venerdì 26 luglio 2019

Pregare è dire: Padre, Abbà=Papà

Rito romano
XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 28 luglio 2019.
Gn 18, 20-21. 23-32; Sal 137; Col 2, 12-14; Lc 11, 1-13.
Padre nostro


Rito ambrosiano
X Domenica di Pentecoste
1Re 3,5-15; Sal 71; 1Cor 3,18-23; Lc 18,24b-30
Un Padre che ci dà cento volte di più di quello che abbiamo lasciato per seguire Cristo

1) Come preghiamo viviamo da figli.
Il Vangelo di questa domenica ci spinge a riflettere sulla preghiera e a praticarla, mettendoci alla scuola di Cristo. Alla domanda: “Maestro, insegnaci a pregare” Gesù non risponde con una teoria sulla preghiera, sul suo significato e sulla tecnica con cui farla. Molto semplicemente si propone ai discepoli e a noi come esempio di Figlio che parla al Padre e di nostro fratello che prega con noi e ci rivela le domande da fare al Padre suo e Padre nostro. Per questo il modo migliore di imparare a pregare è quello di pregare, come insegna anche M. Teresa di Calcutta, che alla domanda: “Come possiamo imparare a pregare”, lei rispondeva: “Pregando”.
In effetti se la preghiera è il respiro dell’anima, non ci resta che respirare e respirare bene.
La preghiera di Gesù è la sua comunione con il Padre e anche per noi la preghiera è la nostra comunione con Dio. Noi pensiamo che la preghiera sia una delle cose da fare, come respirare è una delle cose da fare. Se però ci dimenticassimo di respirare un minuto, moriremmo per sempre.
Nella nostra vita ciò che non è in comunione con Dio, ciò che non è frutto di amore, di respiro amoroso, ricevuto e corrisposto, è morte. Anche se facciamo opere buonissime come Marta: tutto morto. Perché la vita è proprio la comunione con Dio, che è l’amore.
La preghiera è l’espressione di questo amore che è la vita stessa di Dio, che è il rapporto tra Padre e Figlio ed è ciò che Gesù è venuto a portare a ciascuno di noi: il suo rapporto con Dio. La preghiera di Cristo deve diventare la nostra con la recita assidua del “Padre (Abbà) nostro”, ricordandoci che l’ esatta traduzione di Abbà è Papà. Noi stessi siamo figli, adottivi, ma figli, amati, per cui stiamo nella vita, come figli amati, nella gioia, nella pace, nella benevolenza. È bello vivere!
Se come Adamo fuggiamo da Dio, perché abbiamo paura di Lui che ci è Padre, andiamo verso la morte: è la nostra storia, siamo davanti alla morte, alla paura, alla vergogna, al nascondimento, alla violenza. Insomma davanti a Lui siamo figli, siamo noi stessi, lontani da Lui siamo come un osso slogato, fuori posto, sentiamo solo il male di vivere.
2) Il che cosa e il come.
Nel Vangelo “romano” di oggi insegnando il Padre nostro e la parabola dell’amico importuno, Gesù ci dice
  1. che cosa chiedere a Dio, per essere sempre più familiari a lui, per vincere il male e ottenere tutto ciò che desideriamo. Non va però dimenticato che quando preghiamo con le nostre parole, esprimiamo i nostri sentimenti, desideri e necessità. Invece quando “usiamo” il Padre nostro, facciamo nostri i sentimenti di Gesù verso il Padre e verso i nostri fratelli.
  2. Come chiederGlielo: con insistenza, fiducia e umiltà, che aspetta tutto dalla bontà onnipotente di Dio, con cui si dialoga. A questo riguardo oggi ci aiuta la prima lettura della liturgia romana, che mostra come Abramo sappia dialogare con il Signore, ottenendo pietà per la città dove abita.

E’ un dialogo sempre iniziato da Dio e che ha noi come interlocutori liberi (in latino figlio si dice “liberus”).
Il colloquio, il dialogo (Dio ti ascolta, tu gli puoi parlare, tu sei Suo figlio), questo rapporto vicendevole è una eminente caratteristica del Cristiano, che è redento ed è entrato nella vita divina, come figlio adottivo, ma pur sempre figlio.
Lo schiavo non ha il diritto di parlare, deve accettare soltanto la legge del padrone e obbedire senza obiettare. Nel cristianesimo l’uomo è figlio e non solo ascolta Dio ma anche gli parla; l’uomo è entrato veramente in comunione con l’Eterno, può rivolgersi a Lui e stabilire con Lui il rapporto più intimo: da figlio a Padre. Dunque quando si rivolge a Dio con la preghiera del Padre Nostro riconosce un legame profondo (il termine esatto è ontologico), una unione, una comunione di sangue.
  Questa comunione è reale come reale è il sangue che Cristo ha versato per noi sulla Croce. Con questa comunione sacrificale Cristo Risorto porta in alto l'umanità: noi siamo chiamati lassù dentro il disegno dell'Amore. Non bisogna vivere alla cieca, ma con gli occhi della fede e della speranza che sa che il Signore viene inaspettatamente, non solo alla fine dei nostri giorni, ma ora, con la sua grazia, per vivere con noi, in contrasto talvolta col nostro atteggiamento determinato da delusioni, scoraggiamenti, contrarietà, ecc.
A questo proposito ci possono essere di aiuto le parole finali del dialogo del cardinale Federico, Arcivescovo di Milano, con don Abbondio: “Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina: lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vuoti, perché Gli piaccia di riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l'avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza: che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno” (Alessandro Manzoni1, I promessi Sposi, cap. XXVI).

3) Perché pregare?
  Si possono dare varie risposte. Quella che ritengo importante proporre è che la preghiera è necessaria alla vita integrale come l’aria. Occorre pregare per vivere e per vivere occorre respirare. La preghiera è il respiro dell’anima, del cuore, di tutto il nostro essere.
Nel secolo scorso, un celebre medico ateo, Alexis Carrel, si convertì a Lourdes assistendo personalmente ad un miracolo: vide guarire sotto i suoi occhi un malato terminale al quale aveva egli stesso diagnosticato il male inguaribile. Si convertì. Più tardi scrisse anche un libro sulla preghiera, esprimendosi così: “Quando la preghiera è veramente presente, la sua influenza è paragonabile a quella di una ghiandola a secrezione interna, come la tiroide o le surrenali, per esempio. Il senso del sacro è analogo al nostro bisogno di ossigeno e la preghiera è analoga alla respirazione”. 
Se poi sfogliamo le pagine dei libri di storia della Chiesa, vi leggiamo come la preghiera era vissuta già dai primi monaci in Oriente, ci si accorge che il problema della respirazione è ritenuto fondamentale
S. Antonio Abate era solito salutare i suoi compagni nel deserto, dicendo loro: “Respirate Cristo!”.
I primi monaci avevano inventato una formula di preghiera brevissima: “Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore”, e la formula – ripetuta un’infinità di volte - doveva accompagnare il ritmo della respirazione.
S. Giovanni Climaco insegnava: “Bisogna che il ricordo di Gesù si unisca intimamente al tuo respiro, e conoscerai il segreto della pace interiore”.
S. Ignazio di Loyola scriveva nei suoi Esercizi Spirituali: “Bisogna chiudere gli occhi per guardare Gesù nel proprio cuore, e mormorare le parole del Pater, sulla misura del proprio respiro”.
Nei salmi si trova sempre, a metà del versetto, un asterisco (*) che avverte: “Qui devi respirare” e guardare in alto (asterisco sta per astro = la stella): e, in un certo senso, questo respiro e questo sguardo fanno parte della preghiera liturgica.
L’uomo rimarrà vivo finché la radice del soffio di Dio non sarà strappata dai suoi polmoni. Così ha cominciato a vivere il primo uomo e così ognuno di noi comincia a vivere appena esce dal mistero del grembo materno.
Per ogni uomo vivere significa accogliere e conservare in sé questo divino respiro, morire significa che Dio se lo è ripreso.
La Bibbia insegna: “Se Dio richiamasse a sé il suo alito, e in sé concentrasse il suo soffio, ogni carne morrebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe polvere” (Gb 34,14-15). Anche nel libro dei Salmi è scritto: “Se alle creature Tu togli il respiro, o Dio, muoiono e ritornano nella polvere. Se invece mandi il tuo spirito, le cose sono create, e rinnovi la faccia della terra” (Sal 104, 29-30).
San Pio da Pietrelcina diceva spesso: “La preghiera è il pane e la vita dell'anima, il respiro del cuore, un incontro raccolto e prolungato con Dio.”
La Bibbia è piena di respiri-colloqui col Creatore. Gesù ha pregato ed esortato a pregare; i cristiani nei primi tempi erano chiamati uomini di preghiera. Ma è anche molto importante questa sottolineatura che Padre Pio fa della preghiera: essa è incontro raccolto e prolungato.
Raccolto, perché non si può pregare senza prepararsi alla preghiera e se si è pieni di tanti nostri problemi, ansie e preoccupazioni.
Prolungato: perché non è possibile pregare per una manciata di minuti. Occorre del tempo per entrare nella preghiera, purtroppo succede che quando stiamo incominciando a pregare lasciamo lì, dobbiamo andare e con noi se ne va anche la preghiera.
Infine, credo importante segnalare l’esempio delle Vergini Consacrate, che con la lo scelta di una vita di preghiera manifestano lo scopo supremo della preghiera che accompagna con discrezione verso la coscienza di tutti, che accompagna e alimenta un'opera così grande, dettata da emozione, da commozione per l'uomo, per ogni figlio di donna - così come Cristo ci ha dato l'esempio, ci ha reso possibile - sia la lode a Dio (Rituale della Consacrazione delle vergini, n 68: “Ricevete il libro di preghiera della Chiesa. Non cessate mai di lodare Dio e di intercedere per la salvezza del mondo”), la gloria di Cristo. Perché gloria di Cristo vuol dire il benessere più grande per l'uomo; vuol dire una umanità migliore. È per questo che noi per­seguiamo Cristo e non lo abbandoniamo, anche se ripetiamo senza accorgercene quello che disse Pietro: “Cristo, se andiamo via da Te, dove andiamo? Tu solo hai parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68).

1) Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 – morì il 22 maggio 1873.
Ricevette il battesimo nella Chiesa di San Babila a Milano, compì gli studi nei collegi dei padri Somaschi (a Merate e Lugano) prima, in quello dei Barnabiti (Milano). Fu per anni insofferente e critico nei confronti della religione, ma intorno ai 35 anni ritornò alla fede ed alla pratica cristiana. La conversione non fu improvvisa, ma piuttosto graduale, consentanea al suo carattere analitico, razionale. «Nei misteri della fede la ragione trova la spiegazione dei suoi propri misteri: come è nel sole, che non si lascia guardare, ma fa vedere» (Dell'invenzione). E ancora: «mistero di sapienza e misericordia... che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo» (Osservazioni sulla morale cattolica, VIII).
Il compito del poeta-scrittore è un servizio alla verità: far emergere, dentro la rappresentazione di un fatto, di una vicenda, la verità di quel fatto, di quella vicenda, che è la verità dell'intera realtà dell'uomo e della storia. Nelle tragedie e nei Promessi Sposi questa intuizione cerca di farsi comprensibile a tutti
Un alto sentimento religioso circola in ogni parte di quel mondo descritto nel romanzo i Promessi Sposi, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i personaggi più tristi e i più vili. L’intervento di Dio-Provvidenza negli avvenimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti sembra di poterlo toccar con mano: è una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l’avverte con la fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera gente: “quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa; c’è anche per noi”; “lasciamo fare a Quello lassù”; “tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà”.
Non va poi dimenticato che la produzione letteraria del Manzoni fa di lui uno dei padri della lingua italiana moderna.
Poiché ci sono molti commenti sul Padre nostro, questa volta ho preferito proporre due Letture quasi patristiche per mostrare il “Che cosa” e il “come pregare”

1) Parafrasi del “Padre Nostro” di San Francesco d’Assisi,
che aiuta a capire “che cosa” chiedere a Dio


O santissimo Padre nostro,

creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.


Che sei nei cieli,
negli angeli e nei santi,
illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce;
infiammandoli all'amore, perché tu, Signore, sei amore;
ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine,
perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno,
dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.


Sia santificato il tuo nome,
si faccia luminosa in noi la conoscenza di te,
affinché possiamo conoscere l'ampiezza dei tuoi benefici,
l'estensione delle tue promesse,
la sublimità della tua maestà
e la profondità dei tuoi giudizi.


Venga il tuo regno,
perché tu regni in noi per mezzo della grazia
e ci faccia giungere nel tuo regno,
ove la visione di te è senza veli,
l'amore di te è perfetto,
la comunione di te è beata,
il godimento di te senza fine.


Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra,
affinché ti amiamo con tutto il cuore sempre pensando a te;
con tutta l'anima, sempre desiderando te;
con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni
e in ogni cosa cercando il tuo onore;
e con tutte le nostre forze,
spendendo tutte le energie e sensibilità dell'anima e del corpo
a servizio del tuo amore e non per altro;
e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi,
trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore,
godendo dei beni altrui come dei nostri
e nei mali soffrendo insieme con loro
e non recando nessuna offesa a nessuno.


Il nostro pane quotidiano dà a noi oggi:
il tuo Figlio diletto,
il Signore nostro Gesù Cristo,
dà a noi oggi:
in memoria, comprensione e reverenza dell'amore
che egli ebbe per noi e di tutto quello
che per noi disse, fece e patì.


E rimetti a noi i nostri debiti
per la tua ineffabile misericordia,
per la potenza della passione del tuo Figlio diletto
e per i meriti e l'intercessione della beatissima Vergine
e di tutti i tuoi eletti.


Come noi li rimettiamo ai nostri debitori
e quello che non sappiamo pienamente perdonare,
Tu, Signore, fa' che pienamente perdoniamo,
sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici
e devotamente intercediamo presso di te,
non rendendo a nessuno male per male
e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti.


E non ci indurre in tentazione
nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.


Ma liberaci dal male
passato, presente e futuro.

Amen.


2) Suggerimenti di Sant’Ignazio di Loyola sul “Come pregare”.

Nel libro degli Esercizi Spirituali, S. Ignazio di Loyola indica diversi modi di pregare. Tra questi vi sono i cosiddetti “tre modi di pregare” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, nn. 238-260) che sono adatti a tutti.
Primo modo di pregare.
È un esame di coscienza meditato, che aiuta a conoscere meglio le personali inclinazioni al peccato, ma anche a progredire nella conoscenza dei fondamenti cristiani e dei doni di Dio.
In che cosa consiste?
  • All’inizio un momento di raccoglimento, per entrare con più consapevolezza in preghiera.
  • Una preghiera preparatoria, per chiedere possibilità di vivere bene questo momento, conoscere i miei errori e la forza di correggermi.
  • Il passo successivo consiste nell’esaminare la materia, suddivisa in quattro parti: i dieci Comandamenti, i sette vizi capitali, le tre facoltà umane (memoria, intelletto, volontà) e i cinque sensi del corpo. Quanto tempo? Almeno mezzora.
  • Concludo con un dialogo familiare col Signore, chiedendo e ringraziando. 
Questo primo modo si presta a molte utilizzazioni pratiche, perché l’elenco della materia non è vincolante. Ad esempio, consente agli appartenenti a Vita Religiosa e Consacrata una verifica sul significato delle regole e dei voti e sulla fedeltà agli stessi.
Può esser poi utilizzato come preparazione più approfondita per la Confessione
 
 
Secondo modo di pregare
È una meditazione semplice sulle preghiere cosiddette tradizionali, per riscoprirne profondità e gusto.
Come si fa?
  • Anche qui un momento di raccoglimento iniziale, per entrare con più consapevolezza in preghiera;
  • una preghiera preparatoria per chiedere possibilità di vivere bene questo momento, apprezzare e gustare la profonda essenzialità di queste preghiere;
  • scelgo una preghiera tra quelle abituali (es. Padre Nostro, Ave Maria, Credo) mi fermo su ogni parola, alla quale scoprirò che sono legate immagini, significati, miei ricordi personali. Posso sostare mezzora ma non più di un’ora. Se il tempo non è sufficiente a esaurire la materia, questa stessa può essere ripresa un altro giorno: ad esempio, mi fermo per tutto il tempo sulla parola Padre, che si lega a Dio Creatore, ma anche mi fa pensare al mio padre naturale. E così da queste considerazioni nascono pensieri, affetti del cuore, desideri, a volte anche tristezze.
  • Un dialogo a tu per tu con la persona alla quale la preghiera era rivolta (es. Dio Padre o Maria o Gesù), per domandare ciò di cui mi sento più bisognoso. Il fine è tradurre in propositi concreti gli affetti e i desideri che scaturiscono dalla preghiera, sempre legata alla vita di ognuno di noi.
Due precisazioni:
  1. Le preghiere cosiddette tradizionali parlano di Gesù, del Padre, di Maria, dello Spirito Santo e così via. Già dall’inizio è tengo presente la persona che è descritta nella preghiera.
  2. Altro punto significativo e molto pratico riguarda l’atteggiamento del corpo: fissare gli occhi su un punto o di chiuderli, per evitare che l’occhio, captando immagini esterne, provochi distrazioni e interferenze.
 
L’esercizio si può estendere ad altre preghiere liturgiche, quali i Salmi e le Preghiere Eucaristiche della Messa, e può essere utile soprattutto a quanti sono tenuti alla recita ordinaria del Salterio nella Liturgia delle Ore e alla quotidiana celebrazione dell’Eucarestia, specie nei periodi di aridità. Però può servirsene ogni buon cristiano che abbia il desiderio di andare oltre l’apparente semplicità delle preghiere tradizionali, per approfondire e arricchire il valore delle singole parole.
 
 
Terzo modo di pregare
Tende a una preghiera che si distacchi sempre più dal pensare per coinvolgere maggiormente il cuore. È legato al modo precedente, in quanto ha in comune i medesimi atti preparatori e la stessa materia. L’elemento caratteristico del terzo modo, rispetto al secondo, è la maniera di procedere. Perché?
  • Dopo la preparazione e dopo aver scelto la preghiera, utilizzo il ritmo respiratorio. Cioè ad ogni respiro unisco una parola del Pater o di un’altra preghiera scelta. Ricorda i metodi orientali, ma non cerco qui la pacificazione interiore, bensì pensieri, sentimenti e affetti legati a quella parola, senza più bisogno di sforzi mentali anche minimi (come avveniva nel secondo modo).
  • Ripercorro dunque la preghiera parola per parola, al ritmo respiratorio. A ogni respiro una parola, alla quale si uniranno senza sforzo e in modo immediato sentimenti, pensieri, ricordi, tutto nello spazio di un respiro. L'acquisizione di un regolare e lento ritmo respiratorio sono strumentali a un'immersione più profonda nel mistero di Dio, senza necessità di soste prolungate sulle parole.
  • Una singolarità, rispetto agli altri due modi, è l'assenza di indicazioni circa il dialogo finale, non perché non sia importante, quanto perché, in fondo, questo esercizio in sé è come un lungo colloquio.
E’ possibile un impiego molteplice di tale modo nei vari campi dell’orazione. Infatti, oltre che favorire una maggiore interiorizzazione delle preghiere tradizionali ed evitare che diventino formule meccaniche, può essere di grande utilità nella recita della Liturgia delle Ore. Unire al salmo il ritmo respiratorio permette di dare risalto ai vari versetti, specie i più espressivi, e di gustarne la profondità, soprattutto quando, per via dell’aridità o di difficoltà, la preghiera diventa una routine.


domenica 21 luglio 2019

L’azione viene dalla contemplazione.

Rito romano
XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C - 21 luglio 2019
Gn. 18,1-10a; Sal 14/15; Col. 1,24-28; Lc. 10,38-42 
Marta ospita e Maria accoglie.

Rito ambrosiano
IX Domenica di Pentecoste
1Sam 16, 1-13; 2Tm 2, 8-13; Mt 22, 41-46.
Chi è Gesù per me?


  1. Ospitare Cristo.
Oltre a chiederci di ospitare il Messia in casa nostra come Marta e Maria, le due sorelle di Lazzaro, lasciandoci capovolgere, convertire da lui, il Vangelo di questa domenica d’estate ci insegna a impegnarci nel lavoro in casa e fuori casa, dando il primo posto a Cristo, che è luce interiore di Amore e di Verità. Senza amore, anche le attività più importanti perdono di valore, e non danno gioia. Senza un significato profondo, tutto il nostro fare si riduce ad attivismo sterile e disordinato. E chi ci dà l’Amore e la Verità, se non Gesù Cristo? Impariamo dunque ad aiutarci gli uni gli altri, a collaborare, ma prima ancora a scegliere insieme la parte migliore, che è e sarà sempre il nostro bene più grande.
Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto: «Marta, Marta, ti preoccupi e ti agiti per troppe cose...». Rinchiudere queste parole di Gesù dentro la prospettiva della vita attiva nel mondo (Marta) e della vita contemplativa del chiostro (Maria) significa mortificarle. La prospettiva è più ampia e tocca due atteggiamenti che devono far parte della vita di qualsiasi discepolo: l'ascolto e il servizio. La tensione non è fra l’ascolto e il servizio, ma fra l’ascolto e il servizio che distrae.
Per questo Gesù elogia Maria, che sta ai suoi piedi e si intrattiene ad ascoltare la sua parola, , a differenza della sorella Marta così indaffarata da essere definita dalle cose da fare più che dal suo rapporto con Cristo. Non perché non approvi la premura e l’operosità di Marta e neppure perché esalti come privilegiata la vita contemplativa sulla vita attiva, ma semplicemente perché vede in Maria la predilezione per quella “parte migliore” che “qualifica” e dà senso ad ogni altra attività: la vita contemplativa, l’ascolto e l’attenzione. Certamente l’azione e l'intraprendenza sono in sé lodevoli e per la risultante indispensabile della produttività; ciononostante qualsiasi opera perde il suo valore e si svuota di significato quando non è preceduta da un atto di fede semplice: quello dell’ascolto, dell’attenzione e, soprattutto, della preghiera. Sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola dobbiamo essere “contemplativi nell'azione e attivi nella contemplazione”, affinché possiamo essere capaci di recare agli altri i “contemplata” della nostra vita: Dio, la sua verità ed il suo amore.
L’accoglienza nella carità è espressione di una fede matura e solida. Chi mostra generosità dimostra di credere e di questo ci rende edotti Abramo, nostro “padre nella fede”.
Per aver accolto con sollecitudine il Signore che gli si era presentato in incognito, questo Santo Patriarca ottiene il grande e straordinario dono di un figlio nonostante la tarda età sua e di sua moglie. Sara si mostra scettica alla promesse di poter partorire in tarda età, ma Abramo si mantiene saldo nella fede in quel Dio al quale nulla è impossibile e che ricompensa adeguatamente chi gli ha usato fedeltà e attenzione. Abramo è il padre della fede e in questa circostanza, nella quale riconosce il Signore nei tre viandanti, li ospita associa la fede alla carità, poiché questa è un derivato della prima. “Il Signore ama chi dona con gioia”, insegna Paolo (2Cor 9, 7) e la vera ragione ultima della gioia è proprio la fede, perché credere e affidarsi è all'origine di ogni atto d’amore.

2) Il modo di ospitare di Maria non fu dettato dalla pigrizia, ma dall’amore.
Non solo Marta, ma anche Maria ha “fatto” qualcosa per Cristo, anzi ha scelto il modo migliore di “fare”.
Ma procediamo con ordine.
La prima Lettura e il Vangelo della liturgia romana ci presentano, tutte e due, un episodio in cui viene messa in pratica l'ospitalità: il modo di Abramo che, secondo me, non è molto diverso da quello di Marta e il modo di Maria, sorella minore di Marta.
I primi due si danno da fare per essere dei buoni ospiti e accogliere colui che viene. Però la gioia della visita, che il Signore fa loro, è diventata “fatica” in Marta e “perplessità” in Sara, la moglie di Abramo.
Immedesimiamoci in questo nostro Padre nella fede, il quale meritò di vedere Dio sotto forma umana e di riceverlo come suo ospite, perché si era offerto a Dio e lo aveva accolto. “Fu elevato fino a Lui, perché non riteneva più nessun uomo finalizzato ad altro, ma considerava ciascuno di loro come tutti, e tutti come uno solo1. L’ospitalità data si trasformò nella fecondità desiderata: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio” (Gn 18, 10). Finalmente, dopo venticinque anni d’attesa, Abramo e Sara, poterono dire: “Noi siamo rifioriti come popolo nuovo e siamo germogliati come spighe nuove e prosperose2.
Immaginiamoci di essere al posto di Marta, che è lieta perché Gesù arriva a casa sua. Ma insieme con Gesù arrivano Pietro, Giacomo, Giovanni, fino a Giuda,  e poi magari anche le donne che Lo seguono. Per cui, il sorriso iniziale nell’accogliere Gesù, a mano a mano che la gente entra in casa, diventa smorfia segno di nervosismo. Marta perde la pazienza con la sorella Maria che non l’aiuta, ed anche col Signore. 
Il problema della nostra vita è che nell’accogliere l’altro (e c’è sempre un altro da accogliere), non ci lasciamo sempre abbracciare da Colui che ci genera e ci vuole bene. Il problema, e direi il peccato, è che noi ci teniamo lontani  da Colui che ci genera amandoci. Tutta la fatica, tutta la tristezza, tutta la rabbia e lo spreco di energie vengono dal fatto che, come Marta, siamo definiti più dalle cose da fare per l’Ospite, che dal rapporto con la persona stessa dell’Amato, che bussa alla porta della nostro cuore e non solo alla porta della nostra casa.
Infine, immedesimiamoci in Maria che vive la venuta di Gesù in casa sua non tanto come una particolare inclinazione, ma come la dimensione propria di ogni cristiano che tiene all’amicizia con Cristo.
Dunque cosa “fa” questa contemplativa? Si siede ai piedi di Gesù e lo ascolta. Ma prima, secondo me, gli ha lavato i piedi. L’aveva già fatto a casa di Simone il fariseo, usando del profumo preziosissimo. Figuriamoci se non l’ha fatto in casa sua per l’amico fraterno che l’aveva perdonata, che le aveva ridato dignità e vita e che aveva i piedi impolverati per il viaggio.
Se Marta assume nei confronti dell'ospite un ruolo tipicamente femminile, (almeno secondo la mentalità di quei tempi): è tutta indaffarata a preparare la tavola, vediamo che c’è già una novità. Per noi è normale che una donna accolga, invece non era normale per quei tempi: innanzitutto la donna non può accogliere; la casa è dell’uomo e sappiamo che è la casa di Lazzaro, suo fratello. Invece l’evangelista Luca insiste e dice che è una donna che accoglie Gesù. D’altro canto la prima persona che “ospitò” il Verbo di Dio fu una donna: la Madonna.
Maria va ancora più in là di sua sorella, Marta. Si intrattiene con l'ospite, assumendo un ruolo che a quel tempo era esclusiva degli uomini. Inoltre, sedendosi ai piedi del Maestro per ascoltarlo, Maria assume la tipica figura del discepolo. E anche questa è una novità. I rabbini infatti non usavano accettare le donne al proprio seguito, e divenire discepolo era riservato agli uomini. Per Gesù non è così. Anche le donne sono chiamate all'ascolto e al discepolato.

3) Alla scuola della Parola.
Il discepolo (come dice il verbo latino dìscere = imparare) va a scuola per imparare. Alla scuola della Parola fatta carne impara che il primo servizio da rendere a Dio - e a tutti - è l'ascolto. E’ dall'ascolto e non dal fare che comincia la relazione. Quando poi la parola si fa sguardo abbiamo la contemplazione.
Forse fra cento anni, si riconoscerà che la più grande rivoluzione dei tempi moderni l’ha fatta la piccola e raggrinzita Santa Teresa di Calcutta. Non tanto per quello che ha fatto e ha fatto fare, che -come diceva lei stessa- era una goccia nel deserto dell’immensa povertà del mondo, ma per lo sguardo con cui, partendo dalla contemplazione di Gesù, ha guardato l’uomo, ogni uomo, dal più povero dei poveri al più potente. Ciò che conta è ascoltare il Signore e le sue parole come faceva il profeta Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti”(Ger 15, 16).
Il Padre disse: “Questi è il mio Figlio, l’Amato, nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo” (Mt 17,5; cfr anche Mc 9,6; Lc 9,35): “ascoltate Gesù” e diventerete Gesù nell’ascolto.
È l’atteggiamento della sposa. La sposa è colei che accoglie la Parola, cioè lo sposo. La missione di ogni uomo è essere la sposa di Dio, cioè colui che ascolta, che accoglie la Parola, seme che ci trasforma ad immagine e somiglianza sua.
L’uomo è uomo perché ascolta e diventa la Parola che ascolta. Se ascolta Dio diventa Dio. Concepisce Dio non come concetto, ma come Presenza che cambia spiritualmente e fisicamente la vita e il corpo, come è accaduto alla Vergine Maria, nella quale è rappresentato il vertice dell’umanità.
L’ascolto di Dio da parte nostra è capirlo, concepirlo, lasciarlo entrare e rimanere in noi. L’ospitalità umana è far si che gli altri abitino da noi. L’ospitalità cristiana è far si che l’Altro (Dio) e gli altri abitino in noi. Ed è anche per questo – io penso - che l’ospitalità è così fortemente “comandata” da San Benedetto ai suoi monaci3.
Va infine ricordato che quando Gesù rimprovera fraternamente Marta dicendo che si affanna e si agita per troppe cose, non contesta il preparare da mangiare, ma l’affanno, non mette in questione il cuore generoso di Marta ma l'agitazione. Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l'ascolto: “Marta, Marta, ti preoccupi e ti agiti per troppe cose...”. Rinchiudere queste parole di Gesù dentro la prospettiva della vita attiva nel mondo (Marta) e della vita contemplativa del chiostro (Maria) significa mortificarle. La prospettiva è più ampia e tocca due atteggiamenti che devono far parte della vita di qualsiasi discepolo: l'ascolto e il servizio. La tensione non è fra l'ascolto e il servizio, ma fra l'ascolto e il servizio che distrae. Marta è tanto affaccendata nel servire l'ospite che non ha più spazio per intrattenerlo. Diceva un vecchio rabbino parlando di un suo collega: “E’ talmente indaffarato a parlare di Dio da dimenticare che esiste”.
Se anche noi ci sediamo ai piedi di Cristo impareremo la cosa più importante: l’amore, che non è solo la parte migliore è quella buona, distinguendo il superfluo dal necessario, l’illusorio dal permanente, l’effimero dall’ eterno. Dio “agisce” amando e non dobbiamo “fare” altrettanto.
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate, che con la loro dedizione mostrano la verità di questa frase biblica: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2, 21-22)” e alla domanda dell’odierno Vangelo ambrosiano: “Chi è Gesù per me”, rispondono: “Il mio sposo”, rinnovando il sì detto il giorno della loro consacrazione: “Vuoi essere consacrata al Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio altissimo, e riconoscerlo come sposo?”, “Sì, lo voglio” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, n. 14).
Preghiamo dunque così: “Concedici di amare te, per avere in dono te, che sei l'Amore - e donaci di bene operare per rendere tutta la vita una lode a te”(è una delle invocazione delle Lodi del lunedì della II settimana della Liturgia delle Ore).

1 S. Massimo il Confessore, Ep. 2; PG 91, 400.
2 S. Giustino, Dialogo con Trifone, 119.
3 Si veda la Regola di San Benedetto, di cui -più sotto- quale lettura patristica, è come proposto il capitolo 53 sull’ospitalità.


Lettura patristica
REGOLA DI SAN BENEDETTO
Capitolo 53: L'accoglienza degli ospiti

  1. Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"
  2. e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini.
  3. Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore;
  4. per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace.
  5. Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche.
  6. Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza,
  7. adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità.
  8. Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro.
  9. Si legga all'ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità.
  10. Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all'ospite,
  11. mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.
  12. L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda;
  13. lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti
  14. e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio".
  15. Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé.
  16. La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero.
  17. Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve.
  18. A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n'è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l'obbedienza.
  19. E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio
  20. e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine.
  21. Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio:
  22. in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge.
  23. Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l'incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti,
  24. Ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

venerdì 12 luglio 2019

Convertisi all’amore facendoci prossimo agli altri, come Cristo si è fatto prossimo a ciascuno di noi.

Rito romano
XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C - 14 luglio 2019
Dt 30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37
Tu hai parole di spirito e vita – Parabola del Samaritano

Rito ambrosiano
VIII Domenica di Pentecoste
1Sam 8,1-22a; Sal 88; 1Tm 2,1-8; Mt 22, 15-22
Dare a Cesare e a Dio.


Premessa:
Penso che la parabola del buon samaritano metta l’accento sul verbo “amare” più che sulla parola “prossimo”. Il samaritano si accorge del ferito, ha compassione (un sentimento umano che dovrebbe albergare in ogni uomo, anche nell’uomo che crediamo essere diverso da noi) e i suoi gesti sono descritti uno a uno, quasi al rallentatore. Il samaritano non si è chiesto chi fosse il ferito, il suo aiuto è disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo.
Inoltre alla fine del brano evangelico di oggi Gesù fa allo scriba questa domanda:: “Chi di questi tre (il levita, il sacerdote e il samaritano) si è davvero fatto prossimo a colui che è stato derubato e ferito dai ladri?”.
Dal prossimo come oggetto da amare al prossimo come soggetto che ama, questo il punto importante. Il prossimo da aiutare non si può definire, è colui nel quale ci imbattiamo, per caso. Il problema è un altro: è quello di chiedersi se abbiamo dentro di noi la prossimità verso i bisogni degli altri, chiunque essi siano. È questo il vero problema. Lo scriba che aveva una domanda teologica da esporre, si vede invitato a convertire se stesso.
Gesù gli chiede di convertisi alla compassione non solo come emozione ma come azione., traducendo la compassione in gesti concreti.
1) Quattro personaggi e un luogo da individuare.
Per aiutare la nostra conversione propongo le seguenti domande:
Il sacerdote chi è? Sono io quel sacerdote.
E il levita? Sono ancora io.
E l’uomo ferito? Ancora io.
E il samaritano chi è? È Gesù. E Gesù cosa fa? Si fa mio prossimo, si prende cura di me in modo tale da diventare Lui come me: diventa ferito, nudo, crocifisso al mio posto, e io. invece, sono curato, rivestito di dignità e riportato in vita.
Il sacerdote e il levita avevano compiuto il loro servizio nel tempio di Gerusalemme e ritornavano a casa. Al vedere l’uomo ferito non si fermarono. Forse ritenevano morto quello che invece era solo mezzo morto, e non volevano toccarlo, perché il cadavere rendeva culturalmente impuri (Cf. Lea 21,1). Oppure avevano paura di essere anch’essi aggrediti. In loro tutto ciò è più forte della compassione. In quanto sacerdote e levita rappresentavano uomini che dovevano incarnare il comandamento dell’amore di Dio. Ma l’amore del prossimo? Purtroppo, culto e compassione erano in loro due cose distinte.
E la locanda che cos’è? La Chiesa, che accoglie tutti.
2) Chi ci è prossimo1?
Noi siamo abituati all’espressione “buon Samaritano” e ci sembra un modo di dire normale, che però ovvio non è. Di tratta di un un ossimoro2 (una contraddizione). In effetti per gli Ebrei di duemila anni fa i samaritani erano gli eretici, gli scismatici, gli esseri disprezzati ancor più dei pagani. Quindi se c’era qualcuno che non poteva essere il loro prossimo, erano i samaritani . Inoltre Gesù non dice che il samaritano è da aiutare perché prossimo, ma “osa” donare ai suoi compaesani un Samaritano quale esempio della perfezione umana e divina, per avere la vita felice ed eterna.
Questo dono è stato capito così bene nella Chiesa che Gesù è da sempre indicato come il “buon Samaritano”, e la Chiesa stessa si fa “prossimo” all’umanità indigente.
Cristo e la Chiesa con Lui si chinano sull’uomo debole e ferito, per salvarlo, perché il Regno di Dio ha questo “prezzo”: la compassione.
Il Figlio di Dio, la Misericordia fatta carne, porta la benedizione di Dio, facendosi prossimo dell’uomo, che da lui è compatito, curato e guarito per il Regno dei Cieli.
Per farci capire la grandezza e la profondità di questa sua prossimità, Gesù usa varie parabole: quella del buon pastore che salva le pecore spogliate, battute e messe a morte (Gv 10,10), quella del figlio del padrone della vigna che si presenta dopo i profeti mandati invano (Gv 10; Lc 20,9-18), e quella del Samaritano che mostra un viaggiatore che non evita un uomo sanguinante per le ferite, ma gli va accanto per compassione e lo toglie dalla strada dove giaceva ferito.
Immaginiamoci la scena e immedesimiamoci nel ferito soccorso dal samaritano, che arriva dopo i sacerdoti e i leviti che non hanno voluto e non hanno potuto salvare l’uomo ferito, forse anche perché era uno sconosciuto, estraneo alla loro tribù e famiglia. E' riflessa qui la storia della salvezza in cui Gesù viene sotto l’aspetto di un samaritano disprezzato, rivela ciò che le altre tecniche della salvezza hanno dimenticato, costruisce proprio là dove queste tecniche hanno fallito.
In Cristo Dio si è avvicinato all’uomo con una figura semplice ed umana. Il Dio che ora conosciamo “non è troppo alto né troppo lontano” da noi e la sua legge è molto vicina a noi; è nella nostra bocca e nel nostro cuore perché la mettiamo in pratica (prima lettura del rito romano). Solo facendo quello che anche Cristo ha fatto, incontriamo veramente il Prossimo (Dio) e il prossimo (l’uomo): il nostro cuore non matura che nell’accoglienza dell’Altro e dell’altro, ed ha un solo “bel difetto” ha bisogno di essere amato.
Dunque Gesù, nel concludere la parabola, capovolge la seconda domanda (la prima è stata: “Cosa devo fare per avere la vita eterna?”) del dottore della Legge 3. Questi aveva chiesto: “Chi è il mio prossimo?”.
La domanda sembra fatta per convincere Gesù che “amare Dio” è senza limiti e orizzonti, ma che “amare il prossimo” aveva dei limiti ben precisi. Mi pare che la domanda supponga che noi possiamo scegliere quale sia il prossimo da amare, con la possibilità di rifiutare coloro che non sono degni di essere amati. Gesù la capovolge: “Chi ha avuto compassione4 di lui?”. Dunque è importante non solamente sapere di chi dobbiamo avere compassione, ma conoscere chi ha compassione di noi. Oggi Lui vuole insegnarci non tanto chi è il nostro prossimo, ma farci capire Chi viene vicino a noi che giaciamo per strada. In primo piano non vi è colui che gestisce la sua compassione e la distribuisce a chi ritiene opportuno, ma colui che nel bisogno attende un gesto di compassione da un Viandante che si fa a lui prossimo, avvicinandosi e curandoci.
3) Il prezzo del Regno di Dio: la compassione.
Se nelle righe precedenti ho suggerito di immedesimarci nell’uomo ferito per capire che il nostro prossimo è Cristo, ora propongo di immedesimarci nel Samaritano per essere prossimi all’umanità ferita, che desidera risollevarsi, ma che da sola non può farlo. Il sacerdote e il levita non si fermarono come fece il samaritano, perché i loro occhi non erano come quelli del Signore. Il Samaritano, invece, ha gli occhi di Dio e guarda all’umanità come la guarda Gesù: “Cristo, il Figlio di Dio, posa il suo sguardo sul dolore umano e si serve del dolore per rivelarci il suo amore, per incarnarvi la sua carità. Quanto "scendere" dev'essersi compiuto in me, se solo il dolore può rivelarmi l'amor di Dio! Quanta carità da parte di Dio, s'Egli ha dovuto risalire con noi ogni nostro Calvario, perché potessimo credere all'Amore.” (Don Primo Mazzolari, Tempo di credere, Brescia 1964, p. 103).
Questo amore si commuove (muovere con), ha compassione (patire con), parola che -anche se meno forte di quella greca che indica “viscere commosse”- indica non tanto l'elemosina del ricco al povero, il soccorso del sano verso il malato, ma il vivere insieme la passione della vita del fratello e della sorella, la cui umanità è ferita.
L’etimologia della parola “compassione” ci spinge a viverla sentendo il dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi. Il dottore della legge questo l’ha capito bene. Gesù quindi conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione nella compassione, è un percorrere la strada sulle orme di Cristo Gesù nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede una disponibilità totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in un stabilità di vita. Questa è la via per la vita eterna: fare lo stesso tragitto che Gesù ha descritto e realizzato, venendo ad abitare il luogo della nostra infermità.
C’è da chiedere a Cristo uno sguardo ed un cuore come il suo. Mentre la ragione vuole misurare il dono di Dio in base a ciò che la ragione stessa può comprendere, Cristo ci rivela il Suo Cuore, che è di una tenerezza inimmaginabile. Tante persone nella Chiesa hanno capito e accolto questo cuore e la sua tenerezza.
Cito l’esempio di una Missionaria della Carità, che conobbi a Roma. Era una suora italiana, che a 60 anni di età aveva lasciato la sua Congregazione dove era Consigliera generale, per entrare tra le suore di Madre Teresa di Calcutta. Questa Beata l’accolse e con attenzione materna le disse di venire a Calcutta quando il clima era più sopportabile. Dopo un mese di adattamento alla nuova vita, mandò questa “nuova” sorella a lavorare (o come Madre Teresa diceva: “a fare apostolato”) nella Casa dei morenti. Là in questa Casa di misericordia e di pietà vi erano e vi sono ancora varie stanzette, dove i malati terminali sono curati amorosamente. Sul muro di ogni stanzetta c’è una frase del Vangelo. La suora italiana cominciò a lavare le piaghe del malato e intanto guardava il muro della cella su cui c’era scritto: “Questo è il mio corpo”. Finito il suo “apostolato”, tornò in convento per la cena. Nel refettorio c’era anche Madre Teresa, che le chiese: “Che cosa hai fatto questo pomeriggio?”. La suora rispose: “Sono rimasta tre ore con Gesù”. Da samaritana sulle orme del Samaritano si era chinata sull’uomo, con il quale Gesù si identifica: “Ho avuto fame, ho avuto sete, ero in prigione, ero malato, nudo. Ogni volta che avete soccorso il più piccolo dei miei fratelli avete soccorso me” (cf Mt 25,35).
Viviamo nella misericordia e pratichiamo la compassione, mettendoci in ginocchio davanti al nostro prossimo come Gesù ha fatto alla lavanda dei piedi e sulla Croce, e come fanno tanti uomini e donne che lavano le ferite fisiche e spirituali dei loro fratelli e sorelle.
Guardando noi in questa comunione di misericordia reciproca, gli altri potranno “leggere” il Vangelo e “vederlo” in azione. Tramite la nostra vita in Cristo la verità è data ai sapienti e l’amore ai cuori.
Dio si mette nelle nostre mani di misericordia. Non cerchiamo altri responsabili. Il solo responsabile siamo noi, perché ciascuno di noi ha il compito di portare nel suo cuore il Dio vivente, il dio che non si impone mai, ma sempre si propone chiamandoci a vivere e rivivere il suo pellegrinaggio, ad aprire la porta alla quale lui bussa: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, io entrerò e mi siederò alla sua mensa e cenerò con lui e lui con me” (Ap 3,20).
Quanto detto finora vale per tutti i cristiani: secolari e religiosi. Ma per le persone in che cosa si consacrano in che modo si specifica la vocazione ad essere samaritani? Mostrare con la loro esistenza che culto e compassione non sono contrapposti. Ad una sua suora che chiedeva a San Vincenzo de Paolis: “Se sto facendo l’adorazione del Ss.mo Sacramento e un povero bussa alla porta, che devo fare? Continuare a pregare oppure andare dal povero? Il Santo fondatore delle Figlie della Carità rispose: “Non lasci Dio, se lasci Dio per Dio”. Il che non vuol dire solo che nel povero c’è Dio, quindi si può smettere di pregare per aiutare il bisognoso. Vuol dire che in una consacrazione verginale a Dio, si hanno occhi così puri da vedere nel povero Dio e servirlo nella misericordia e nella lode.
4) Locanda del “Tutti-accoglie”.
Gesù nella parabola di oggi parla anche del fatto che il Samaritano portò l’uomo ferito ne “Il Tutti accoglie5”, che è tradotto con locanda o albergo.
Questo “Il Tutti-accoglie” è una fragile casa, sospesa tra Gerico e Gerusalemme, che nasce ovunque uno è disposto ad accogliere tutti.
Dio accoglie tutti, accoglie nel segno profondo dell'amore.
La Chiesa accoglie tutti, maternamente. In questo “ospizio pubblico” ci si prende cura del sofferente come una madre sta chinata sul figlio per curarlo. Questo prendersi cura6 in greco è una parola come la madre sta sopra il figlio, questa cura preoccupata che diventa però attiva sopra di lui. A questo servizio di cura materna sono chiamate in modo particolare le Vergini Consacrate. Il Rito della loro Consacrazione le invita a dedicarsi con amore a curare e alleviare le piaghe fisiche e spirituali di ogni fratello o sorella feriti nell’anima e nel corpo, perché grazie al cuore puro sanno vedere nel volto del sofferente il Volto dei volti: quello di Cristo.

1Il prossimo, in greco “plesion”, in ebraico “re’a”, designa “uno che è vicino”, che abita accanto, con cui si ha qualcosa in comune. Per l’ebreo era il connazionale, in quanto membro del popolo eletto; tutt’al più vi si potevano includere i convertiti al giudaismo.
2L'ossimoro (dal grecooxìmoron” composto da oxùs = acuto e moròs = ottuso) è una figura retorica, che consiste nell'accostamento di due termini di senso contrario, contraddittorio o comunque in forte antitesi tra loro. L’effetto che si ottiene è quello di un paradosso apparente. Per es.: lucida follia; tacito tumulto; silenzio assordante; convergenze parallele; insensato senso, piacere disgustoso. Se alcuni ossimori sono stati immaginati per attirare l'attenzione del lettore o dell'interlocutore, altri nascono per indicare una realtà che non possiede nome. Questo può accadere perché una parola non è mai stata creata, oppure perché il codice della lingua, in virtù di alcuni limiti formali, deve contraddire se stesso per poter indicare alcuni concetti particolarmente profondi. E’ il caso dell’espressione “buon Samaritano”.
3 I dottori della legge ebrei contavano 613 precetti, di cui 365 negativi (un per ogni giorno dell’anno), 248 positivi, come era –secondo gli antichi- il numero delle ossa, per indicare che la legge entra “negativamente” ogni giorno nell’uomo per purificarlo, togliergli la negatività del male e penetrare”positivamente”le ossa, struttura del corpo, strutturando l’uomo nel bene.
4Il testo greco dice splancnìzomai “essere mosso, preso nelle viscere”, nel profondo dell'anima, viscere materne, viscere d’amore, tipiche di Dio il cui guardare a noi diventa compassione. “Ne ebbe compassione” si traduce oggi indebolendo un po’ l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce l’anima del Samaritano, lui stesso diviene il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Dunque qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l'altro conta per me come “me stesso”.
5In greco c’è la parola pandòcheion che significa “accoglie tutti” ed è una casa tra Gerusalemme, la Gerusalemme celeste, e Gerico. Questa casa che accoglie tutti è il simbolo della Chiesa che accoglie tutti.
6In greco c’è epemelethe da epi - meleomai che vuol dire prendersi cura di, preoccuparsi di, darsi pena, badare, vigilare


Lettura patristica
Brani di
Origene (185-253), Sant’Ambrogio di Milano (339-397), Severo di Antiochia (circa 465-538)

“Accade dunque che sulla stessa strada discendessero prima un sacerdote, poi un levita, che magari avevano fatto del bene ad altre persone, ma non lo fecero a costui che era disceso da Gerusalemme a Gerico. Il sacerdote, che secondo me raffigura la Legge, lo vede; e ugualmente lo vede il levita, il quale, io credo, rappresenta i profeti. Tutti e due lo vedono, ma passano oltre e lo abbandonano là. Ma la provvidenza riservava quest’uomo mezzo morto alle cure di colui che rea più forte della legge e dei profeti, cioè del Samaritano, il cui nome significa ‘Guardiano’. Questi è colui che non sonnecchia né dorme vegliando su Israele (Sal 121.4). È per soccorrere l’uomo mezzo morto che questo samaritano si è messo in cammino; egli non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote e il levita, o piuttosto, se discende, discende per salvare il moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: Tu sei un samaritano e un posseduto dal demonio (Gv 8.48); e Gesù, mentre ha negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon “guardiano”.” (Origene, Comm. a Luca 34.5)

“Dunque questo samaritano discende- e chi è che discende dal cielo se non colui che è salito al cielo, il Figlio dell’Uomo che è nel cielo (Gv 3.13)?- e vedendo quell’uomo mezzo morto che nessuno sino allora aveva potuto guarire... si avvicinò a lui; cioè, accettando di soffrire come noi, si è fatto nostro prossimo, ed esercitando la sua misericordia, ci si è fatto vicino. (...) Poiché dunque nessuno ci è più prossimo di colui che ha guarito le nostre ferite, amiamolo come Signore, e amiamolo anche come prossimo: niente infatti è così prossimo come il capo alle membra. Amiamo anche colui che è imitatore di Cristo: amiamo colui che soffre per la povertà altrui, a motivo dell’unità del corpo. Non è la parentela che ci fa l’un l’altro prossimi, , ma la misericordia, poiché la misericordia è conforme alla natura: non c’è niente infatti di più conforme alla natura che aiutare chi con noi partecipa della stessa natura.” (Ambrogio, Comm. a Luca 7.74, 84).

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico». Cristo... non ha detto «uno scendeva», bensì «un uomo scendeva», perché il brano concerne tutta l'umanità. Questa, in seguito alla colpa di Adamo, ha lasciato il soggiorno elevato, calmo, senza sofferenza e meraviglioso del paradiso, a buon diritto chiamato Gerusalemme – nome che significa «La Pace di Dio» – ed è disceso verso Gèrico, regione bassa e cava, dove il caldo è soffocante. Gèrico, è il ritmo febbrile della vita di questo mondo, vita che allontana da Dio... Una volta che l'umanità ha imboccato quella vita, lasciando la via retta... il branco dei demoni selvaggi viene ad attaccarla come una banda di briganti. La spogliano del vestito della perfezione, non le lasciano nulla della sua forza d'animo, né della purezza, della giustizia o della prudenza, nulla di ciò che caratterizza l'immagine divina (Gen 1,26), ma dopo averla colpita con i colpi ripetuti dei diversi peccati, la atterrano e la lasciano finalmente mezza morta...La legge data da Mosè è passata..., ma le è mancata la forza, e non ha potuto condurre l'umanità alla piena guarigione, non ha potuto rialzare l'umanità che giaceva in questo modo... Infatti la Legge offriva dei sacrifici e delle offerte che «non hanno il potere di condurre alla perfezione coloro che si offrono a Dio»... perché «è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri» (Eb 10,1-4)...Infine, un Samaritano passò accanto. Apposta Cristo dona a se stesso il nome di Samaritano. Infatti... egli è venuto in persona, compiendo il disegno della Legge e mostrando con le sue opere «chi è il prossimo» e cosa significa «amare gli altri come se stesso». (Severo di Antiochia, Vescovo, Discorsi, 89 ).