venerdì 29 settembre 2017

La conversione del cuore

Rito Romano
XXVI Domenica del Tempo Ordinario – 1° ottobre 2017
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Rito Ambrosiano
Dt 6,4-12; Sal 17; Gal 5,1-14; Mt 22,34-40
V Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.


1) Convertirsi conviene.
  Anche oggi Cristo ci parla della vigna del Signore, che nella Bibbia è usata per indicare popolo di Dio.
In primo luogo, nell’immagine della vigna è espressa la cura, quindi l’amore  che Dio ha per il suo popolo. Tutta la storia dell’antica Alleanza è la storia di un Dio provvidente, di un Dio ricco di premura, di misericordia, partecipe delle gioie e delle sofferenze del suo popolo. E’ la storia di un Dio presenza che  salva. Soprattutto nel mistero dell’Incarnazione di Gesù, nelle parole e nelle opere del Cristo, nella sua morte e Risurrezione, Lui si rivela il Dio con noi, il Dio per noi, nostra Salvezza e Redenzione.  Come gli acini di un grappolo d’uva, Dio si prende cura di ciascuno e di tutti. 
In secondo luogo, l’immagine della vigna indica la necessità della collaborazione dell’uomo nella vigna di Dio. E’ per questo che nel Vangelo di domenica scorsa, Cristo ha insegnato che la vigna è il luogo, dove siamo invitati a lavorare ed  essere compagni di giornata per avere cura del popolo di Dio. “Lavorando in questa vigna prepariamo il vino della Misericordia divina da versare sulle ferite di tutte le persone tribolate” (San Gregorio Magno). Oggi, Cristo precisa che questa collaborazione non è fatta da operai estranei alla casa del Padre, ma dai suoi figli. Uno di questi dice di sì al Padre, che lo invita ad andare a lavorare nella vigna di famiglia, ma poi non ci va, l’altro dice di no ma poi ci va, perché si è pentito, perché il suo cuore è cambiato. Questo cambiamento gli permette di osservare il comandamento del Padre. E’ un’osservanza che lo mette sulla strada per la vita buona: la strada del cuore unificato.
Preghiamo, quindi, il Signore, che tenga unito il nostro cuore (cfr. Sal 86, 11), cerchiamolo con cuore semplice, che non ha secondi fini.
Pregando e agendo nell’obbedienza d’amore, facciamo vivere noi stessi e siamo i primi a riceverne un vantaggio, guadagnando un cuore grande da cui sgorga la vita (cfr. Prov 4, 23) e che fa la volontà di vita del Padre. Questa volontà di avere una casa servita non da servi costretti a obbedire, ma abitata operosamente da figli liberi e maturi nell’amore e quindi, collaboratori del Padre per la maturazione del mondo, per la fe condità della terra.
La differenza tra il figlio che si comporta da servo ribelle e il figlio che riconosce l’amore del Padre non sta tanto nel fatto di aver detto di sì o di no al padre, ma  sta in quello che effettivamente succede nel loro cuore: uno non si pente, l’altro sì e si converte andando a lavorare nelle vigna del Padre “con mani che sono il paesaggio del cuore” (S. Giovanni Paolo II).
  Per questo dobbiamo pentirci cioè convertirci, come ci ricorda la prima  lettura di oggi, nella quale leggiamo: “Se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà” (Ez 18, 28).
Il verbo greco, che nel Vangelo di oggi è tradotto con “si pentì”, vuol dire “cambiare il cuore”. In effetti,  il pentimento che il figlio obbediente  ha sperimentato nella sua esistenza non si limitò al piano morale – come conversione dalla immoralità alla moralità – né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà – si trattò piuttosto di un radicale rinnovamento del cuore, simile per molti aspetti ad una rinascita: rinacque nella consapevolezza di  figlio e non di servo. 
A noi accadrà la stessa cose se avremo il dolore del nostro peccato e accoglieremo la grazia dell’amore di Dio. Se consegniamo a Dio il nostro dolore Lui ci confermerà nel suo amore e lietamente lavoreremo nella sua vigna.

2) Il duplice significato di vigna.
Dio è un padre, non un padrone. Dio ama e invita a lavorare nella sua vigna secondo la sua volontà di amore benevolente, che vuole che tutti i suoi figli si salvino, che vivano nella pace e nella comunione fraterna e lavorino per “migliorare” il mondo.
In questo senso potremmo affermare che la parola vigna ha due significati. “Significa tutto il mondo creato da Dio per l’uomo: per ogni uomo e per tutti gli uomini. E contemporaneamente essa significa quella particella del mondo, quel suo “frammento”, che è un dovere concreto di ogni uomo concreto. In questo secondo significato la “vigna” è al tempo stesso “dentro di noi” e “fuori di noi”. Dobbiamo coltivarla, migliorando il mondo e migliorando noi stessi. Anzi, l’uno dipende dall’altro: rendo il mondo migliore, tanto quanto miglioro me stesso. In caso opposto sono soltanto un “tecnico” dello sviluppo del mondo e non il “lavoratore nella vigna” (San Giovanni Paolo II, 18 dicembre 1978).
In questo senso la “vigna”, alla quale sono mandato così come lo furono i due figli nel Vangelo di oggi, deve diventare luogo del mio lavoro per il mondo e del mio lavoro su me stesso. 
Se è corretto dire che la “vigna” significa pure il mondo interiore, è altrettanto corretto affermare che dobbiamo lavorare la vigna del nostro cuore per accogliere Cristo Gesù. 
Il lavoro nella vigna interiore è difficile, perché richiede la rinuncia di se stesi. E non stupisce il fatto che un figlio, chiamato a lavorare in essa, dica il suo “non andrò”. Tuttavia il lavoro nella “vigna interiore” è indispensabile. Altrimenti l’uomo introduce in questo mondo, che è stato creato per lui, il peccato, introduce il male. E nella “vigna interiore” si allarga la cerchia del peccato, le strutture del peccato aumentano di potenza. L’atmosfera del mondo, in cui viviamo, diventa moralmente sempre più avvelenata. Non ci si può arrendere a questa distruzione dell’ambiente umano da parte del peccato. È necessario opporsi ad esso.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: “ In che modo ci si può opporre al peccato e impegnarsi in questa vigna interiore?” Vivendo in “grazia”. Impegnandoci ad essere sempre partecipi della vita divina innestata in noi dal Battesimo. Vivere in grazia è suprema dignità, è ineffabile gioia, è garanzia di pace, è ideale meraviglioso e deve essere anche logica preoccupazione di chi si dice seguace di Cristo. 
Un modo esemplare di vivere la vita di grazia è quello delle Vergini consacrate. Queste donne  donandosi pienamente a Cristo che dice: “Io sono la vite, voi i tralci, dice il Signore, chi rimane in me porta molto frutto” (Gv 15,5), coltivano la “vigna del loro cuore”, dando il primato dell’amore di Dio su tutti gli altri valori; vivendo nella totale disponibilità all’ascolto del Verbo e nella lode divina; offrendo, con una esistenza che diventa servizio d’amore, una realizzazione esemplare di quello che deve essere l’intera  comunità Cristiana a servizio del mondo. 
Infine testimoniano che la paga della loro giornata lavorativa è sì un “denaro”, ma questo “denaro” è Cristo, che si dona totalmente a ciascuno di noi, anche quando siamo chiamati all’undicesima ora. 
A conclusione delle nostre riflessioni e come preghiera comunitaria che eleviamo a Dio, diciamo con fede: “O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi di cuore, tu prometti vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall'ingiustizia: il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Colletta della XXVI domenica del Tempo Ordinario,  Anno A)


Lettura Patristica
San Girolamo (347 – 420)
In Matth. 21, 29-31


La parabola dei due figli


       Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..." (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: "Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge" (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo quanto ci ordinerà il Signore" (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.

       "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio" (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. 

       "Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui" (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.

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