venerdì 29 settembre 2017

La conversione del cuore

Rito Romano
XXVI Domenica del Tempo Ordinario – 1° ottobre 2017
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

Rito Ambrosiano
Dt 6,4-12; Sal 17; Gal 5,1-14; Mt 22,34-40
V Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.


1) Convertirsi conviene.
  Anche oggi Cristo ci parla della vigna del Signore, che nella Bibbia è usata per indicare popolo di Dio.
In primo luogo, nell’immagine della vigna è espressa la cura, quindi l’amore  che Dio ha per il suo popolo. Tutta la storia dell’antica Alleanza è la storia di un Dio provvidente, di un Dio ricco di premura, di misericordia, partecipe delle gioie e delle sofferenze del suo popolo. E’ la storia di un Dio presenza che  salva. Soprattutto nel mistero dell’Incarnazione di Gesù, nelle parole e nelle opere del Cristo, nella sua morte e Risurrezione, Lui si rivela il Dio con noi, il Dio per noi, nostra Salvezza e Redenzione.  Come gli acini di un grappolo d’uva, Dio si prende cura di ciascuno e di tutti. 
In secondo luogo, l’immagine della vigna indica la necessità della collaborazione dell’uomo nella vigna di Dio. E’ per questo che nel Vangelo di domenica scorsa, Cristo ha insegnato che la vigna è il luogo, dove siamo invitati a lavorare ed  essere compagni di giornata per avere cura del popolo di Dio. “Lavorando in questa vigna prepariamo il vino della Misericordia divina da versare sulle ferite di tutte le persone tribolate” (San Gregorio Magno). Oggi, Cristo precisa che questa collaborazione non è fatta da operai estranei alla casa del Padre, ma dai suoi figli. Uno di questi dice di sì al Padre, che lo invita ad andare a lavorare nella vigna di famiglia, ma poi non ci va, l’altro dice di no ma poi ci va, perché si è pentito, perché il suo cuore è cambiato. Questo cambiamento gli permette di osservare il comandamento del Padre. E’ un’osservanza che lo mette sulla strada per la vita buona: la strada del cuore unificato.
Preghiamo, quindi, il Signore, che tenga unito il nostro cuore (cfr. Sal 86, 11), cerchiamolo con cuore semplice, che non ha secondi fini.
Pregando e agendo nell’obbedienza d’amore, facciamo vivere noi stessi e siamo i primi a riceverne un vantaggio, guadagnando un cuore grande da cui sgorga la vita (cfr. Prov 4, 23) e che fa la volontà di vita del Padre. Questa volontà di avere una casa servita non da servi costretti a obbedire, ma abitata operosamente da figli liberi e maturi nell’amore e quindi, collaboratori del Padre per la maturazione del mondo, per la fe condità della terra.
La differenza tra il figlio che si comporta da servo ribelle e il figlio che riconosce l’amore del Padre non sta tanto nel fatto di aver detto di sì o di no al padre, ma  sta in quello che effettivamente succede nel loro cuore: uno non si pente, l’altro sì e si converte andando a lavorare nelle vigna del Padre “con mani che sono il paesaggio del cuore” (S. Giovanni Paolo II).
  Per questo dobbiamo pentirci cioè convertirci, come ci ricorda la prima  lettura di oggi, nella quale leggiamo: “Se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà” (Ez 18, 28).
Il verbo greco, che nel Vangelo di oggi è tradotto con “si pentì”, vuol dire “cambiare il cuore”. In effetti,  il pentimento che il figlio obbediente  ha sperimentato nella sua esistenza non si limitò al piano morale – come conversione dalla immoralità alla moralità – né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà – si trattò piuttosto di un radicale rinnovamento del cuore, simile per molti aspetti ad una rinascita: rinacque nella consapevolezza di  figlio e non di servo. 
A noi accadrà la stessa cose se avremo il dolore del nostro peccato e accoglieremo la grazia dell’amore di Dio. Se consegniamo a Dio il nostro dolore Lui ci confermerà nel suo amore e lietamente lavoreremo nella sua vigna.

2) Il duplice significato di vigna.
Dio è un padre, non un padrone. Dio ama e invita a lavorare nella sua vigna secondo la sua volontà di amore benevolente, che vuole che tutti i suoi figli si salvino, che vivano nella pace e nella comunione fraterna e lavorino per “migliorare” il mondo.
In questo senso potremmo affermare che la parola vigna ha due significati. “Significa tutto il mondo creato da Dio per l’uomo: per ogni uomo e per tutti gli uomini. E contemporaneamente essa significa quella particella del mondo, quel suo “frammento”, che è un dovere concreto di ogni uomo concreto. In questo secondo significato la “vigna” è al tempo stesso “dentro di noi” e “fuori di noi”. Dobbiamo coltivarla, migliorando il mondo e migliorando noi stessi. Anzi, l’uno dipende dall’altro: rendo il mondo migliore, tanto quanto miglioro me stesso. In caso opposto sono soltanto un “tecnico” dello sviluppo del mondo e non il “lavoratore nella vigna” (San Giovanni Paolo II, 18 dicembre 1978).
In questo senso la “vigna”, alla quale sono mandato così come lo furono i due figli nel Vangelo di oggi, deve diventare luogo del mio lavoro per il mondo e del mio lavoro su me stesso. 
Se è corretto dire che la “vigna” significa pure il mondo interiore, è altrettanto corretto affermare che dobbiamo lavorare la vigna del nostro cuore per accogliere Cristo Gesù. 
Il lavoro nella vigna interiore è difficile, perché richiede la rinuncia di se stesi. E non stupisce il fatto che un figlio, chiamato a lavorare in essa, dica il suo “non andrò”. Tuttavia il lavoro nella “vigna interiore” è indispensabile. Altrimenti l’uomo introduce in questo mondo, che è stato creato per lui, il peccato, introduce il male. E nella “vigna interiore” si allarga la cerchia del peccato, le strutture del peccato aumentano di potenza. L’atmosfera del mondo, in cui viviamo, diventa moralmente sempre più avvelenata. Non ci si può arrendere a questa distruzione dell’ambiente umano da parte del peccato. È necessario opporsi ad esso.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: “ In che modo ci si può opporre al peccato e impegnarsi in questa vigna interiore?” Vivendo in “grazia”. Impegnandoci ad essere sempre partecipi della vita divina innestata in noi dal Battesimo. Vivere in grazia è suprema dignità, è ineffabile gioia, è garanzia di pace, è ideale meraviglioso e deve essere anche logica preoccupazione di chi si dice seguace di Cristo. 
Un modo esemplare di vivere la vita di grazia è quello delle Vergini consacrate. Queste donne  donandosi pienamente a Cristo che dice: “Io sono la vite, voi i tralci, dice il Signore, chi rimane in me porta molto frutto” (Gv 15,5), coltivano la “vigna del loro cuore”, dando il primato dell’amore di Dio su tutti gli altri valori; vivendo nella totale disponibilità all’ascolto del Verbo e nella lode divina; offrendo, con una esistenza che diventa servizio d’amore, una realizzazione esemplare di quello che deve essere l’intera  comunità Cristiana a servizio del mondo. 
Infine testimoniano che la paga della loro giornata lavorativa è sì un “denaro”, ma questo “denaro” è Cristo, che si dona totalmente a ciascuno di noi, anche quando siamo chiamati all’undicesima ora. 
A conclusione delle nostre riflessioni e come preghiera comunitaria che eleviamo a Dio, diciamo con fede: “O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi di cuore, tu prometti vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall'ingiustizia: il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Colletta della XXVI domenica del Tempo Ordinario,  Anno A)


Lettura Patristica
San Girolamo (347 – 420)
In Matth. 21, 29-31


La parabola dei due figli


       Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..." (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: "Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge" (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo quanto ci ordinerà il Signore" (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.

       "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio" (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. 

       "Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui" (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.

venerdì 22 settembre 2017

Undicesima ora: Dio ama anche gli ultimi

Rito Romano
XXV Domenica del Tempo Ordinario – 24  settembre 2017
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20-24.27; Mt 20,1-16

Rito Ambrosiano
Is 63,19b-64,10; Sal 76; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35
IV Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.

Le ragioni di Dio, in Lui giustizia e carità coincidono

1) Dio non è ingiusto, è generoso.
La prima lettura della Messa di oggi è composta dai vv. 6-9 dell'ultimo capitolo del libro di Isaia: il 55mo. In questi versetti il profeta è ispirato da Dio che dice:: " Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri" (Is 55, 6-9). Oggi, Cristo per farci conoscere il pensiero di Dio racconta una parabola magnifica che descrive un modo di pensare e di agire umanamente paradossale.
Infatti la parabola termina così: “Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anche loro ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone”.
Questo padrone li ha sconvolti perché gli ultimi sono pagati per primi, e ricevono per un’ora sola di lavoro la paga di un giorno intero. La generosità del padrone verso gli operai dell’ultima ora aveva suscitato negli operai delle prime ore l’aspettativa ingiustificata di ricevere una paga superiore a quella convenuta. Questi se ne lamentano, ma il padrone fa notare loro che lui ha rispettato la giustizia nei loro confronti, se poi vuole essere generoso con gli altri, è un suo diritto quello di dare quanto vuole agli altri. 
Dio non è ingiusto, è generoso. Non toglie nulla ai primi, dona generosamente agli altri. E lancia tutti in un'avventura sconosciuta: quella della bontà. Che non è giusta, è oltre, è molto di più. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio.   
Dio non solo è generoso, è bontà amorosa e infinita. Lui non paga, regala, dona con abbondanza gratuita. Lui è il Dio della bontà senza limite, vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce tutte le regole dell'economia, che sa saziarci di sorprese. Nessun padrone farebbe così. Ma Dio non è un padrone, neanche il migliore dei padroni. Dio non è il ragioniere dell’umanità e non paga secondo ciò che è giusto nel senso distributivo del termine. Lui è il Padre che dai ai figli secondo ciò che è meglio per loro. La giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, l’uomo ha bisogno di Dio. Sant’Agostino scrive: “Se la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo... non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio. (La Città di Dio, 19, 21)
  Se lui, il Padrone divino, agisce come agisce, non è perché trascura chi ha lavorato di più, ma perché ama anche gli ultimi. Non è violata la giustizia (il padrone dà ai primi chiamati quanto insieme hanno concordato), ma la proporzionalità distributiva. Lo spazio dell'agire di Dio è quello largo della bontà non quello ristretto del “tanto-quanto”. Il Dio del Vangelo non è senza la giustizia, ma non si lascia imprigionare nello spazio ristretto della proporzionalità. All’uomo la proporzionalità distributiva sembra essere l’applicazione la più giusta possibile di una legge, ma questo non vale per Dio. Se vogliamo entrare nel mistero amoroso di Dio, dobbiamo liberaci dallo schema della rigida proporzionalità nelle nostre relazioni.
Questo modo di pensare e di agire deve essere imparato e praticato da noi “per fedeltà a Colui che non si stanca mai di passare e ripassare nelle piazze degli uomini fino all’undicesima ora per proporre il suo invito d’amore” (Papa Francesco) e ricevere Cristo come “denaro”, come ricompensa del nostro lavoro nella vigna del Padre.


2) Giustizia e grazia.
  La giustizia di Dio viene dalla grazia, perché non siamo noi, che ripariamo, guariamo noi stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i nostri sacrifici  a liberarci dal peso delle colpe, ma è il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta a noi, poveri essere umani, per trasmetterci in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14). 
Il lavoro che svolgiamo nella vigna del Signore ci “merita” la ricompensa non nel senso che Dio ci deve pagare, ma nel senso che con questo umile e lieto lavoro la nostra mente e il nostro cuore si aprono alla grazia che ci ricrea nella misericordia.
Se dicessimo che Dio è giusto se ci paga il denaro pattuito, come potremmo dire che la giustizia è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario di quanto gli spetta? In realtà, la giustizia divina è profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero sproporzionato. 
La giustizia della Croce mette in evidenza che noi non siamo autosufficienti, autarchici e che per essere pienamente noi stessi abbiamo bisogno di un Altro.
Questo Altro è il Padre che esce di casa nelle varie ore del giorno per chiamarci a lavorare nella sua vigna e darci la felicità. Queste diverse ore del giorno – come scrive San Gregorio Magno, sono le differenti età della vita umana: “Le prime ore sono l’infanzia della nostra intelligenza. L’ora terza può essere paragonata  all’adolescenza, poiché il sole comincia a salire, per così dire, nel senso che gli ardori della gioventù cominciano a riscaldarsi. L’ora sesta è l’età della maturità: il sole vi si stabilisce come punto di equilibrio, poiché l’uomo è arrivato alla pienezza della forza. L’ora nona indica l’anzianità, dove il sole scende in qualche modo dall’alto del cielo, perché gli ardori dell’età matura si raffreddano. Infine l’undicesima ora è l’età che si definisce vecchiaia … Poiché alcuni conducono una vita onesta fin dall’infanzia, altri nell’adolescenza, altri nell’età matura, altri nell’anzianità, altri infine nell’età più avanzata, è come se fossero chiamati alla vigna nelle diverse ore del giorno”.
Dunque dobbiamo esaminare il nostro modo di vivere e guardare se abbiamo cominciato ad agire come gli operai di Dio. Facciamo l’esame di coscienza per vedere  se stiamo lavorando nella vigna del Signore lieti di essere suoi collaboratori. E, poi, il Santo Papa continua: “Chi non ha voluto vivere per Dio fino all’ultimo momento della vita è come l’operaio rimasto ozioso fino all’undicesima ora… “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?” E’ come dire chiaramente: “Se non avete voluto vivere per Dio in gioventù e nell’età matura, almeno pentitevi nell’ultimo tempo… Venite quanto meno sulle vie della vita”… Il ladrone non è forse venuto all’ultima ora? (Lc 23,39s) Non per l’età avanzata, ma per la sua condanna si è trovato alla sera della vita. Ha confessato Dio sulla croce, e ha reso l’ultimo respiro nel momento in cui il Signore dava la sua sentenza. Ed il Signore del posto, ammettendo il ladrone prima di Pietro nel riposo del paradiso, ha ben distribuito il salario a cominciare dall’ultimo” (San Gregorio Magno, Omelie sul Vangelo, n. 19).
Un esempio di come rispondere nei vari momenti della vita alla vocazione del Signore che chiama a lavorare nella sua vigna ci è dato dalle vergini consacrate. E’ vero che lo specifico del “lavoro” o ministero o servizio, a cui il Rito della Consacrazione le abilita, è quello di vivere la verginità come segno profetico della Parusia, di Cristo che viene definitivamente come sposo. Ma è altrettanto vero che il suo servizio è quello di manifestare l’amore della Chiesa sposa verso il suo Cristo., “lavorando” con la preghiera (non dimentichiamo che liturgia vuol dire azione del popolo per Dio e che la liturgia è chiamata anche Opus Dei, opera di Dio).  Va però tenuto presente anche che “le vergini consacrate nella Chiesa sono quelle donne che, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, fanno voto di castità al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli ... loro compito è quello di attendere alle opere di penitenza e di misericordia, all’attività apostolica e alla preghiera” (RCV 2). 
Come è anche indicato nel progetto di omelia proposta per il Rito di Consacrazione.: ... Siate di nome e di fatto ancelle, oggi diremmo lavoratrici nella vigna del Signore a imitazione della Madre di Dio. Integre nella fede, salde nella speranza ferventi nella carità. Siate prudenti e vigilanti, custodite il grande tesoro della verginità nell’umiltà del cuore. Nutrite la vostra vita religiosa con il Corpo di Cristo, fortificatela con il digiuno e la penitenza, alimentatela con la meditazione della Parola, con l’assidua preghiera e con le opere di misericordia. Occupatevi delle cose del Signore; la vostra vita sia nascosta con Cristo in Dio; vi stia a cuore di intercedere incessantemente per la propagazione della fede e per l’unità dei cristiani. Abbiate una particolare sollecitudine nella preghiera per gli sposi; ricordatevi anche di coloro che, dimenticando l’amore del Padre, si sono allontanati da lui, perché egli li salvi nella sua misericordia. Ricordatevi che siete legate al servizio della Chiesa e dei fratelli; perciò esercitando il vostro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e materiale, la vostra luce risplenda davanti agli uomini, perché sia glorificato il Padre che è nei cieli e si compia il suo disegno di riunire in Cristo tutte le cose. Amate tutti e prediligete i poveri, soccorreteli secondo le vostre forze, curate gli infermi, insegnate agli ignoranti, proteggete i fanciulli, aiutate i vecchi, consolate le vedove e gli afflitti. Voi che siete vergini per Cristo, diventerete madri nello Spirito, facendo la volontà del Padre, cooperando con amore, perché tanti figli siano generati o ricuperati alla vita di grazia. (RCV 29).


Lettura patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354 – 407)
In Matth. 64, 3 s.

  A quale scopo, dunque, è stata composta questa parabola, e che fine vuol conseguire? Essa mira a incoraggiare gli uomini che si sono convertiti e hanno cambiato vita in età avanzata, e a evitare che si ritengano inferiori. Questa è la ragione per cui il Signore presenta altri che mal sopportano il fatto che costoro ottengano quei doni; non tanto per mostrare che quelli siano realmente rosi e consumati dall’invidia. Dio ci liberi da tale pensiero; quelli vengono introdotti solo per farci comprendere che gli ultimi arrivati godono di tale onore, che può anche causare invidia. La stessa cosa facciamo anche noi molte volte, quando diciamo ad esempio: Il tale mi ha rimproverato d’averti fatto tale onore. Con ciò noi non vogliamo dire che realmente siamo stati rimproverati, né pensiamo di screditare quell’altro, ma vogliamo dimostrare la grandezza del dono che abbiamo fatto all’amico.
       Ma voi ora mi domanderete perché il padrone non fa venire gli operai tutti insieme a lavorare nella vigna. Per quanto dipende dal padrone, egli li ha chiamati tutti insieme, alla stessa ora; però non tutti hanno obbedito subito, e ciò per le diverse disposizioni dei chiamati. Per questo alcuni sono chiamati di buon mattino, altri all’ora terza, altri alla sesta, alla nona, fino all’undicesima ora, ciascuno nel momento in cui è pronto ad ascoltare la sua chiamata. La stessa cosa dichiara anche Paolo dicendo: "Quando è piaciuto a Dio, che mi ha separato dal ventre di mia madre" (Ga 1,15). E quando a Dio è piaciuto? Quando Paolo era pronto ad obbedirgli. Il Signore avrebbe certo desiderato chiamarlo fin dall’inizio della sua vita, ma sapendo che allora Paolo non avrebbe ceduto, ha atteso a chiamarlo nel momento in cui sarebbe stato disposto. Per questo, chiamerà il ladrone all’ultimo momento, ché altrimenti costui non avrebbe risposto alla chiamata. Paolo non gli avrebbe risposto prima, e molto meno, gli avrebbe obbedito il ladrone.
       Orbene, se gli operai dicono qui che nessuno li ha presi a soldo, non bisogna pretendere, come già vi dissi, di esaminare e di spiegare ogni minimo dettaglio nelle parabole. E non dimentichiamo che non è il padrone a dire queste parole, ma gli operai dell’ultima ora: il padrone non li rimprovera per non turbarli, e per indurli a lavorare anch’essi nella vigna. Infatti, che egli abbia l’intenzione di chiamarli tutti dal principio lo dimostra la parabola stessa, quando dice che il padrone di casa uscì la mattina di buon’ora ad assoldare operai.
       Da ogni parte, quindi, risulta evidente che la parabola è indirizzata sia a coloro che dalla prima età, sia a quelli che in età avanzata e più tardi si danno alla virtù. Ai primi, perché non si insuperbiscano né insultino coloro che vengono all’undicesima ora; agli ultimi, perché sappiano che possono, in breve tempo, recuperare tutto. Siccome, infatti, il Signore aveva in precedenza parlato di fervore e di zelo, di rinuncia delle ricchezze, di disprezzo di tutto ciò che si possiede - il che richiede grande sforzo e un ardore giovanile - per accendere negli ascoltatori la fiamma dell’amore e dar tono alla loro volontà, dimostra ora che pure quelli che sono giunti tardi possono ricevere la ricompensa di tutta la giornata. Tuttavia, non dice esplicitamente questo, per timore che questi si insuperbiscano e siano negligenti e trascurati; mostra invece che tutto è opera della sua bontà e, grazie ad essa, costoro non saranno trascurati, ma riceveranno anch’essi beni ineffabili. Questo è lo scopo principale che Cristo si prefigge nella presente parabola.
       Né meravigliatevi se il Signore aggiunge che "saranno primi gli ultimi e ultimi i primi e molti saranno i chiamati e pochi gli eletti" (Mt 20,16). Egli non afferma ciò deducendolo dalla parabola, ma vuole far comprendere che come è successo questo succederà anche quello. Perché qui i primi non sono diventati ultimi ma tutti hanno ottenuto, al di là di quanto potevano aspettarsi e sperare, la stessa ricompensa. Orbene, come è accaduto questo contro ogni speranza e aspettativa e gli ultimi furono messi alla pari coi primi, così accadrà un fatto ancor più grande e straordinario, vale a dire che gli ultimi saranno i primi e i primi saranno dopo di essi.

venerdì 15 settembre 2017

Il perdono non ha limiti

Rito Romano
XXIV Domenica del Tempo Ordinario -  17 settembre 2017
Sir 27,33-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35



Rito Ambrosiano
Is 11, 10-16; Sal 131; 1 Tm 1, 12-17; Lc 9, 18-22
III Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.


1) Una misura smisurata.
Nel Vangelo di questa domenica si racconta di quando Pietro chiese a Cristo quante volte avrebbe dovuto perdonare al suo prossimo. Il Messia, il portatore del Vangelo della misericordia, rispose che doveva perdonare “ non sette volte, ma fino a settanta volte sette" (Mt 18,21s), cioè sempre. Infatti il numero “settanta” per “sette” è simbolico, e significa, più che una quantità determinata, una quantità infinita, smisurata. 
Dicendo che occorre perdonare “settanta volte sette”, Gesù insegna che il perdono cristiano è senza limiti e che solamente il perdono senza limiti assomiglia al perdono di Dio.  Questo perdono divino è il motivo e la misura del perdono fraterno. Poiché Dio Padre ci ha già fatti oggetto di un perdono senza misura, noi  dobbiamo perdonare senza misura. Il perdono fraterno è conseguenza del perdono paterno di Dio da invocare su quanti ci offendono, pregando: “Padre nostro che sei nei cieli … Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo” a coloro che sono colpevoli nei nostri riguardi (= “ai nostri debitori”) e facendo nostra la preghiera di Cristo in Croce, quando, rivolgendosi al Padre, supplicò: “Perdonali”, “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). 
“Perdono” è la parola pronunciata da Cristo, al quale fu fatto del male in modo ingiustissimo e senza misura.  Il Messia morente perdona e apre lo spazio dell’amore infinito all’uomo che l’offende e lo sta uccidendo. Pronuncia questa parola del cuore che rivela un Dio infinitamente buono: il Dio del perdono e della misericordia.
Come possiamo, noi poveri esseri limitati, mettere in pratica questo amore illimitato? 
In primo luogo, mendicando la misericordia di Dio, perché non possiamo dare ciò che non abbiamo.  Il Padrone, di cui Cristo parla nella parabola di oggi, si lascia impietosire dalla supplica del servitore e gli condona tutto il debito rivelando un amore non solo paziente ma sconfinato nella sua misericordia. L’errore da evitare dopo questo perdono è di non riconoscere che in quel perdono c’è il suo amore per noi e che questo amore cresce in noi, se le condividiamo.
In secondo luogo,  prendendo coscienza che l’accoglienza del perdono di Dio si concretizza nel saper perdonare gli altri e che perdonando chi ci ha offeso, amiamo il prossimo come noi stessi e realizziamo non solo il suo  ma anche il nostro bene, e la nostra felicità.
In terzo luogo, prendendo coscienza che il perdono non è solamente un atto che siamo chiamati a fare infinite volte, ma è un modo di essere che deve coinvolgere tutta la vita quotidiana per tutto l’arco della nostra esistenza. È una dimensione “religiosa”, nel senso pieno del termine perché esprime la nostra comunione con Dio, il cui amore trasforma: “Perdonare non é ignorare ma trasformare: cioè Dio deve entrare in questo mondo e opporre all’oceano dell’ingiustizia un oceano più grande del bene e dell’amore”. (Benedetto XVI, 24 luglio 2005)
  Un esempio alto e umano di questo perdono ci viene dalla Madonna, che spesso è invocata come Madre di misericordia. Ai piedi del Figlio suo crocifisso, Maria ci perdonò accettando come figli gli uomini, per quali Cristo era stato messo in Croce e per i quali moriva. Con questo sì (fiat) divenne per sempre, senza limiti, nostra  Madre, Madre del perdono, come pochi decenni prima si mise pienamente a disposizione di Dio e divenne la madre di Gesù, il Volto umano della divina Misericordia. Maria è diventata così e rimane per sempre la “Madre della Misericordia”, modello ed esempio di perdono.

2) Perdono e gratuità
La parabola di oggi ci da anche un altro insegnamento circa il perdono, che non deve essere “solamente” per sempre ma gratuito e che non si deve separare il rapporto con Dio da quello con il prossimo. In effetti, il servo della parabole è condannato perché tiene il perdono per sé, e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono anche per gli altri. L'errore di questo servo è quello di separare il rapporto con Dio dal rapporto col prossimo. E invece è un rapporto unico: come fra Dio e l’uomo c’è un rapporto di gratuità, di amore accogliente, così deve essere fra l'uomo e i suoi fratelli.
Penso che  la parabola voglia sottolineare che l'amore di Dio non è anzitutto circolare, reciproco, ma espansivo, oblativo. È nella linea della gratuità, non della stretta reciprocità. Dio non si lascia rinchiudere nella stretta reciprocità. E, dunque, chi crede in Dio e parla di Dio, deve allargare lo spazio del perdono, che realizza la giustizia vera. 
L’importante è capire e vivere il fatto che “la giustizia di Dio è il suo perdono”(Misericordiae Vultus, 20). Scrive papa Francesco: “La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità di ravvedersi, convertirsi e credere” (Id.  21). Dobbiamo essere Chiesa in uscita  guardando gli altri con gli occhi di Gesù: occhi di amore e non di esclusione, certi che Dio è tutto e solo Amore, e proprio essendo Amore è apertura, accoglienza, dialogo, che nella sua relazione con noi, uomini peccatori,  si fa  compassione, grazia, perdono: misericordia. 
Le Vergini consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale siamo tutti salvati.
L’esistenza di queste donne tiene viva l’esperienza del perdono di Dio, perché vivono nella consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato. 
Dunque, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della «compunzione del cuore», del riconoscimento umile della propria miseria, ma è anche una scuola della fiducia nella misericordia di Dio, nel suo amore che mai abbandona. In effetti, più si è vicini a Lui, più si è utili agli altri. 
Con il dono totale di se stesse, le vergini consacrate sperimentano la grazia, la misericordia e il perdono di Dio non solo per sé, ma anche per i fratelli, perché la loro vocazione è di portare nel cuore e nella preghiera le angosce e le attese degli uomini, specie di quelli che sono lontani da Dio. 
La verginità è frutto di una prolungata amicizia con Gesù maturata nell’ascolto costante della sua Parola, nel dialogo della preghiera, nell’incontro eucaristico. Per questo le vergini consacrate sono testimoni credibili della fede e devono essere persone che vivono per Cristo, con Cristo e in Cristo, trasformando la propria vita secondo le esigenze più alte della gratuità. 
La gratuità è uno dei fulcri del vangelo. Tutto è Grazia. “Nessuno” può pretendere niente, tutto fluisce, perché tutto viene donato. Come direbbe Paolo, “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La gratuità non è fare le cose senza motivo, ma farle con il massimo dei motivi, che è la fede che si rende operosa mediante la carità (cfr Gal 5,6).




Lettura patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354  - 407)
In Matth. 61, 5


Questa parabola cerca di ottenere due cose: che noi riconosciamo e condanniamo i nostri peccati, e che perdoniamo quelli degli altri. E il condannare è in funzione del perdonare, affinché cioè il perdonare diventi più facile. Colui infatti che riconosce i propri peccati, sarà più disposto a perdonare al proprio fratello. E non solo a perdonare con la bocca, ma di cuore. Altrimenti noi rivolgeremo la spada contro noi stessi. Che male può farti il tuo nemico che possa essere paragonato a quello che tu fai a te stesso, accendendo la tua ira e attirando contro di te la sentenza di condanna da parte di Dio? Se infatti tu sei vigilante e vivi filosoficamente, tutto il male ricadrà sulla testa di chi ti offende e sarà lui a pagare il malfatto; ma se ti ostini nella tua indignazione e nel risentimento, allora sarai tu stesso a riportare il danno: non quello che ti procurerà l’offesa del nemico, ma quello che ti deriverà dal tuo rancore. Non dire che t’insultò e che ti calunniò e ti fece mille mali, quanti più oltraggi tu enumeri, tanto più dimostri che egli è tuo benefattore. Egli infatti ti ha dato modo di espiare i tuoi peccati. Quanto più infatti egli ti ha offeso tanto più è diventato per te causa di perdono. Infatti se noi vogliamo, nessuno potrà danneggiarci; anzi i nostri stessi nemici saranno per noi causa di bene immenso. Ma perché parlo soltanto degli uomini? C’è qualcosa di più perverso del demonio? Eppure anche lui può essere per noi occasione di grande gloria, come lo dimostra Giobbe. Se dunque il diavolo può essere per te occasione di ricompensa, perché temi un uomo, tuo nemico? Considera infatti quanto tu guadagni sopportando con mansuetudine gli attacchi dei tuoi nemici. Il primo e più grande vantaggio è il perdono dei tuoi peccati. In secondo luogo tu acquisti costanza e pazienza e inoltre mitezza e misericordia: infatti chi non sa adirarsi contro coloro che l’offendono, tanto più sarà mite verso gli amici. Infine, sradicheremo per sempre da noi l’ira: e non vi è bene pari a questo. Chi infatti è libero dall’ira, evidentemente sarà libero dalla tristezza di cui l’ira è fonte e non consumerà la sua vita in vani affanni e dolori. Chi non s’adira né odia, non sa neppure essere triste, ma godrà di gioia e di beni infiniti. Odiando infatti gli altri, noi puniamo noi stessi; e, al contrario, benefichiamo noi stessi, amando. Oltre a tutto questo, tu sarai rispettato persino dai tuoi nemici, anche se essi sono demoni; anzi, con questo tuo atteggiamento non avrai più neppure un nemico. Infine, ciò che vale più di tutto ed è prima di tutto: tu ti guadagnerai la benevolenza di Dio; se hai peccato, otterrai il perdono; e se hai praticato il bene, aggiungerai nuovi motivi di fiducia e di speranza.
       Sforziamoci dunque di non odiare nessuno, affinché Dio ci ami. Anche se noi siamo debitori di mille talenti, egli avrà misericordia di noi e ci perdonerà. Ma tu dici che sei stato offeso dal tuo nemico . Ebbene, abbi compassione di lui e non odiarlo; compiangilo vivamente, non disprezzarlo. Infatti, non sei stato tu ad offendere Dio, ma lui; tu, invece, hai acquistato gloria se hai sopportato con pazienza il suo odio. Ricorda che Cristo, quando stava per essere crocifisso, si rallegrò per sè e pianse per i suoi crocifissori. Tale deve essere la nostra disposizione d’animo; e quanto più noi siamo offesi, tanto più dobbiamo piangere per coloro che ci offendono. A noi provengono molti beni da questo fatto mentre a loro accade tutto il contrario. Costui - tu replichi - mi ha oltraggiato e schiaffeggiato dinanzi a tutti. E io ti dico che egli si è disonorato davanti a tutti ed ha aperto la bocca di mille accusatori; per te invece ha intrecciato più grandi e splendide corone e ha aumentato il numero degli araldi della tua pazienza. Ma egli mi ha insultato davanti agli altri - tu obietti ancora. E che è questo, quando Dio solo sarà il tuo giudice e non coloro che hanno inteso quelle calunnie? Per sé, infatti, ha aggiunto nuovo motivo di castigo, cosicché egli dovrà render conto non solo dei propri atti, ma anche delle parole che pronunciò contro di te. Se ti ha accusato presso gli uomini, egli però si è screditato davanti a Dio. Se poi queste considerazioni non ti bastano, pensa che anche il tuo Dio è stato calunniato non solo da Satana, ma anche dagli uomini e da quelli che amava sopra tutti.

venerdì 8 settembre 2017

Correggere nell’amore e pregare nella concordia.

Rito Romano
XXIII Domenica del Tempo Ordinario - 10 settembre 2017



Rito Ambrosiano
II Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.


1) Correggere perdonando.
Il Vangelo di oggi ci propone due insegnamenti di Cristo circa la vita della Chiesa, quale comunità di fratelli, perché figli nel Figlio di Dio.
Il primo riguarda la correzione fraterna e dice come procedere in caso di conflitto tra i membri della comunità (Mt 18,15-18). Il brano evangelico di oggi è dedicato alla vita della comunità cristiana e ci insegna che l’amore fraterno comporta anche un senso di responsabilità reciproca, per cui, se un nostro fratello commette una colpa contro di noi, dobbiamo usare carità verso di lui, parlandogli a tu per tu per fargli capire l’errore commesso verso di noi. Questo modo di fare si chiama correzione fraterna, che non deve essere una reazione all’offesa subita, ma deve essere mossa dall’amore per il fratello, come spiega bene Sant’Agostino: “Colui che ti ha offeso, offendendoti, ha inferto a se stesso una grave ferita, e tu non ti curi della ferita di un tuo fratello? ... Tu devi dimenticare l’offesa che hai ricevuto, non la ferita di un tuo fratello” (Discorsi 82, 7).
Il secondo insegnamento riguarda l’onnipotenza "d’intercessione” (omnipotentia supplex) della preghiera fatta dalla comunità, anche se molto piccola, “perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18. 19-20). Dunque, il Signore è presente nell'assemblea liturgica che prega e loda, nei sacramenti, che comunicano la sua vita e nella sua Parola: “è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (Conc. Vat. II, Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, 7). Certo la preghiera personale è indispensabile, ma il Signore assicura la sua presenza alla comunità che è unita e concorde, perché essa riflette la realtà stessa di Dio Uno e Trino, comunione perfetta d’amore.
Continuiamo la nostra riflessione approfondendo brevemente il primo insegnamento che Cristo ci offre oggi e che riguarda il dovere di carità della correzione.
In una predica durante la Santa Messa nella chiesa di Casa Santa Marta, Papa Francesco ha detto: “Chi giudica un fratello sbaglia e finirà per essere giudicato allo stesso modo. Dio è l'unico giudice e chi è giudicato potrà contare sempre sulla difesa di Gesù, il suo primo difensore, e sullo Spirito Santo.... Se noi vogliamo andare sulla strada di Gesù, più che accusatori dobbiamo essere difensori degli altri davanti al Padre e parlare loro con carità”. Ciò dicendo il Santo Padre ha riproposto pure l’esortazione odierna di san Paolo: “Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole...L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore” (Rm 13, 8-10). Fondandosi sull’insegnamento di Cristo, Papa Francesco insegna che la correzione è espressione di amore umile e dolce perché il fratello non sia vittima del male e conosca la gioia del bene.
La correzione fraterna è un frutto puro dell’amore, forse la sua incarnazione più difficile, perché per correggere occorre amare l’altro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati. In effetti “correggere” significa “reggere insieme”, per camminare insieme sul retto cammino.
Perché la correzione sia fraterna deve fondarsi sulla preghiera concorde dei fratelli. Quando la preghiera della comunità è unanime, Cristo è presente e porta al raduno concorde della Chiesa la misericordia del Padre.
Quando nella preghiera viviamo la relazione con i “fratelli che peccano” e li amiamo in Cristo, non li giudichiamo, ma fremiamo di compassione e di misericordia, li guardiamo con gli occhi del cuore e non li lasciamo andar via senza il perdono, che è la correzione secondo il cuore di Cristo. La preghiera concorde - cioè con il nostro cuore unito a quello dei fratelli e a quello di Cristo - è una preghiera giusta, pura, umile e confidente che ci pone nella luce della comunione con Dio-Trinità, La preghiera è cristiana in quanto è comunione con Cristo e si dilata nella Chiesa, che è il suo corpo. Le sue dimensioni sono quelle dell’amore di Cristo, presente nella comunità che è luogo del perdono e della festa per il peccatore pentito, corretto dal perdono.

2) Preghiera concorde.
A questo insegnamento sulla correzione fraterna Cristo unisce quello sull’importanza della preghiera, che è l’onnipotenza dell’intercessione, soprattutto quando è fatta in comunità. La preghiera concorde, anche se fatta da due o tre persone solamente, rende presente Dio in essa.
E’ la presenza di Cristo che rende efficace la preghiera comune di coloro che sono riuniti nel suo nome. Quando ci riuniamo concordi per pregare, è Gesù stesso che è in mezzo a noi. Noi siamo solo uno con Colui che è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, quando siamo riconciliati con Lui dal suo perdono, che dobbiamo condividere con i nostri fratelli e sorelle.
E’ davvero consolante sapere che se siamo riuniti concordi in preghiera, Cristo è in mezzo a noi. Ma Cristo non insiste solo sul fatto che dobbiamo essere uniti, Lui dice anche che dobbiamo riunirci nel suo nome. Ci sono tante ragioni per stare insieme: per lavorare, per divertirci, per stare in famiglia, per mangiare, per manifestare, ecc., ecc. Ma c’è un modo di essere insieme che è garanzia della Presenza di Gesù tra noi: se siamo uniti nel suo Nome.
Cosa vuol dire essere riuniti nel suo Nome? Vuol dire:
  • pregare per Cristo: per mezzo di lui, per i suoi meriti, per la forza del suo comando, per la sua autorità;
  • pregare con Cristo: uniti a lui nostro fratello.;
  • pregare in Cristo: chiedere di essere uniti indissolubilmente a lui nella mente, nel cuore, nei pensieri e nei sentimenti, negli ideali, nei desideri: in tutto.
Se, da una parte, la preghiera concorde è la condizione perché essa sia esaudita, d’altra parte la presenza di Cristo in questa concordia è la garanzia dell'esaudimento della preghiera rivolta al Padre da noi figli nel Figlio. E' questo l’insegnamento che Cristo oggi ci dà dicendo: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19 -20).
Se, consultiamo un vocabolario, alla voce “accordo” possiamo trovare che questa parola può voler dire :
o concordanza di sentimenti, conformità d'idee, essere in perfetta concordia
o avere lo stesso cuore, incontro di più volontà.
Se, poi, cerchiamo il verbo “accordare” possiamo trovare questi significati: Mettere d'accordo; Conciliare; Disporre, combinare qualcosa in modo armonico, gradevole, conveniente; Armonizzare tra loro strumenti e voci.
Dunque la frase: “Se due si accorderanno” fa pensare agli strumenti musicali che si accordano tra di loro per poter suonare una sinfonia. Nessun Maestro di musica dà l’attacco per iniziare a suonare una sinfonia con la sua orchestra, se prima non accorda tra loro gli strumenti; nessun Direttore di coro inizia a a fare cantare, se non si sono prima accordate le voci.
Dunque possiamo dire che come in musica l’accordo produce la bellezza armoniosa di due strumenti o di due voci, così l’accordo di due persone nella comunità produce la bellezza di due cuori e di due volontà che si uniscono fino ad essere una cosa sola: Gesù presente tra loro, in loro. E' lui che diviene la preghiera che il Padre non può non ascoltare, non accogliere, non esaudire.
Il Vangelo di questa domenica ci svela una verità meravigliosa: Dio ascolta le voci accordate, la preghiera concorde, espressa da un cuore che vibra all’unisono con l’altro, la volontà che ricerca nell'accordo con l'altro il bene, perché in questo orante raduno concorde è presente il Figlio amato. Prima di rivolgere la nostra domanda a Dio Padre, ci mettiamo d’accordo con l’altro, non perché scendiamo a compromessi ma perché uniamo il nostro cuore a quello degli altri fratelli e sorelle e lo accordiamo al cuore di Cristo.
Un esempio di questa preghiera “concorde” è quella delle vergini consacrate, che durante il Rito della Consacrazione ricevono il Libro della Liturgia delle Ore e sono invitate ad una preghiera assidua per la Chiesa.
La preghiera costante e unanime è un prezioso strumento che permette a queste donne di svolgere un servizio efficace di intercessione. Il loro essere profondamente unite a Dio mediante il dono totale di se stesse, permette loro di essere anche profondamente unite agli altri. 
  Consacrandosi a Dio, esse mostrano che vale la pena fidarsi completamente di Dio. Questa confidenza si esprime con una preghiera concorde assidua, solidale con gli altri, pienamente fiduciosa verso Dio che ci conosce nell’intimo e si prende cura di noi al punto che – dice Gesù – “perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura” (Mt 10, 30-31).
       Infine, con la Liturgia delle Ore queste donne consacrate mettono in evidenza che “la nostra preghiera è pubblica e comune: e quando noi preghiamo, preghiamo non per uno solo, ma per tutto quanto il popolo: e ciò perché noi, tutto l'intero popolo, siamo uno” (San Cipriano, De oratione dominica, 8). In questo modo, esse mettono in pratica l’insegnamento di unità che Cristo, Principe della pace e e fondamento della concordia, chiede a ciascuno di noi suoi fratelli e sorelle di pregare per tutti come Lui fece per tutti noi.



Lettura Patristica
San Cipriano di Cartagine
De oratione dominica 8


Il Dottore della pace e il Maestro dell’unità non vuole che la preghiera si faccia individualmente e in privato, nel senso che chi prega preghi solo per sé.
       Non diciamo: Padre mio, che sei nei cieli; e neppure: dammi oggi il mio pane quotidiano; e ciascuno non domanda che gli sia rimesso solo il suo debito; né prega solo per sé affinché non sia indotto in tentazione e sia liberato dal male.
       La nostra preghiera è pubblica e comune: e quando noi preghiamo, preghiamo non per uno solo, ma per tutto quanto il popolo: e ciò perché noi, tutto intero il popolo, siamo uno.
       Il Dio della pace e il Maestro della concordia, che ha insegnato l’unità, vuole che uno preghi per tutti, così come in uno egli portò tutti.
       Proprio questa legge della preghiera osservarono i tre fanciulli gettati nella fornace ardente: essi pregarono in piena consonanza, spiritualmente uniti in un cuor solo. Ce lo testimonia la divina Scrittura, la quale, indicandoci come essi pregavano, ci dà il modello da imitare noi nelle nostre preghiere affinché possiamo essere come quelli. "Allora" - sta scritto - "loro tre, come con una sola voce, cantavano un inno e benedicevano Iddio" (Da 3,51). Essi pregavano come con una sola voce, e tuttavia Cristo non aveva ancora insegnato loro a pregare! Ebbene, la loro preghiera fu efficace, poté essere esaudita, perché una preghiera pacifica, semplice e spirituale attira la benevolenza di Dio.

       Così vediamo che pregarono anche gli apostoli, riuniti coi discepoli, dopo l’ascensione del Signore. "E tutti" - sta scritto - "perseveravano unanimi nella preghiera, con le donne, e Maria la madre di Gesù, e con i fratelli di lui" (Ac 1,14). Persevera vano unanimi nella preghiera, testimoniando in tal modo, in questa loro preghiera, e l’assiduità e il loro amore scambievole: ché Dio, il quale fa abitare nella stessa casa coloro che sono una sola anima (Ps 67,7), non ammette nella divina ed eterna dimora se non quelli che pregano essendo un’anima sola.

venerdì 1 settembre 2017

Rinnegare se stessi non è scelta per la morte, ma per la vita

Rito Romano
XXII Domenica del Tempo Ordinario - 3 settembre 2017


Rito Ambrosiano
I Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.



1) Scegliere la Croce è scegliere la Vita.
Nel Vangelo di Domenica scorsa ci è stato ricordato che Simone, il pescatore di Cafarnao ha professato che Gesù di Nazareth è il Messia. Grazie a questa fede ha ricevuto da Cristo il nome di Pietro e l’autorità di essere la pietra di fondamento a servizio dell’amore e della verità nella Chiesa.
Nel Vangelo di oggi, che è la diretta continuazione del brano di domenica scorsa, ci è raccontato che Pietro è rimproverato da Cristo perché non capisce e non accetta che il Messia abbia la Croce come passaggio necessario per la risurrezione. Quando, oggi, Gesù spiega che dovrà “andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Mt 16,21).
Tutto sembra rovesciarsi nel cuore e nella mente di Pietro. Gli pare impossibile che “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16), possa patire fino alla morte. Il primo degli apostoli si ribella, non accetta questa strada, prende la parola e dice al Maestro: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16, 22). Appare evidente la divergenza tra il disegno d’amore del Padre, che arriva fino a donare suo Figlio Unigenito sulla croce per salvare l’umanità, e le attese, i desideri, i progetti dei discepoli.
Si può confessare che Gesù è Figlio di Dio, e tuttavia non accorgersi che Lui è un Dio di amore, di amore crocifisso. Prigioniero ancora della logica degli uomini, Pietro tenta di impedire che Gesù si conformi alla logica di Dio. E allora Gesù risponde al discepolo, che pochi istanti prima aveva chiamato pietra di fondazione e che ora con la sua obiezione diventa pietra di scandalo (= inciampo) : “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16, 23).
 Percorrere le strade secondo i pensieri degli uomini è mettere da parte Dio, è non accettare il suo progetto di amore, quasi impedirgli di compiere il suo sapiente volere. Oggi Gesù ci ripete che “il cammino dei discepoli è un seguire Lui, [andare dietro a Lui], il Crocifisso. In tutti e tre i Vangeli spiega tuttavia questo seguirlo nel segno della croce … come il cammino del “perdere se stesso”, che è necessario per l’uomo e senza il quale non gli è possibile trovare se stesso” (Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Milano 2007, 333).
Con ciò Cristo descrive il suo cammino, che - attraverso la croce - lo conduce alla resurrezione. E’ il “cammino” del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Con il cammino della Croce, con la Via Crucis, via carica di amore, Gesù rivela l’essenza dell’amore. Lasciamoci amare da chi ci ama dalla Croce.
Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento, il Messia rivela che il potere vero, quello di Dio, è quello di amare donando se stesso fino alla morte: è la supremazia della tenerezza e i poteri del mondo saranno impotenti contro di essa: il terzo giorno Cristo è risorto dalla morte.




2) Rinnegarsi vuol dire abbandonarsi totalmente a Cristo
Accettando volontariamente la morte per amore, Gesù prende la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità che è invitata a capire che rinnegarsi vuol dire gettarsi nelle braccia di Cristo in Croce e ricevere da Lui la vita.
Sulla Croce infatti, la nostra debolezza è consegnata a Cristo che ha il potere di farne il tabernacolo del suo amore tenero, onnipotente e vittorioso.  «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (San Cirillo di Gerusalemme, Catechesi XIII,1 su Cristo crocifisso e sepolto, PG 33, 772 B).
È chiaro a questo punto che cosa significhi veramente seguire Gesù, l’imperativo che ancora una volta egli ricorda ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24) .
Rinnegare se stessi significa rinunciare alla propria idea di Dio, per accettare quella di Gesù.
Rinnegare se stessi non è una scelta per la morte, ma per la vita, per la bellezza e per la gioia. È seguire il Verbo di Dio per imparare il linguaggio del vero amore. Seguendo Cristo che si svela Dio nell’amore e nel dono di sé, impariamo anche cambiare la logica della nostra esistenza: non più una vita vissuta a vantaggio proprio, ma una vita vissuta in dono. È questa fondamentalmente la logica della Croce, sia per Gesù sia per i suoi discepoli.
Rinnegare se stessi per mettersi alla sequela di Gesù “significa prendere la propria croce - tutti l’abbiamo… - per accompagnarlo nel suo cammino, un cammino scomodo che non è quello del successo, della gloria passeggera, ma quello che conduce alla vera libertà, quella che ci libera dall’egoismo e dal peccato. Si tratta di operare un netto rifiuto di quella mentalità mondana che pone il proprio “io” e i propri interessi al centro dell’esistenza: questo non è ciò che Gesù vuole da noi! Invece, Gesù ci invita a perdere la propria vita per Lui, per il Vangelo, per riceverla rinnovata, realizzata e autentica” (Papa Francesco, Discorso all’Angelus del 13 settembre 2015)
Rinnegare se stessi vuol dire “perdere” la propria vita per Cristo e in Cristo, per riceverla rinnovata, realizzata e autentica, perché seguire la Croce conduce alla risurrezione, alla vita piena e definitiva con Dio.
Rinnegare se stessi è accettare di essere creta malleabile nella mani creative di Dio che fa di noi vasi di grazia e di amore.
Rinnegare se stessi vuol dire rinunciare ai nostri fragili pensieri e incostanti sentimenti per avere in noi i sentimenti di Cristo.
Rinnegare se stessi vuol dire lasciare tutto per seguire Lui, il nostro Maestro e Signore che si è fatto Servo di tutti. Vuol dire camminare dietro a Lui e ascoltarlo attentamente nella sua Parola e nei Sacramenti, per imparare a sentire come Lui sentiva, conformare il nostro modo di pensare, di decidere, ai sentimenti di Gesù, conformandosi a Lui e per essere “già come angeli su questa terra” (Sant’Ambrogio di Milano). Non nel senso che la nostra vita si sottragga alla realtà concreta, ma perché testimoniamo già oggi che il destino dell’uomo si gioca in riferimento a Cristo.
Ma il Santo Vescovo di Milano si spinge ancora oltre. Nel Commento al Vangelo di Luca, Sant’Ambrogio parla della “generazione di Cristo”. Spiegando il Magnificat dice: «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto, e perciò aveva ottenuto il frutto della sua fede. Beata tu che hai creduto (Lc 1,47). Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio, e ne comprende le opere. Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio; se infatti secondo la carne una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio, purché, serbandosi senza macchia e libera dal peccato, custodisca con perseverante pudore la purezza della vita”. (Expos. Evangelii sec. Lucam, II, 26-27). Da qui capiamo che il valore esemplare della verginità consacrata è quello di mostrare una fecondità che avviene nella verginità, e questa fecondità è proposta ad ogni credente. Concepire e generare il Verbo di Dio, infatti, significa avere gli stessi sentimenti di Cristo e riproporre nella nella vita i suoi gesti e le sue parole, facendo riaccadere la presenza di Cristo all’interno della sua Chiesa.


Lettura patristica
Imitazione di Cristo


La via regale della croce

       1) A molti sembrano assai dure queste parole: «Sacrifica te stesso, prendi la tua croce e segui Gesù» (
Mt 16,24). Ma saranno assai più aspre queste estreme parole: "Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno!" (Mt 25,41).

       Quelli che adesso ascoltano e praticano le parole circa la croce, allora (al giudizio finale) non temeranno di sentirsi gridare quelle altre parole di eterna dannazione.

       Quando il Signore verrà all’ultimo giudizio, "
allora comparirà nel cielo il segno del figlio dell’uomo (la croce)" (Mt 24,30).

       Allora tutti i servi della Croce, che in questa vita imitarono il Crocifisso, si avvicineranno a Cristo giudice con grande fiducia.

       2) Perché dunque hai tanta paura di accostarti alla croce, per mezzo della quale si va al regno?

       Nella croce vi è la salvezza, nella croce la vita, nella croce la protezione dai nemici. Attraverso la croce viene infusa nell’anima la celeste soavità, vien data la robustezza alla mente, gaudio allo spirito. Nella croce vi è il compendio delle virtù, nella croce la perfezione della santità. Non vi è salvezza per l’anima, né speranza di vita eterna se non nella croce.

       Prendi su dunque la tua croce e segui Gesù; e andrai alla vita eterna.

       Ti ha preceduto Lui portando la sua croce, ed è morto Lui prima in croce, affinché anche tu porti la tua croce e muoia volentieri sulla croce; ché se lo imiterai morendo come Lui, lo imiterai anche vivendo parimenti con Lui. E se gli sarai stato compagno nella pena, lo sarai anche nella gloria.

       3) Tutto dunque si riduce alla croce e al morire sulla croce e per giungere alla vita e alla vera pace interna non vi è altra via che quella della santa croce e della quotidiana mortificazione.

       Va’ pure dove vuoi, cerca pure quello che ti pare, ma non troverai lassù una via più alta e quaggiù una via più sicura che la via della croce.

       Disponi pure e comanda che tutto sia fatto secondo la tua volontà e il tuo parere, ma non potrai che fare questa constatazione: bisogna sempre soffrire qualche cosa o per amore o per forza: vedi dunque che sempre troverai la croce. Difatti: ora dovrai patire qualche dolore nelle membra, ora dovrai subire qualche tribolazione di spirito nell’anima.

       4) Talvolta ti sentirai oppresso per l’abbandono di Dio; talvolta sarai tormentato dal prossimo, e, quel che è più, spesso tu stesso sarai di fastidio a te.

       E non potrai sollevarti un po’ o liberarti dal male con qualche rimedio o con qualche conforto, ma ti toccherà sopportare finché a Dio piacerà; poiché Dio vuole che tu impari a soffrire il dolore senza consolazione e che tu ti sottometta a lui senza riserva e che soffrendo tu diventi più umile.

       Nessuno partecipa con tanto cordoglio alla passione di Gesù, se non colui a cui sarà toccato di patire qualche cosa di simile a lui.

       La croce dunque è sempre pronta e ti aspetta dappertutto. Per quanto tu scappi via non potrai mai sfuggirle; anche perché, dovunque tu vada, per lo meno porterai appresso te e sempre troverai te stesso. Guarda pure in alto, guarda pure in basso, guarda pure fuori, guarda pure dentro... in ogni punto troverai sempre la croce. Ed è necessario che dappertutto tu porti pazienza se vuoi mantenere in te la pace e meritare l’immortale corona.

       5) Ma se tu la porti volentieri, la croce porterà te; e ti condurrà alla desiderata meta, ove, cioè, non c’è più da soffrire, anche se questo non sarà certo quaggiù.

       Se invece tu la porti con ripugnanza, la troverai più pesante e aggraverai di più la tua pena, mentre poi non risolvi niente, perché già, tanto, non puoi fare a meno di portarla. Se poi getti via una croce, ne troverai senza dubbio un’altra, e forse più gravosa.