Rito
Romano
XXXIV
Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – Solennità di Nostro
Signore Gesù Cristo Re dell'Universo -26
Novembre 2017
Ez
34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
Rito Ambrosiano
Is 51,1-6; Sal 45; 2Cor
2,14-16a; Gv 5,33-39
Domenica III di Avvento –
‘Le profezie adempiute’ - Anno B
1)
Cristo, Re in Croce.
Questa
domenica, ultima dell’anno liturgico, celebra Gesù Re
dell’universo. Cristo è Re regge il mondo dalla Croce e ci chiede
di partecipare alla sua regalità, mettendoci in ginocchio al suo
trono di Amore: la Croce, e davanti ai fratelli, come Lui, il Re, si
mise in ginocchio per lavare i piedi dei suoi Apostoli.
Durante
l’anno liturgico la Chiesa ci fa compiere quel cammino di fede e di
carità, che abbraccia la storia della redenzione. Questo cammino
liturgico inizia con l’Avvento, il tempo dell’Attesa di Dio fra
di noi, che fiorisce nel Natale, che reca la grande e lieta notizia
che Dio davvero si è fatto uno di noi. Segue il tempo della
conversione, nella Quaresima, che ci prepara alla S. Pasqua e, dopo
50 giorni, l’inizio del cammino della Chiesa con la Pentecoste. In
questo ‘pellegrinaggio’ Dio ci accompagna con il Suo Amore e la
Sua Grazia, sempre che noi decidiamo di camminare con Lui.
Nella
domenica, che conclude l’anno liturgico celebrando Cristo Re,
riflettiamo insieme sul significato che questa Solennità ha,
meditando la scena del “giudizio universale” (Mt
25,31-46). Ed è proprio questa pagina evangelica che rivela il
senso sconvolgente della regalità di Cristo che ci interpella:
abbiamo scelto davvero di essere al seguito di questo Re crocifisso
per e dall’amore?
Un Re
che ci chiede di fare il bene agli altri e che non chiede per se
stesso nulla. Anzi è stato Lui stesso a dare tutto per noi, morendo
sulla croce, sacrificandosi per noi. Un Re speciale, fuori dai canoni
delle regalità e dei regni di questa terra, che hanno altre
prospettive di soggiogare le persone e il mondo alle proprie idee e
posizioni
Un Re
il cui regno che si costruisce ogni giorno mediante l’opera di
quanti credono in Cristo e nei valori da Lui proclamati.
Ce lo
ricorda in estrema sintesi il Prefazio della Solennità di Cristo Re:
“Tu o Dio, con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e
Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore.
Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull'altare
della Croce, operò il mistero dell'umana redenzione; assoggettate al
suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il
regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di
santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”.
Dunque,
il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma è
“giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17).
Per
capire bene ciò, dobbiamo partire dal trono di Cristo che è la
Croce. Sulla Croce elevata sul Calvario Cristo manifesta la sua
singolare regalità. Sul Calvario si confrontano due atteggiamenti
contrapposti. Alcuni personaggi ai piedi della croce, e anche uno dei
due ladroni in croce, si rivolgono con disprezzo al Crocifisso
dicendogli : "Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te
stesso scendendo dal patibolo". Gesù, invece, rivela la propria
regalità rimanendo, sulla croce, come Agnello immolato. Con Lui si
schiera inaspettatamente l’altro ladrone, che implicitamente
confessa la regalità del giusto innocente ed implora: “Ricordati
di me, quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).
Sant’Ambrogio di Milano commenta: “Costui pregava che il Signore
si ricordasse di lui, quando fosse giunto nel suo Regno, ma il
Signore gli rispose: In verità, in verità ti dico, oggi sarai
con me nel Paradiso. La vita è stare con Cristo, perché dove c’è
Cristo là c’è il Regno” (Esposizione
del Vangelo secondo Luca,
10,121).
Rivolgiamoci
anche noi con umiltà a Cristo e Lui ci accoglierà nel suo Regno di
vita eterna.
2)
Preghiera e carità.
Il
Regno dove Cristo ci accoglie, che il Redentore ci dà, non è un
luogo o qualcosa ma lui stesso. Lui ci dà il suo cuore, la sua
parola, i suoi sentimenti. E come risposta lui non vuole qualcosa che
abbiamo, ma tutto quello che siamo. Non importa se questa offerta la
facciamo come la povera vedova che mise nel tesoro del tempio tutto
quello che aveva, erano poche monete, oppure come Zaccheo che offrì
la metà dei suoi beni, l’importante è imitare la Vergine Maria
che lietamente offrì tutto se stessa e divenne sulla terra il
paradiso del Figlio del cielo. L’importante è vivere il dono di sé
a Dio con letizia.
Per
educarci a questa offerta totale dobbiamo vivere la carità facendo
la carità, dando agli ultimi. Dando ai poveri diamo a Dio e lui,
riconoscente ci accoglie con loro, ai quali dice: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per
voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero
forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi
avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti
gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e
ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?
Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti
abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e
siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità
vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 31 - 46).
A
questo riguardo Sant’Agostino commenta: “Nessuno sia esitante a
dare l'elemosina ai poveri, nessuno creda che la riceva colui del
quale vede la mano; la riceve Colui che ha comandato di darla. Non
affermiamo ciò in base a un nostro sentimento o a una congettura
umana; ascolta Colui che non solo ti esorta a farlo, ma ti firma
anche la garanzia. Avevo
fame -
è detto - e
mi avete dato da mangiare.
Dopo l’enumerazione dei loro servizi [i giusti] chiederanno [al
Signore]: Quando
mai ti abbiamo visto affamato? ed
egli risponderà: Tutto
ciò che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo
avete fatto a me.
Chiede l'elemosina un povero ma è un ricco quello che la riceve; si
dà a uno che la spende per sé, ma la riceve Colui che la renderà.
E non renderà solo ciò che riceve: egli vuole prendere a interesse,
promette più di quel che avrai dato. Metti fuori tutta la tua
cupidigia di danaro; fa' conto d'essere un usuraio. Se tu lo fossi
realmente, saresti rimproverato dalla Chiesa, saresti condannato
dalla parola di Dio, ti detesterebbero tutti i tuoi fratelli come un
crudele usuraio bramoso di guadagnare sulle lagrime altrui. Sii
usuraio, nessuno te lo proibisce. Invece di prestare a un povero, il
quale piangerà quando ti renderà, dà a uno che è in grado di
restituire e che ti esorta anche a ricevere ciò che promette”
(Discorso
86,3).
In
questa carità verso il prossimo le vergini consacrate sono un
esempio importantissimo. In effetti, ciò che si dà a Dio non lo si
toglie agli uomini, perché consacra a Dio con la verginità il suo
amore, il suo cuore, i suoi pensieri, la persona consacrata non
dimentica e non trascura questo mondo e gli uomini che in esso
lottano e soffrono. Il Dio cristiano è Amore che non riceve, ma dona
o, meglio, è un Dio che riceve non per trattenere per sé quello che
riceve, ma per ridonarlo accresciuto.
Perciò quello che si dona a Dio è un amore che si effonde sugli
uomini arricchito dall’amore stesso di Dio. Non
è un amore impoverito, ma un amore reso più forte e quindi più
impegnato e più fecondo. E’ per questo che la gran maggioranza
delle opere di carità verso i poveri sono state realizzate da
vergini, l’ultima delle quali è Santa Teresa di Calcutta, che si
fece missionaria della carità mettendosi a servizio dei più poveri
dei poveri, perché totalmente donata a Dio.
Lettura
patristica
Gregorio
di Nissa
Oratio
II: De pauper. amandis
Nell’amore dei poveri
costruiamo il nostro eterno futuro
"Io
ho avuto fame, ho avuto sete, ero forestiero e nudo, e infermo e
carcerato"
(Mt
25,35).
"Ogni
volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (miei
fratelli), l’avete fatto a me"
(v. 40). Per cui, "venite",
dice,
"benedetti
del Padre mio"
(v. 34). Che cosa impariamo da queste cose? Che la benedizione e il
più grande bene sono riposti nello zelo e nell’osservanza dei
precetti; la maledizione e il massimo dei mali derivano dall’accidia
e dal disprezzo dei comandamenti. Abbracciamo allora la prima e
fuggiamo questa seconda, finché ci è possibile, affinché delle due
noi possiamo avere quella che desideriamo. Infatti, in quello a cui
con grande alacrità d’animo ci saremo inclinati, noi saremo
stabiliti. Per la qual cosa, il Signore della benedizione, che
parimenti accetterà da noi ciò che per sollecitudine e per dovere
avremo fatto nei confronti dei poveri, come fatto a lui, rendiamocelo
benevolo e costringiamolo almeno in questo tempo in cui a noi, mentre
viviamo, è data la grande possibilità di osservare il comandamento;
e sono molti che mancano del necessario, molti che sono carenti nello
stesso corpo, logorati e consumati dalla stessa violenza del male.
Cosicché, noi in questa cosa, cioè, per dirla più ampiamente,
poniamo più cura e diligenza nel curare coloro che sono colpiti da
gravissimo morbo, per conseguire quel magnifico premio promesso...
(Cosa dirò forse degli angeli) quando lo stesso Signore degli
angeli, lo stesso re della celeste beatitudine si è fatto uomo per
te, e queste sordide e abiette spoglie della carne cinse a sé,
unitamente all’anima che di esse era rivestita, affinché col suo
contatto egli curasse le tue infermità? Tu invece, che sei della
stessa natura di chi è ammalato, fuggi uomini di quel genere. Non ti
piaccia, fratello, te ne prego, far tuo il cattivo proposito.
Considera chi sei, e di chi ti interessi: uomo (sei) soprattutto, tra
gli uomini, che nulla hai di proprio in te e nulla di estraneo alla
natura comune. Non compromettere le cose future. Mentre infatti
condanni la passione grande nel corpo altrui, pronunci una incerta
sentenza di tutta la natura. Di quella natura, poi, anche tu sei
partecipe, come tutti gli altri. Per la quale cosa, si decida come di
cosa comune...
Che
cosa dobbiamo fare, perché non sembri che noi pecchiamo contro la
legge di natura? È sufficiente che deploriamo le loro passioni e che
con la preghiera togliamo via la malattia e ci commuoviamo al suo
stesso ricordo? O non si richiede che, con dei fatti mostriamo verso
di essi la misericordia e la benevolenza? È proprio così. Infatti,
il rapporto che sussiste tra le cose vere e le pitture appena
abbozzate, è quello che c’è tra le parole separate dalle opere.
Dice infatti il Signore che la salvezza non sta nelle parole, ma nel
compiere le opere della salvezza. Per cui, quello che c’è
comandato per causa di essi, occorre che noi lo facciamo per lui...
"Via,
lontano da me, nel fuoco eterno: perché‚ ogni volta che non avete
fatto queste cose a uno dei miei fratelli, non l’avete fatto a me"
(Mt
25,41 Mt 25,45).
Se
infatti pensassero di conseguire tali cose in quel modo, non
arriverebbero mai a subire quella sentenza, allontanando da sé
coloro che soffrono, né stimerebbero contagio per la nostra vita
l’impegno per gli sventurati. Per cui, se consideriamo che colui
che promise è fedele, ottemperiamo ai suoi comandi, senza dei quali
non possiamo essere degni delle sue promesse. Il forestiero, il nudo,
l’affamato, il malato, il carcerato, e tutto quello che ricorda il
Vangelo, in questo misero ti viene posto dinanzi. Egli va errabondo e
nudo e infermo, e a causa della povertà che consegue alla malattia,
manca del necessario. Chi infatti non ha a casa di che sostentarsi,
né d’altronde può guadagnare col lavoro, questi manca delle cose
che le necessità della vita esigono. Per tale motivo, quindi, è
schiavo perché legato dai vincoli della malattia. Pertanto, in ciò
avrai adempiuto l’essenziale di tutti i comandamenti, e lo stesso
Signore di tutte le cose, per quello che gli avrai prestato con
benignità, avrai legato e obbligato a te (Pr
19,17).
Perché dunque fai assegnamento su ciò che è la rovina della tua
vita? Colui, infatti, che non vuole avere amico il Signore di tutte
le cose, è a se stesso grandemente nemico. A quel modo, infatti, che
viene realizzata l’osservanza dei comandamenti, viene liberato
dalla crudeltà (del supplizio eterno) "Prendete"
(dice) "il
mio giogo su di voi"
(Mt
11,29).
Chiama giogo l’osservanza dei comandamenti, obbediamo a colui che
comanda.
Facciamoci
giumento di Cristo, rivestendo i vincoli della carità. Non
rifiutiamo questo giogo, non scuotiamolo, esso è soave e lieve. A
chi si sottomette, non opprime il collo, ma lo accarezza. "Seminiamo
in benedizione",
dice l’Apostolo, "perché
possiamo anche mietere nelle benedizioni"
(2Co
9,6).
Da un tale seme germinerà una spiga dai molti grani. Ampia è la
messe dei comandamenti, sublimi sono le stirpi della benedizione.
Vuoi capire a quale altezza si libra il rigoglio di tale progenie?
Esse toccano gli stessi vertici del cielo. Tutto ciò che infatti in
esse avrai portato, lo troverai al sicuro nei tesori del cielo. Non
diffidare delle cose dette, non ritenere che sia da disprezzare la
loro amicizia. Le loro mani certamente sono mutilate, ma non inidonee
a recare aiuto. I piedi sono divenuti inutili, ma non vietano di
correre a Dio. Vien meno la luce degli occhi, ma con l’anima
scelgono quei beni che l’acutezza della vista non può fissare...
Non c’è infatti chi non sappia, chi non consideri eccellente il
premio prima nascosto che viene conferito umanamente e benignamente
nelle altrui sventure. Poiché infatti le umane cose signoreggia
l’una e medesima natura. E a nessuno è data certezza che a lui in
perpetuo le cose saranno prospere e favorevoli. In tutta la vita,
occorre ricordare quel precetto evangelico secondo il quale quanto
vogliamo che gli uomini facciano a noi, noi lo facciamo loro. Perciò,
finché puoi navigare tranquillamente, stendi la mano a colui che ha
fatto naufragio; comune è il mare, comune la tempesta, comune il
perturbamento dei flutti gli scogli che si nascondono sotto le onde,
le sirti, gli inciampi, e tutte infine quelle molestie che alla
navigazione di questa vita incutono un uguale timore a tutti i
naviganti.
Mentre sei integro, mentre con sicurezza attraversi il mare di questa vita, non trascurare inumanamente colui la cui nave andò a urtare. Chi può garantire, qui, che avrai sempre una felice navigazione? Non sei ancora pervenuto al porto della quiete (Ps 106,19). Non sei ancora stabilito fuori dal pericolo dei flutti. La vita non ti ha ancora collocato in luogo sicuro. Nel mare della vita sei ancora esposto alla tempesta. Quale ti mostrerai verso il naufrago, tali verso di te troverai coloro che insieme navigano.
Mentre sei integro, mentre con sicurezza attraversi il mare di questa vita, non trascurare inumanamente colui la cui nave andò a urtare. Chi può garantire, qui, che avrai sempre una felice navigazione? Non sei ancora pervenuto al porto della quiete (Ps 106,19). Non sei ancora stabilito fuori dal pericolo dei flutti. La vita non ti ha ancora collocato in luogo sicuro. Nel mare della vita sei ancora esposto alla tempesta. Quale ti mostrerai verso il naufrago, tali verso di te troverai coloro che insieme navigano.