venerdì 27 aprile 2018

La vera Vite dell’amore


Rito Romano – V Domenica di Pasqua– Anno B – 29 aprile 2018

At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

Rito Ambrosiano

At 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54; Sal 117; 1Cor 2,6-12; Gv 17,1b-11
V Domenica di Pasqua



1) La vera vite1.
La Liturgia della Chiesa, che domenica scorsa ci ha presentato Cristo pastore buono e vero, oggi ce Lo presenta come Vite vera.
Nell’Antico Testamento la vite, che fu piantata da Noè sfuggito al diluvio, segnò l’inizio di un’epoca. Con il Cantico dei Cantici divenne il simbolo della sposa. Questo paragone venne usato da Osea, da Geremia , da Isaia e nei Salmi per indicare come sposa del Signore Israele, che spesso si dimostrò infedele.
Nel Nuovo Testamento, l’apostolo San Giovanni introduce un cambio di prospettiva. La vite non è più il popolo, ma Gesù stesso. Quindi gli appartenenti al popolo di Dio sono in intima, stretta relazione con il Figlio di Dio, che dà loro la linfa della vita.
 In effetti, nel Vangelo scritto dal discepolo prediletto di Cristo non è più Israele la vigna di Dio, ma il Figlio. Non solo, dice anche che la vigna è costituita da una sola vite e quella vite è Gesù stesso. Lui è la vera vite del Padre, è Lui il nuovo Israele.
La vera vite è l’unica in grado di produrre finalmente i frutti attesi, che l’Agricoltore cercava in Israele.
La “vera” vite è quella che produce frutto. Questa vite si contrappone alla vigna “falsa”, sterile, che non produce frutto. Cristo è la vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Il Figlio suo diventa Figlio dell’uomo e Cristo è la vite “vera”, che produce il frutto desiderato da Dio, che produce l’uva vera: il frutto dolce che è l’amore.
Il Padre-Agricoltore non si accontenta di un frutto modesto, cerca molto frutto. Il Cristo, vite vera, porta frutto2 attraverso noi tralci, se rimaniamo nel tronco, diventando capaci di un dono d’amore capace di portare molto frutto.
Per questo il Padre ha cura della vite, tagliando i rami inutili e potando gli altri. Se è la vite che dona la vita al tralcio, è l’Agricoltore che favorisce la vitalità del tralcio e la sua capacità di dono. Bisogna lasciarsi potare, cioè purificare dalle mani sapienti e amorose del Padre. La perfezione di noi stessi non consiste tanto nello sforzarci in impegnativi percorsi dell’anima, ma abbandonarci nelle mani del Padre, che rendere feconda la nostra capacità di amare.
Se pregheremo ogni giorno Dio, amandoLo, e ameremo il prossimo, condividendo con i nostri fratelli il pane vero e vivendo di amore reciproco e di misericordia, il nostro rimanere in Cristo sarà veramente fecondo di frutti di vita vera in terra e nel cielo.


2) Rimanere in Cristo.
Come tralci della vite è indispensabile rimanere in Cristo, dimorare in Lui, lasciarci amare, aggrapparci a Lui, alle sue braccia distese, crocifisse per amore. Ecco il programma della vita cristiana.
Rimanere in Lui non significa inventarsi chissà che cosa, è, semplicemente, essere crocifissi con Lui, prendendo la nostra croce quotidiana. 
Rimanere in Lui è restare là dove Lui ci conduce, nella storia concreta della nostra vita di ogni giorno, che siamo chiamati a vivere, coscienti che”senza di Lui non possiamo fare nulla” (cfr Gv 15,5). A un uomo che gli chiedeva: “Come è possibile tenere insieme la libertà dell’uomo e il non poter far nulla senza Dio?”, Giovanni il Profeta, vissuto nel deserto di Gaza nel V secolo, rispose: “Se l’uomo inclina il suo cuore verso il bene e chiede a Dio l’aiuto, ne riceve la forza necessaria per compiere la propria opera. Perciò la libertà dell’uomo e la potenza di Dio procedono insieme. Questo è possibile perché il bene viene dal Signore, ma esso è compiuto grazie ai suoi fedeli (cfr Ep. 763, SC 468, Paris 2002, 206). Il vero “rimanere” in Cristo garantisce l’efficacia della preghiera, come scrive il beato Guerrico d’Igny: “O Signore Gesù … senza di te non possiamo fare nulla. Tu infatti sei il vero giardiniere, creatore, coltivatore e custode del tuo giardino, che pianti con la tua parola, irrighi con il tuo spirito, fai crescere con la tua potenza” (Sermo ad excitandam devotionem in psalmodia, SC 202, 1973, 522).
Rimanere è un dono da chiedere per non staccarci mai da lui, che è l’Amore che diventa la nostra casa. Se non chiediamo, se non siamo mendicanti dell’Amore, non possiamo riceverlo in dono.
Rimanere in lui, crescendo nella consapevolezza che per vivere in questa casa, implica che occorre coltivare il sentimento della gratitudine, perché un cuore grato è un cuore fedele, lieto di essere amato da Dio e di amare i fratelli, lieto di essere amico di Cristo, che non vuole servi ma amici. Ed essere amici di Gesù vuol dire accettare la sua Persona, vuol dire accettare il suo amore per noi, vuol dire amarLo e amare il nostro prossimo.
Un esempio speciale di questa accettazione di Cristo, di questa adesione a Lui è quello delle Vergini consacrate. Queste donne sono chiamate ad essere nel mondo testimoni della fedeltà di Dio che è il custode della loro.
Fedeli alla Parola rivolta a loro da Dio fin dal giorno del battesimo e che nel tempo ha preso la forma di una chiamata a vivere la vocazione cristiana, vivono la loro consacrazione verginale nell’ascolto costante di questa Parola.
Fedeli come spose al loro Sposo, perché la caratteristica delle consacrate dell’Ordo Virginum che è quella di vivere il loro essere spose di Cristo nella vigilante custodia della promessa di Gesù: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20) e nell’essere voce che, nella gratuità, responsabilità e libertà pura delle relazioni, grida alla Chiesa e al mondo: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!” (Mt 25,6).
Fedeli a Cristo, le donne dell’Ordo Virginum sono portatrici della Parola dell’Amato. E’ dall'amore sempre fedele di Dio che esse attingono forza nel perseverare nell’abbraccio la verginità per il Regno dei cieli (Mt 19,12) e si impegnano a vivere ogni giorno con autenticità e concretezza quell'Amore che manifesta il volto di Dio.
E come Cristo rimane nell’amore di Dio Padre, così queste discepole, sapientemente potate dalla parola del Maestro (cfr Gv 15,2-4) amato verginalmente come Sposo, rimangono in Cristo quali tralci fecondi, che producono abbondante raccolto. In effetti il dedicarsi alla meditazione della Sacra Scrittura ed alla preghiera non è da loro vissuto come ripiegamento su se stesse, ma come un allargamento del cuore per abbracciare l’umanità intera, particolarmente quella che soffre (cfr Papa Francesco, Vultum Dei quaerere, n. 16). Rimanendo saldamente unite a Cristo come tralci alla Vite, anche queste donne consacrate sono associate al suo mistero di salvezza, come la Vergine Maria, che presso la Croce rimase unita al Figlio nella stessa donazione totale d’amore.


1  Sette (e sette non è un numero casuale perché indica la pienezza) le immagini che Gesù accosta all’espressione: “Io sono”, rivelando una particolare dimensione di se stesso: io sono il pane della vita (Gv 6,35), io sono la luce del mondo (Gv 8,12), io sono la porta delle pecore (Gv 10,7), io sono il buon pastore (Gv 10,11), io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,15), io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6), io sono la vite vera (Gv 15,1).

2  Per sette volte il Capitolo 15 del Vangelo di Giovanni ripete l’espressione portare frutto: tre volte in 15,2 e poi 4.5.8.16.


Lettura patristica
Sant’Ambrogio di Milano (339/340 397)
Exameron III, V, 12, 49-52


       Saprai certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, così hai in comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che rallegra il cuore dell’uomo (
Ps 103,15). E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da procurarti letizia e giocondità. In te si trova la dolcezza della tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in te; in te stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la Scrittura dice: "Bevi l’acqua dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi" (Pr 5,15). Anzitutto nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre, chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta rigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per mezzo di questi, sale in alto.

       Del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire, mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà. Di essa dice bene il profeta: "
Hai trasportato la vite dall’Egitto e ne hai piantato le radici e la terra ne è stata riempita. La sua ombra ha ricoperto i monti e i suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e fino al fiume le sue propaggini" (Ps 79,9-12). E il Signore stesso parlò per bocca d’Is dicendo: "Il mio diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e la circondai d’un muro e vangai tutt’attorno la vigna di Sorec e nel mezzo vi innalzai una torre" (Is 5,1-2). La circondò infatti come con la palizzata dei comandamenti celesti e con la scolta degli angeli. Infatti "l’angelo del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono" (Ps 33,8). Pose nella Chiesa come la torre degli apostoli, dei profeti, dei dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La vangò tutt’intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla infatti grava la mente più delle preoccupazioni di questo mondo e dell’avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene mostrato nel Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva inferma, era così curva da non poter guardare in alto. Era curva la sua anima che, rivolta ai guadagni, non vedeva la grazia celeste. Gesù la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi terreni. Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai quali dice: "Venite a me tutti voi che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò" (Mt 11,28). L’anima di quella donna, come se le avessero scavato intorno la terra, poté respirare e si raddrizzò.

       Ma anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si tagliano quelli che ostentano un’inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l’esperto agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e ragguardevole, si senta superiore e nessuno, se povero, e di oscuri natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia per tutti un’unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e identica cortesia. Perciò nel mezzo si innalza una torre, per mostrare tutt’intorno l’esempio di quei contadini, di quei pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro esempio i nostri sentimenti si elevino, non giacciano a terra spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l’animo a ciò che sta sopra di noi e abbia il coraggio di dire: "
Ma la nostra cittadinanza è nei cieli" (Ph 3,20). Quindi, per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto dalla tempesta, ognuno, come fa la vite con i suoi viticci e le sue volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. È la carità che ci unisce a ciò che sta sopra di noi e ci introduce in cielo. "Se uno rimane nella carità, Dio rimane in lui" (1Jn 4,16). Perciò anche il Signore dice: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre frutto da solo, se non resta unito alla vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci" (Jn 15,4-5).

       Manifestamente il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere richiamato quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella, riscaldata dal tepore primaverile, dapprima comincia a gemmare, poi manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali nascendo l’uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi, conserva l’asprezza del prodotto immaturo e non può diventare dolce se non raggiunge la maturazione sotto l’azione del sole. Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto più dolce che vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d’un colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi frutti, il tempo dell’età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo suole essere senz’altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è cresciuto sino alla perfetta maturità. A quest’uomo perfetto solitamente non nuoce né il freddo della morte con il suo brivido né il sole dell’iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la grazia divina e spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti lodino tutti coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come ghirlande di tralci, contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della loro prudenza, dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro testimonianza, dalla bellezza della loro santa vita, dall’abbondanza della loro misericordia, così che ti possano dire: "
La tua sposa è come vite ricca di grappoli nell’interno della tua casa" (Ps 127,3), perché con l’esercizio di una generosa liberalità riproduci l’opulenza d’una vite carica di grappoli.

venerdì 20 aprile 2018

Pastore buono, bello: vero.


Rito Romano – IV Domenica di Pasqua– Anno B – 22 aprile 2018

At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18


Rito Ambrosiano
At 20,7-12; Sal 29; 1 Tim 4,22-16; Gv 10,27-30
IV Domenica di Pasqua


1) Il Pastore1 buono dà la vita.
Il brano del Vangelo della IV domenica di Pasqua è preso ogni anno dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni e ci presenta Gesù come il Buon Pastore. Quest’anno, che è l’anno B, la Liturgia ci fa leggere la parte centrale del capitolo, i vv- 11-18, dove si afferma che il Buon Pastore offre la vita per le sue pecore e le conosce.
Al contrario del mercenario, che con le pecore ha solo una relazione interessata. Gesù, il Buon Pastore, conosce cioè ama i suoi. La relazione tra Gesù e i credenti è di conoscenza, intesa nel senso biblico: di legame d’amore profondo.  Infatti nella Bibbia “conoscenza” implica intimità e reciproca fiducia; è la parola usata di solito per indicare il rapporto coniugale: “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì...” (Gn 4,1); “Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”, annuncia l'angelo a Maria, la quale risponde: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” (Lc 1,31-34). Quando dunque Gesù dice: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, si intuisce quale profondità presenti il suo amore per noi e con quale profondità egli si aspetti di essere ricambiato.
Questo forte legame di conoscenza amorosa tra Gesù e noi trova fondamento nella relazione che vi è tra Gesù stesso e il Padre. Tale legame si esprime nel suo dare la vita per noi (Gv 10, 14). Questa affermazione sembra uguale a quella di Gv 10, 11, ma invece è più forte. Se nel v. 11 “dare la vita” significa essere disposto a mettere a rischio la propria vita a favore delle pecore, nel v. 14 significa letteralmente privarsi della vita. Questo dono totale di sé è l’atteggiamento specifico di Gesù, quello che ha caratterizzato tutta la sua missione sulla terra e non solo la sua passione e morte.
Questo atteggiamento di offerta, segno di amore pronto a dare la vita, mette in primo piano che noi siamo suoi: ‘le sue pecore’, custodite con amore e guidate alla vita. Invece i mercenari, gli opportunisti, trattano gli uomini come ‘merce’ e non come persone.
Dunque, oggi ciascuno di noi si faccia queste domande: “Quale ‘pecora’ del gregge sono? Sono la pecora ‘perduta e ritrovata’ o rimango ‘smarrita’? Sono la pecora che si lascia condurre piano piano, per ritrovare in Lui riposo, sono la pecorella ‘ferita o malata’ e mi lascio da Lui fasciare o curare?” Se la nostra risposta sarà positiva, seguiremo Cristo e, quando faremo fatica a camminare, Lui ci metterà sulle sue spalle.

2) Seguire Cristo Pastore buono.
Seguire Cristo come pecore docili non vuol dire essere ingenui, insensati e ciecamente obbedienti, ma vuol dire essere umili, fiduciosi e lasciarsi prendere in braccio con un amoroso abbandono a Lui che con noi e per noi cammina. Del resto essere umili e fiduciosi nei confronti di Gesù non vuol dire non usare l’intelligenza, perché l’umiltà è la virtù che predispone l’intelligenza alla fede e il cuore all’amore.
Seguire Cristo come pecore coscienti di essere persone amate e non scartate, vuol dire lasciarci guidare da Lui, nostro santo e buon Pastore, ai pascoli eterni del cielo. Lui è Pastore perché agnello. È scritto infatti: “L’agnello sarà il loro pastore e li condurrà alle sorgenti delle acque della vita” (Ap 7,17).  
Non dimentichiamo però che Gesù ha voluto nella Chiesa che il sacerdote sia come “Buon Pastore”.  Non solamente ma soprattutto nella parrocchia il sacerdote continua la missione e il compito pastorale di Gesù; e perciò deve “pascere il gregge”, insegnando, dando la grazia, difendendo le “pecore” dall’errore e dal male, consolando e, soprattutto, amando. 
Anche se il modo di essere prete cambia secondo i luoghi e i tempi, tutti i sacerdoti sono chiamati a imitare Cristo buon pastore, che a differenza del mercenario, non ricerca altro interesse, non persegue altro vantaggio che quello di guidare, nutrire, proteggere le sue pecorelle: “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10.10).

3) Tutti pastori.
In forza del battesimo, ogni cristiano è chiamato ad essere un “buon pastore” nell’ambiente in cui vive:
  • i genitori devono essere dei “Buon Pastori” verso i loro figli, edificandoli con il loro amore;
  • i figli devono obbedire all’amore dei genitori e imparare la fede semplice e coerente, imparando a donare la vita che hanno ricevuto in dono;
  • gli sposi devono improntare la relazione di coppia, ispirandola all’esempio del Buon Pastore, affinché sempre la vita familiare sia a quell’altezza di sentimenti e di ideali voluti dal Creatore, per cui la famiglia è stata definita “chiesa domestica”;
  • gli insegnanti a scuola, i lavoratori in fabbrica o in ufficio, ciascuno di loro cerchi sempre di essere “buon pastore” come Gesù.
  • Ma, soprattutto, devono essere “buoni pastori” nella società le persone consacrate a Dio: i religiosi, le suore, coloro che appartengono agli Istituti Secolari.
Per questo, in questa domenica, dobbiamo pregare per tutte le vocazioni religiose, maschili e femminili, perché nella Chiesa la testimonianza della vita religiosa sia sempre più numerosa, viva, intensa e efficace. Il mondo oggi ha più che mai bisogno di testimoni convinti e totalmente consacrati.
Penso in particolare alle Vergini consacrate che esercitano un particolare “ministero pastorale” nella Chiesa.
Anche se il loro non è un ministero ordinato, queste donne consacrate non si limitano solo a testimoniare la condizione angelica dei figli del Regno, vivendo verginalmente. Oltre alla castità, che sono chiamate ad osservare nella perfetta continenza, le Vergini consacrate praticano l’impegno alla povertà di cuore e di vita per una seria condivisione delle sofferenze umane, come pure l’obbedienza da prestare a Dio. Obbedienza che si presenta nelle esortazioni e nei precetti della Chiesa, nei consigli e nelle direttive pastorali, nell’andare incontro alle necessità delle persone. Il Rituale della Consacrazione delle Vergini suggerisce loro di svolgere il loro servizio (= ministero) con la sobrietà di vita, con l’aiuto ai poveri e con le opere di penitenza:Le vergini nella Chiesa sono quelle donne che, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, fanno voto di castità al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli ... loro compito è quello di attendere alle opere di penitenza e di misericordia, all’attività apostolica e alla preghiera” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, 2).  Dunque anche se danno il primato alla preghiera e alla contemplazione, le vergini consacrate servono il ministero pastorale della Chiesa mettendo la donazione di se stesse a servizio (ministero) della Chiesa, ovile santo per pecorelle redente e dedicandosi all’amore verso tutti gli uomini e tutte le donne nelle circostanze ordinarie della vita, perché tutti siano una cosa sola in Cristo, Pastore buono.

1  Gesù afferma: Io sono il buon pastore. Il termine che in italiano troviamo tradotto con buon ha un significato molto più profondo. Si tratta del termine greco kalòs, che letteralmente significa bello, ma nel senso di una cosa di buona qualità, che risponde pienamente al proprio scopo.  Il pastore di cui sta parlando Gesù risponde pienamente al proprio scopo perché dà la sua vita per le pecore. Il termine indica in particolare il rischiare la propria vita, esporsi al pericolo che minaccia altre persone. Il buon pastore è un pastore attento, a cui interessa soprattutto la vita e l'incolumità del proprio gregge. 


Lettura PatristicaSan Clemente di Alessandria (150 – 205)
Paedagogus, 83, 2 - 84, 3

 Il Logos salvatore, pastore, pedagogo

       Le persone in buona salute non hanno bisogno del medico (
Mt 9,12e parall.), almeno finché stanno bene; i malati al contrario richiedono la sua arte. Allo stesso modo, noi che in questa vita siamo malati di desideri riprovevoli, di intemperanze biasimevoli, di tutte le altre infiammazioni delle nostre passioni, abbiamo bisogno del Salvatore. Egli ci applica dolci medicamenti, ma del pari amari rimedi: le radici amare del timore bloccano le ulcere dei peccati. Ecco perché il timore, anche se amaro, è salutare.

       Dunque noi, i malati, abbiamo bisogno del Salvatore; gli smarriti, di colui che ci guiderà; i ciechi, di colui che ci darà la vista; gli assetati, della sorgente di acqua viva, e coloro che ne berranno non avranno più sete (cf. - 
Jn 4,14); i morti, abbiamo bisogno della vita; il gregge, del pastore; i bambini, del pedagogo; e tutta l’umanità ha bisogno di Gesù: per paura che, senza educazione, peccatori, cadiamo nella condanna finale; è necessario, al contrario, che siamo separati dalla paglia ed ammassati "nel granaio" del Padre. "Il ventilabro è nella mano" del Signore e con esso separa il grano dalla pula destinata al fuoco (Mt 3,12).

       1) Se volete, Possiamo comprendere la suprema sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo, che è il Signore di tutto e il Logos del Padre, quando impiega un’allegoria e si dà il nome di pastore del gregge (cf. 
Jn 10,2s); ma è anche il Pedagogo dei piccolini.

       2) È così che egli si rivolge diffusamente agli anziani, attraverso Ezechiele, e dà loro il salutare esempio di una sollecitudine quanto mai accorta: "
Io medicherò colui che è zoppo e guarirò colui che è oppresso; ricondurrò lo smarrito (Ez 34,16e lo farò pascolare sul mio monte santo" (Ez 34,14). Tale è la promessa di un buon pastore. Facci pascere, noi piccolini, come un gregge;

       3) sì, o Signore, dacci con abbondanza il tuo pascolo, che è la giustizia; sì, Pedagogo, sii nostro pastore fino al tuo monte santo, fino alla Chiesa che si eleva, che domina le nubi, che tocca i cieli! (
Ps 14,1 Ap 21,2). "E io sarò", egli dice, "loro pastore e starò loro vicino" (Ez 34,23), come tunica sulla loro pelle. Egli vuole salvare la mia carne, rivestendola con la tunica dell’incorruttibilità (1Co 15,53); ed ha unto la mia pelle.




venerdì 13 aprile 2018

Testimoni di un fatto, di cui fare memoria


Rito Romano – III Domenica di Pasqua– Anno B – 15 aprile 2018

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48



Rito Ambrosiano
At 16,22-34; Sal 97; Col 1,24-29; Gv 1,1-11a
III Domenica di Pasqua

1) Nel grande mare della vita solita c’è una continua novità.

Pasqua è passata da quindici giorni, il lavoro e la scuola sono ricominciati a pieno ritmo e la vita quotidiana ha ripreso a scorrere come al solito. La routine della vita di ogni giorno spinge a ridurre ad un vago ricordo l’annuncio che il Signore è risorto. La notizia inaudita che Cristo risorto ha definitivamente sconfitto la morte rischia di essere ridotta ad una informazione su un fatto importante ma lontano nel tempo. Ciò accade perché ci dimentichiamo che si tratta di una notizia che non solo ci informa che la nostra vita non finisce quaggiù, ma ci forma come persone che già su questa terra partecipiamo alla risurrezione di Cristo.
Come possiamo vivere fortemente la memoria di Cristo, senza lasciarci sballottare dalle ondate della vita.
Come possiamo essere memori del Risorto nella vita quotidiana?
Vivendo la memoria del Signore nel lavoro e non nonostante il lavoro, in famiglia e non nonostante la famiglia, nella Chiesa e non nonostante la Chiesa, che con i suoi riti fissa ciò che è vero.
E’ proprio la Chiesa con la sua liturgia che ci aiuta a fare memoria di Cristo. Riandiamo, per esempio alla Settimana Santa. Durante questa grande e santa settimana, la Chiesa ha ridestato in noi la viva memoria delle sofferenze che il Signore ha patito per noi e a prepararci a celebrare con gioia “la vera Pasqua, che il Sangue di Cristo ha coperto di gloria, la Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste” (Prefazio ambrosiano di Pasqua).
Il Giovedì Santo, la Chiesa ha fatto memoria dell’Ultima Cena durante la quale il Signore, la vigilia della sua passione e morte, ha istituito il sacramento dell’Eucaristia, in cui Cristo si dà a tutti noi come cibo di salvezza e come farmaco di immortalità.
Il Venerdì Santo è la giornata in cui la Chiesa fa memoria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la Liturgia ci riunisce per farci meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, e per farci ripercorrere le sofferenze del Signore che espiano questo male. 
La memoria ha bisogno di silenzio, per cui il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. C’è bisogno di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. 
Questo Sabato di silenzio e di memoria addolorata sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia del mondo: la domenica della Pasqua di Cristo.

Fare memoria dei misteri di Cristo morto e risorto significa vivere in profonda e solidale adesione all'oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva.

Fare memoria di Cristo non vuol dire ricordarlo semplicemente come una persona del passato che ci ha lasciato un profondo insegnamento, ma vuol dire renderlo presente lasciandoci attirare dalla presenza amorosa di Lui, vivo per sempre.

Fare memoria vuol dire fare comunione con Cristo. La comunione con Gesù non è un mistero che si celebra semplicemente nella liturgia, con gesti e parole. Il comandamento: “fate questo in memoria di me” ha un duplice spessore: fare memoria nel sacramento e fare memoria nella vita, rendere presente Gesù nel sacramento e renderlo presente nella carità.

2) Memoria e presenza.

In questa terza Domenica di Pasqua, la liturgia ci aiuta a fare memoria rimettendo davanti agli occhi del cuore la presenza di Cristo. Lo fa proponendo come lettura del Vangelo il racconto che San Luca fa del terzo incontro del Risorto con i suoi Apostoli, che sono nel Cenacolo.
In questa domenica la Chiesa vuole invece farci comprendere come dopo la sua risurrezione il Cristo sia veramente vivo in mezzo a noi, nelle nostre giornate nella nostra vita quotidiana. La fede in Cristo è proprio questa: credere che Cristo sia veramente risorto e viva ogni giorno con noi quale amico fedele per sempre.
Allora, ricordare o fare memoria non vuol dire far tornare alla mente il ricordo di una persona amata, ma ridare agli occhi del cuore (ri-cor- dare) la presenza vera dell’Amato.
L’evangelista Luca ci propone quasi un itinerario delle apparizioni del Cristo per farci comprendere meglio che il Cristo Crocifisso è veramente il Risorto.
Dopo averci offerto nelle domeniche precedenti come prove della risurrezione di Gesù: il sepolcro vuoto, la testimonianza degli angeli, l’apparizione ai discepoli sulla strada di Emmaus, oggi San Luca racconta di Gesù che offre prove ancora più tangibili: appare agli Apostoli riuniti, mostra le sue ferite, si mette a tavola con loro. Gesù ha un vero corpo. Il Risorto non è un fantasma, ma un essere reale che si fa presenza in mezzo ai suoi, ai quali chiede di fare memoria di lui e di testimoniarlo.
 Questa presenza rimane a nostra disposizione in modo sublime nel pane eucaristico, che viene custodito in ogni chiesa del mondo. Andiamo a metterci davanti al tabernacolo per adorare e visitare il Risorto. L’adorazione eucaristica e la visita al santissimo Sacramento vanno fatte perché, proprio perché hanno in se stesse un ineliminabile orientamento a Cristo presente sotto le specie del pane.
In greco “adorazione” si dice proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni.
In latino “adorazione” è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e, quindi, amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così la sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere, ci fa convertire stabilmente verso Cristo ed avere con Lui e con i nostri fratelli e sorelle un rapporto di amicizia, di condivisione, di amore, di confidenza: di comunione.
L’unione con Cristo attraverso l’Eucarestia, mangiata e adorata, ci consente di dare come cristiani una vera testimonianza di vita vissuta con Lui.
Un esempio di come vivere questa memoria e questa presenza di Cristo ci viene dalla Vergini consacrate. La loro vocazione non si identifica in un compito specifico o in una funzione particolare, ma nel “far memoria”, nel testimoniare che l’essenziale nella Chiesa è l’amore del Cristo per ciascuno e per tutti, un amore fedele e personale, che la Scrittura e la tradizione della Chiesa hanno tradotto con l’immagine dello “Sposo”.
Inoltre è utile ricordare che “ Il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo» (Benedetto XVI, in Sacramentum caritatis, n. 81). “Nell’Eucaristia Cristo attua sempre nuovamente il dono di sé che ha fatto sulla Croce. Tutta la sua vita è un atto di totale condivisione di sé per amore” (Papa Francesco).
La vergine consacrata è appassionata nel suo amore per l’Eucaristia, ricevendo Cristo come sua ispirazione e suo cibo. Donna, sempre pronta a ricevere l’amore intimo del Signore e a ricambiarlo con la preghiera e il servizio, rafforzata da questo cibo, osa presentarsi pubblicamente come vergine nel mezzo di una società ostile, riconoscendo umilmente che non è solo una donna consacrata ma una vergine consacrata.


Lettura patristica
Guerric d’Igny (1070/1080 - 1157)
Sermo I, in Pascha, 4-5


 Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26; Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.
       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...
       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».

       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (
Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».


venerdì 6 aprile 2018

La pace nasce dall’incontro con Cristo


Rito Romano – II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia – Anno B – 8 aprile 2018

At 4,32-35; Sal 117;1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
II Domenica di Pasqua e della divina Misericordia


  1. Pace e perdono.
La liturgia di questa II Domenica di Pasqua celebra Cristo risorto, che dona pace e perdono. In effetti, il Vangelo di oggi ci racconta che, la sera della sua Pasqua, Gesù entra nel Cenacolo, dove si erano rinchiusi gli Apostoli, e dice loro: “Pace a voi”. Con l’offerta del dono della sua pace Cristo ricolma il cuore degli apostoli con la sua misericordia. Il saluto tradizionale ebraico shalom, cioè pace, sulla bocca del Risorto non è solo un augurio ma un dono: il dono di quella pace che solamente Lui può dare e che è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La “pace”, che Gesù offre ai suoi amici, è il frutto dell’amore misericordioso di Dio per gli uomini. Questo amore smisurato ha portato Cristo a morire sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e umile, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Questo spiega perché San Giovanni Paolo II ha voluto intitolare alla Divina Misericordia questa Domenica dopo la Pasqua, che celebra Cristo quale Agnello, che è stato immolato per i nostri peccati e che è risorto sconfiggendo la morte e il peccato. L’amore di Dio è più forte del male e della morte e in Cristo risorto ha vinto l’amore, ha vinto la misericordia.
In questa Festa della Divina Misericordia, lasciamo riempire il nostro cuore dalla misericordia di Dio, che gratuitamente ama, perdona e dà pace.
In effetti, questa pace è il frutto della vittoria dell’amore di Dio sul male, è il frutto del perdono. La vera pace, quella profonda, viene dal fare esperienza della misericordia di Dio.
Oggi a noi, come circa duemila anni fa agli Apostoli, insieme con la sua pace, Gesù dona lo Spirito Santo, perché possiamo diffondere nel mondo la sua misericordia, che perdona e dona la vita nuova e vera.
Oggi, è a noi che Cristo dà il mandato di portare agli uomini la remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore, seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni in famiglia e nella società.

2) Missionari senza paura
Oggi, lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal nostro cuore. Gesù ci spinge ad uscire dal “Cenacolo” che la paura ha trasformato in un luogo chiuso. Il suo Spirito ci spinge ad essere una “Chiesa in uscita” (Papa Francesco): “Come il Padre ha mandato me, io mando voi” (Gv 20, 21). Durante l’ultima cena il cenacolo fu il luogo dove Gesù aveva dato il pane, ma dopo la passione e morte del Messia quella sala era diventata per gli Apostoli come un sepolcro. Vi vivevano di paura, di paura della morte.
Ma la paura degli Apostoli e di tutti noi non ferma Cristo. Come la grande pietra che sigillava il suo sepolcro non gli fu di ostacolo, così neanche la nostra paura gli fa ostacolo. Entra in questo sepolcro, pieno di paura, a porte sprangate. Non gli fanno difficoltà le porte sprangate come non gli ha fatto difficoltà la pietra del sepolcro. E soprattutto non gli ha fatto difficoltà di venire con queste persone che Lui ha scelto, delle quali uno lo ha tradito, l’altro l’ha rinnegato, gli altri sono fuggiti, l’hanno abbandonato. E come entrò nel luogo dove i suoi Apostoli si erano rifugiati, così oggi viene incontro a noi, scacciando le nostre paure. E’ lì che ci fa risorgere.
Quindi, dopo l’incontro di Cristo con Maria Maddalena nell’amore e nel desiderio, questo incontro nel cenacolo è importante, perché ci fa capire che Cristo risorto ci incontra là, dove noi siamo morti nelle nostre paure, nelle nostre fragilità, nei nostri peccati, nel nostro egoismo, per farci risorgere attraverso la gioia e la pace.
Oggi, il Risorto è a noi che dice : “Pace a voi” (Gv 20, 19.21.26). È evidente che non è solo un saluto. È un dono, il dono che il Risorto fa a noi, suoi amici. E’ un dono da condividere. Perciò questa pace, acquistata da Cristo col suo sangue, è anche un compito. Essa non è solamente per noi, è per tutti, e noi, i discepoli di oggi, dobbiamo portarla in tutto il mondo.
In questo modo partecipiamo alla pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, aiutandolo ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore. Queste armi non uccidono, ma danno la vita e la pace.

  1. Testimoni della gioia.
Nel Vangelo di oggi, Gesù dice più volte: “Pace a voi” e i discepoli “gioirono”. E la gioia e la pace sono il segno della presenza di Cristo risorto.
Ma perché l’esperienza di Gesù risorto che sta in mezzo a noi, e ci mostra le sue mani e il suo fianco, è una esperienza di pace e di gioia? Perché conosciamo chi siamo noi per Cristo e chi è Cristo per noi. Lui è colui che per noi porta quelle mani inchiodate e quel fianco trafitto. Lui è amore infinito che si dona. E noi, chi siamo noi per Lui? Siamo un amore finito, limitato che si dilata nel suo Amore.
Il fianco trafitto mostra il cuore che ama infinitamente, totalmente. Le mani inchiodate mostrano che il potere di Dio è quello di lavare i piedi e di essere inchiodato a servizio d’amore dell’uomo. Ed è lì che conosciamo il Signore. In queste mani vediamo tutta la vita di Gesù, tutto ciò che Lui ha fatto a servizio dell’amore, con un Amore così estremo da morirne per dare la vita.
Tutti siamo chiamati a rispondere a questo Amore risorto. Come? Testimoniando Cristo con la gioia.
Prendiamo esempio dalla Vergini consacrate, alle quali –nel giorno della consacrazione – è detto: “Cristo, Figlio della Vergine e sposo delle vergini, sarà la vostra gioia e corona sulla terra, finché vi condurrà alle nozze eterne nel suo regno, dove cantando il canto nuovo seguirete l’Agnello dovunque vada” (RCV, progetto di omelia n. 38).
Per rispondere all’Amore di Cristo, queste donne si offrono a Lui totalmente e gioiosamente. La gioia, in effetti, non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono a Dio e al prossimo, e nel volersi bene in Dio. La gioia viene dall’esperienza di essere amati e di farsi missionari di questo Amore in modo totale.
La totalità è esigenza profonda della verginità consacrate, che non ammette la mediocrità. La consacrazione è per sua stessa natura un atto generoso e totale di amore che porta la consacrata in alto, sulla croce, quindi è elevata in alto e nel profondo del cuore di Cristo.
Grazie alla consacrazione la vergine si impegna in quattro “doveri”: quello di lodare Dio con più dolcezza, quello di sperare in Dio con più gioia, quello di amare Dio con più ardore, quello di essere missionaria della misericordia, divenendo testimone perseverante della gioia di essere amata e di amare in modo puro e gratuito. Come già insegnava Sant’Agostino nel De sacra virginitate, dove possiamo leggere: “Continuate (nella vostra scelta), o santi di Dio, giovani e ragazze, uomini e donne, voi che vivete nel celibato e voi che non vi siete sposate. Perseverate fino alla fine. Lodate il Signore tanto più soavemente quanto maggiormente egli occupa i vostri pensieri; sperate tanta maggiore felicità quanto più fedelmente lo seguite; amatelo tanto più ardentemente quanto più siete attente ad accontentarlo. Lodate il Signore con maggiore dolcezza, perché a Lui pensate con maggiore pienezza; sperate nel Signore con maggiore gioia perché Lui servite con maggiore attenzione; amate il Signore con maggiore ardore, perché a lui vi studiate di piacere con maggiore dedizione”.




Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540circa – 604)
Hom. 26, 7-9






San Tommaso Apostolo, modello di fede per noi

       "Ma Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24). Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano, ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del Signore) era stato custode della perfettissima verginità.

       [Tommaso] toccò, ed esclamò: "Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso, hai creduto" (Jn 20,28-29). Quando l’apostolo Paolo dice: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (Eb 11,1), parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò, perché gli viene detto: "Perché mi hai veduto, hai creduto?" Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era Dio, dicendo: "Mio Signore e mio Dio"! Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo, ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.

       Riempie di gioia ciò che segue: "Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto" (Gv 20,29). Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede. Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo afferma: "Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti" (Tt 1,16). E Jc aggiunge: "La fede senza le opere è morta" (Gc 2,26).