Rito
romano
XV
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C - 14 luglio 2019
Dt
30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37
Tu
hai parole di spirito e vita – Parabola del Samaritano
Rito
ambrosiano
VIII
Domenica di Pentecoste
1Sam
8,1-22a; Sal 88; 1Tm 2,1-8; Mt 22, 15-22
Dare
a Cesare e a Dio.
Premessa:
Penso
che la parabola del buon samaritano metta l’accento sul verbo
“amare” più che sulla parola “prossimo”. Il samaritano si
accorge del ferito, ha compassione (un sentimento umano che dovrebbe
albergare in ogni uomo, anche nell’uomo che crediamo essere diverso
da noi) e i suoi gesti sono descritti uno a uno, quasi al
rallentatore. Il samaritano non si è chiesto chi fosse il ferito, il
suo aiuto è disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa
significa amare il prossimo.
Inoltre
alla fine del brano evangelico di oggi Gesù fa allo scriba questa
domanda:: “Chi di questi tre (il levita, il sacerdote e il
samaritano) si è davvero fatto prossimo a colui che è stato
derubato e ferito dai ladri?”.
Dal
prossimo come oggetto da amare al prossimo come soggetto che ama,
questo il punto importante. Il prossimo da aiutare non si può
definire, è colui nel quale ci imbattiamo, per caso. Il problema è
un altro: è quello di chiedersi se abbiamo dentro di noi la
prossimità verso i bisogni degli altri, chiunque essi siano. È
questo il vero problema. Lo scriba che aveva una domanda teologica da
esporre, si vede invitato a convertire se stesso.
Gesù
gli chiede di convertisi alla compassione non solo come emozione ma
come azione., traducendo la compassione in gesti concreti.
1) Quattro personaggi e un luogo da individuare.
Per
aiutare la nostra conversione propongo le seguenti domande:
Il
sacerdote chi è? Sono io quel sacerdote.
E
il levita? Sono ancora io.
E
l’uomo ferito? Ancora io.
E
il samaritano chi è? È Gesù. E Gesù cosa fa? Si fa mio prossimo,
si prende cura di me in modo tale da diventare Lui come me: diventa
ferito, nudo, crocifisso al mio posto, e io. invece, sono curato,
rivestito di dignità e riportato in vita.
Il
sacerdote e il levita avevano compiuto il loro servizio nel tempio di
Gerusalemme e ritornavano a casa. Al vedere l’uomo ferito non si
fermarono. Forse ritenevano morto quello che invece era solo mezzo
morto, e non volevano toccarlo, perché il cadavere rendeva
culturalmente impuri (Cf. Lea 21,1). Oppure avevano paura di
essere anch’essi aggrediti. In loro tutto ciò è più forte della
compassione. In quanto sacerdote e levita rappresentavano uomini che
dovevano incarnare il comandamento dell’amore di Dio. Ma l’amore
del prossimo? Purtroppo, culto e compassione erano in loro due cose
distinte.
E
la locanda che cos’è? La Chiesa, che accoglie tutti.
2)
Chi ci è prossimo1?
Noi
siamo abituati all’espressione “buon Samaritano” e ci sembra un
modo di dire normale, che però ovvio non è. Di tratta di un un
ossimoro2
(una contraddizione).
In effetti per gli Ebrei di duemila anni fa i samaritani erano gli
eretici, gli scismatici, gli esseri disprezzati ancor più dei
pagani. Quindi se c’era qualcuno che non poteva essere il loro
prossimo, erano i samaritani . Inoltre Gesù non dice che il
samaritano è da aiutare perché prossimo, ma “osa” donare
ai suoi compaesani un Samaritano quale esempio della perfezione umana
e divina, per avere la vita felice ed eterna.
Questo
dono
è stato capito così bene nella Chiesa che Gesù è da sempre
indicato come il “buon Samaritano”, e la Chiesa stessa si fa
“prossimo” all’umanità indigente.
Cristo
e la Chiesa con Lui si chinano sull’uomo debole e ferito, per
salvarlo, perché il Regno di Dio ha questo “prezzo”:
la compassione.
Il
Figlio di Dio, la Misericordia fatta carne, porta la benedizione di
Dio, facendosi prossimo dell’uomo, che da lui è compatito, curato
e guarito per il Regno dei Cieli.
Per
farci capire la grandezza e la profondità di questa sua prossimità,
Gesù usa varie parabole: quella del buon pastore che salva le pecore
spogliate, battute e messe a morte (Gv
10,10), quella del figlio del
padrone della vigna che si presenta dopo i profeti mandati invano (Gv
10; Lc
20,9-18), e quella del Samaritano
che mostra un viaggiatore che non evita un uomo sanguinante per le
ferite, ma gli va accanto per compassione e lo toglie dalla strada
dove giaceva ferito.
Immaginiamoci
la scena e immedesimiamoci nel ferito soccorso dal samaritano, che
arriva dopo i sacerdoti e i leviti che non hanno voluto e non hanno
potuto salvare l’uomo ferito, forse anche perché era uno
sconosciuto, estraneo alla loro tribù e famiglia. E' riflessa qui la
storia della salvezza in cui Gesù viene sotto l’aspetto di un
samaritano disprezzato, rivela ciò che le altre tecniche della
salvezza hanno dimenticato, costruisce proprio là dove queste
tecniche hanno fallito.
In
Cristo Dio si è avvicinato all’uomo con una figura semplice ed
umana. Il Dio che ora conosciamo “non
è troppo alto né troppo lontano”
da noi e la sua legge è molto vicina a noi; è nella nostra bocca e
nel nostro cuore perché la mettiamo in pratica (prima lettura del
rito romano). Solo facendo quello che anche Cristo ha fatto,
incontriamo veramente il Prossimo (Dio) e il prossimo (l’uomo): il
nostro cuore non matura che nell’accoglienza dell’Altro e
dell’altro, ed ha un solo “bel difetto” ha bisogno di essere
amato.
Dunque
Gesù, nel concludere la parabola, capovolge la seconda domanda (la
prima è stata: “Cosa devo fare per avere la vita eterna?”) del
dottore della Legge 3.
Questi aveva chiesto: “Chi
è il mio prossimo?”.
La
domanda sembra fatta per convincere Gesù che “amare Dio” è
senza limiti e orizzonti, ma che “amare il prossimo” aveva dei
limiti ben precisi. Mi pare che la domanda supponga che noi possiamo
scegliere quale sia il prossimo da amare, con la possibilità di
rifiutare coloro che non sono degni di essere amati. Gesù la
capovolge: “Chi
ha avuto compassione4
di lui?”.
Dunque è importante non solamente sapere di chi dobbiamo avere
compassione, ma conoscere chi ha compassione di noi. Oggi Lui vuole
insegnarci non tanto chi è il nostro prossimo, ma farci capire Chi
viene vicino a noi che giaciamo per strada. In primo piano non vi è
colui che gestisce la sua compassione e la distribuisce a chi ritiene
opportuno, ma colui che nel bisogno attende un gesto di compassione
da un Viandante che si fa a lui prossimo, avvicinandosi e curandoci.
3)
Il prezzo del Regno di Dio: la compassione.
Se
nelle righe precedenti ho suggerito di immedesimarci nell’uomo
ferito per capire che il nostro prossimo è Cristo, ora propongo di
immedesimarci nel Samaritano per essere prossimi all’umanità
ferita, che desidera risollevarsi, ma che da sola non può farlo. Il
sacerdote e il levita non si fermarono come fece il samaritano,
perché i loro occhi non erano come quelli del Signore. Il
Samaritano, invece, ha gli occhi di Dio e guarda all’umanità come
la guarda Gesù: “Cristo, il Figlio di Dio, posa il suo sguardo
sul dolore umano e si serve del dolore per rivelarci il suo amore,
per incarnarvi la sua carità. Quanto "scendere"
dev'essersi compiuto in me, se solo il dolore può rivelarmi l'amor
di Dio! Quanta carità da parte di Dio, s'Egli ha dovuto risalire
con noi ogni nostro Calvario, perché potessimo credere
all'Amore.” (Don Primo Mazzolari, Tempo di credere,
Brescia 1964, p. 103).
Questo
amore si commuove (muovere con), ha compassione
(patire con), parola che -anche se meno forte di quella greca che
indica “viscere commosse”- indica non tanto l'elemosina del
ricco al povero, il soccorso del sano verso il malato, ma il vivere
insieme la passione della vita del fratello e della sorella, la cui
umanità è ferita.
L’etimologia
della parola “compassione” ci spinge a viverla sentendo il
dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi. Il dottore della
legge questo l’ha capito bene. Gesù quindi conferma la sua
risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione nella
compassione, è un percorrere la strada sulle orme di Cristo Gesù
nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede una disponibilità
totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una
storia, in un stabilità di vita. Questa è la via per la vita
eterna: fare lo stesso tragitto che Gesù ha descritto e realizzato,
venendo ad abitare il luogo della nostra infermità.
C’è
da chiedere a Cristo uno sguardo ed un cuore come il suo. Mentre la
ragione vuole misurare il dono di Dio in base a ciò che la ragione
stessa può comprendere, Cristo ci rivela il Suo Cuore, che è di una
tenerezza inimmaginabile. Tante persone nella Chiesa hanno capito e
accolto questo cuore e la sua tenerezza.
Cito
l’esempio
di una Missionaria
della Carità, che conobbi a Roma. Era una suora italiana, che a 60
anni di età aveva lasciato la sua Congregazione dove era Consigliera
generale, per entrare tra le suore di Madre Teresa di Calcutta.
Questa Beata l’accolse e con attenzione materna le disse di venire
a Calcutta quando il clima era più sopportabile. Dopo un mese di
adattamento alla nuova vita, mandò questa “nuova” sorella a
lavorare (o come Madre Teresa diceva: “a fare apostolato”) nella
Casa dei morenti. Là in questa Casa di misericordia e di pietà vi
erano e vi sono ancora varie stanzette, dove i malati terminali sono
curati amorosamente.
Sul muro di ogni stanzetta c’è una frase del Vangelo. La suora
italiana cominciò a lavare le piaghe del malato e intanto guardava
il muro della cella su cui c’era scritto: “Questo è il mio
corpo”. Finito il suo “apostolato”, tornò in convento per la
cena. Nel refettorio c’era anche Madre Teresa, che le chiese: “Che
cosa hai fatto questo pomeriggio?”. La suora rispose: “Sono
rimasta tre ore con Gesù”. Da samaritana sulle orme del Samaritano
si era chinata sull’uomo, con il quale Gesù si identifica: “Ho
avuto fame, ho avuto sete, ero in prigione, ero malato, nudo. Ogni
volta che avete soccorso il più piccolo dei miei fratelli avete
soccorso me” (cf Mt
25,35).
Viviamo
nella misericordia e pratichiamo la compassione, mettendoci in
ginocchio davanti al nostro prossimo come Gesù ha fatto alla lavanda
dei piedi e sulla Croce, e come fanno tanti uomini e donne che
lavano le ferite fisiche e spirituali dei loro fratelli e sorelle.
Guardando
noi in questa comunione di misericordia reciproca, gli altri potranno
“leggere” il Vangelo e “vederlo” in azione. Tramite la nostra
vita in Cristo la verità è data ai sapienti e l’amore ai cuori.
Dio
si mette nelle nostre mani di misericordia. Non cerchiamo altri
responsabili. Il solo responsabile siamo noi, perché ciascuno di noi
ha il compito di portare nel suo cuore il Dio vivente, il dio che non
si impone mai, ma sempre si propone chiamandoci a vivere e rivivere
il suo pellegrinaggio, ad aprire la porta alla quale lui bussa:
“Ecco, sto alla porta e busso. Se
qualcuno mi apre, io entrerò e mi siederò alla sua mensa e cenerò
con lui e lui con me” (Ap
3,20).
Quanto
detto finora vale per tutti i cristiani: secolari e religiosi. Ma per
le persone in che cosa si consacrano in che modo si specifica la
vocazione ad essere samaritani? Mostrare con la loro esistenza che
culto e compassione non sono contrapposti. Ad una sua suora che
chiedeva a San Vincenzo de Paolis: “Se sto facendo l’adorazione
del Ss.mo Sacramento e un povero bussa alla porta, che devo fare?
Continuare a pregare oppure andare dal povero? Il Santo fondatore
delle Figlie della Carità rispose: “Non lasci Dio, se lasci Dio
per Dio”. Il che non vuol dire solo che nel povero c’è Dio,
quindi si può smettere di pregare per aiutare il bisognoso. Vuol
dire che in una consacrazione verginale a Dio, si hanno occhi così
puri da vedere nel povero Dio e servirlo nella misericordia e nella
lode.
4)
Locanda del “Tutti-accoglie”.
Gesù
nella parabola di oggi parla anche del fatto che il Samaritano portò
l’uomo ferito ne “Il Tutti accoglie5”,
che è tradotto con locanda o albergo.
Questo
“Il Tutti-accoglie” è una fragile casa, sospesa tra Gerico e
Gerusalemme, che nasce ovunque uno è disposto ad accogliere tutti.
Dio
accoglie tutti, accoglie nel segno profondo dell'amore.
La
Chiesa accoglie tutti, maternamente. In questo “ospizio pubblico”
ci si prende cura del sofferente come una madre sta chinata sul
figlio per curarlo. Questo prendersi cura6
in greco è una parola come la madre sta sopra il figlio, questa
cura preoccupata che diventa però attiva sopra di lui. A questo
servizio di cura materna sono chiamate in modo particolare le Vergini
Consacrate. Il Rito della loro Consacrazione le invita a dedicarsi
con amore a curare e alleviare le piaghe fisiche e spirituali di ogni
fratello o sorella feriti nell’anima e nel corpo, perché grazie al
cuore puro sanno vedere nel volto
del sofferente il Volto dei volti: quello di Cristo.
1Il
prossimo,
in greco “plesion”,
in ebraico “re’a”,
designa “uno che è vicino”, che abita accanto, con cui si ha
qualcosa in comune. Per l’ebreo era il connazionale, in quanto
membro del popolo eletto; tutt’al più vi si potevano includere i
convertiti al giudaismo.
2L'ossimoro
(dal
greco
“oxìmoron”
composto da oxùs
= acuto e moròs
= ottuso) è una figura retorica, che consiste nell'accostamento di
due termini di senso contrario, contraddittorio o comunque in forte
antitesi tra loro.
L’effetto che si ottiene è quello di un paradosso apparente. Per
es.: lucida follia; tacito tumulto; silenzio assordante; convergenze
parallele; insensato senso, piacere disgustoso. Se
alcuni ossimori sono stati immaginati per attirare l'attenzione del
lettore o dell'interlocutore, altri nascono per indicare una realtà
che non possiede nome. Questo può accadere perché una parola non è
mai stata creata, oppure perché il codice della lingua, in virtù
di alcuni limiti formali, deve contraddire se stesso per poter
indicare alcuni concetti particolarmente profondi.
E’ il caso dell’espressione “buon Samaritano”.
3
I dottori della legge ebrei contavano 613 precetti, di cui 365
negativi (un per ogni giorno dell’anno), 248 positivi, come era
–secondo gli antichi- il numero delle ossa, per indicare che la
legge entra “negativamente” ogni giorno nell’uomo per
purificarlo, togliergli la negatività del male e
penetrare”positivamente”le ossa, struttura del corpo,
strutturando l’uomo nel bene.
4Il
testo greco dice splancnìzomai
“essere mosso, preso
nelle viscere”, nel profondo dell'anima, viscere materne, viscere
d’amore, tipiche di Dio il cui guardare a noi diventa compassione.
“Ne ebbe compassione” si traduce oggi indebolendo un po’
l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di
misericordia che colpisce l’anima del Samaritano, lui stesso
diviene il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni
pericolo. Dunque qui la domanda è mutata: non si tratta più di
stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si
tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l'altro
conta per me come “me stesso”.
5In
greco c’è la parola pandòcheion
che significa “accoglie tutti” ed è una casa tra Gerusalemme,
la Gerusalemme celeste, e Gerico. Questa casa che accoglie tutti è
il simbolo della Chiesa che accoglie tutti.
6In
greco c’è epemelethe da epi - meleomai che vuol dire prendersi
cura di, preoccuparsi di, darsi pena, badare, vigilare
|
Lettura
patristica
Brani
di
Origene
(185-253), Sant’Ambrogio di Milano (339-397), Severo
di Antiochia (circa 465-538)
“Accade
dunque che sulla stessa strada discendessero prima un sacerdote, poi
un levita, che magari avevano fatto del bene ad altre persone, ma non
lo fecero a costui che era disceso da Gerusalemme a Gerico. Il
sacerdote, che secondo me raffigura la Legge, lo vede; e ugualmente
lo vede il levita, il quale, io credo, rappresenta i profeti. Tutti e
due lo vedono, ma passano oltre e lo abbandonano là. Ma la
provvidenza riservava quest’uomo mezzo morto alle cure di colui che
rea più forte della legge e dei profeti, cioè del Samaritano, il
cui nome significa ‘Guardiano’. Questi è colui che non
sonnecchia né dorme vegliando su Israele (Sal 121.4). È per
soccorrere l’uomo mezzo morto che questo samaritano si è messo in
cammino; egli non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote
e il levita, o piuttosto, se discende, discende per salvare il
moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: Tu sei un
samaritano e un posseduto dal demonio (Gv 8.48); e Gesù, mentre ha
negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di
essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon “guardiano”.”
(Origene, Comm.
a Luca 34.5)
“Dunque
questo samaritano discende- e chi è che discende dal cielo se non
colui che è salito al cielo, il Figlio dell’Uomo che è nel cielo
(Gv 3.13)?- e vedendo quell’uomo mezzo morto che nessuno sino
allora aveva potuto guarire... si avvicinò a lui; cioè, accettando
di soffrire come noi, si è fatto nostro prossimo, ed esercitando la
sua misericordia, ci si è fatto vicino. (...) Poiché dunque nessuno
ci è più prossimo di colui che ha guarito le nostre ferite,
amiamolo come Signore, e amiamolo anche come prossimo: niente infatti
è così prossimo come il capo alle membra. Amiamo anche colui che è
imitatore di Cristo: amiamo colui che soffre per la povertà altrui,
a motivo dell’unità del corpo. Non è la parentela che ci fa l’un
l’altro prossimi, , ma la misericordia, poiché la misericordia è
conforme alla natura: non c’è niente infatti di più conforme alla
natura che aiutare chi con noi partecipa della stessa natura.”
(Ambrogio, Comm. a Luca
7.74, 84).
«Un
uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico». Cristo... non ha detto «uno
scendeva», bensì «un uomo scendeva», perché il brano concerne
tutta l'umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato
il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del
paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa
«La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e
cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile
della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio... Una volta
che l'umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta... il
branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di
briganti. La spogliano del vestito della perfezione, non le lasciano
nulla della sua forza d'animo, né della purezza, della giustizia o
della prudenza, nulla di ciò che caratterizza l'immagine divina (Gen
1,26), ma dopo averla colpita con i colpi ripetuti dei diversi
peccati, la atterrano e la lasciano finalmente mezza morta...La legge
data da Mosè è passata..., ma le è mancata la forza, e non ha
potuto condurre l'umanità alla piena guarigione, non ha potuto
rialzare l'umanità che giaceva in questo modo... Infatti la Legge
offriva dei sacrifici e delle offerte che «non hanno il potere di
condurre alla perfezione coloro che si offrono a Dio»... perché «è
impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri»
(Eb 10,1-4)...Infine, un Samaritano passò accanto. Apposta Cristo
dona a se stesso il nome di Samaritano. Infatti... egli è venuto in
persona, compiendo il disegno della Legge e mostrando con le sue
opere «chi è il prossimo» e cosa significa «amare gli altri come
se stesso». (Severo di Antiochia, Vescovo, Discorsi,
89 ).
Nessun commento:
Posta un commento