più, quanto più dà a un ingrato. Fortunato perciò colui che, ritenendosi forestiero, si prodiga in ringraziamenti per il più piccolo favore, e ha coscienza e dichiara che è un gran dono ciò che si dà a un forestiero sconosciuto. Noi però, miserabili, sebbene a principio, quando ancora ci sentiamo forestieri, siamo abbastanza timorati, umili e devoti, poi tanto facilmente ci dimentichiamo quanto sia gratuito tutto ciò che abbiamo ricevuto e, come presuntuosi della nostra familiarità con Dio, non badiamo che meriteremmo di sentirci dire che i nemici del Signore sono proprio i suoi familiari (Mt 10,36). Lo offendiamo più facilmente, come se non sapessimo che dovranno essere giudicati più severamente i nostri peccati, dal momento che leggiamo nel salmo: "Se un mio nemico mi avesse maledetto, l’avrei pure sopportato" (Ps 54,13). Perciò vi scongiuro, fratelli; umiliamoci sempre più sotto la potente mano di Dio e facciamo di tutto per tenerci lontani da questo orribile vizio dell’ingratitudine, sicché, impegnati con tutto l’animo nel ringraziamento, ci accaparriamo la grazia del nostro Dio, che sola può salvare le nostre anime. E mostriamo la nostra gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità; perché il Signore nostro, che è benedetto nei secoli, non vuole tanto parole, quanto azioni di grazie. Amen.
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