Rito
Romano - Anno C – 8 maggio 2016
At
1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28;10,19-23; Lc 24,46-53
Rito
Ambrosiano
At
1, 6-13a; Sal 46; Ef 4, 7-13; Lc 24, 36b-53
Ascensione:
elevazione,
innalzamento,
esaltazione.
Per
celebrare la festa dell'Ascensione, la Liturgia per l’ Anno C ci
propone il racconto di San Luca che descrive questo evento con il
verbo “essere portato su”, cioè “elevato”, quindi
“esaltato”.
Seguendo
l’insegnamento di questo Evangelista, comprendiamo che l’Ascensione
ha un doppio aspetto. Il primo è quello del salire in alto verso il
Padre (“Veniva portato su verso il cielo”), precisando così che
la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi
un passo all'indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un
passo in avanti, nella gloria di Dio. Il secondo è quello della
partenza: l’Ascensione è presentata quindi anche come un distacco
(“Si staccò da loro”). Gesù ritira la sua presenza visibile,
sostituendola con una presenza nuova, invisibile, che tuttavia è più
profonda. Si tratta di una presenza che si coglie nella fede,
nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane (cioè la Messa)
e nella fraternità.
Come
ho fatto notare all’inizio di queste riflessioni, San Luca narra il
fatto dell’ascensione, presentandola come l’“esaltazione” di
Gesù (cfr Lc 24,50-53 e At 1,1-11). Questo
innalzamento verso il cielo è –secondo me- strettamente connesso
con l’elevazione di Cristo sulla Croce, che diventa il trono della
sua esaltazione. In entrambi i casi, Cristo dice parola di
misericordia, perdono e benedizione.
In
tutte e due le elevazioni non si tratta della fine della relazione
tra Gesù e i suoi discepoli, e tutte due sono fonte di gioia. Certo
la gioia provocata dal Cristo “portato su” la croce venne dopo
tre giorni, mentre quella di oggi è immediata. Tutte e due gli
innalzamenti mostrano bene lo scopo redentivo di Cristo: l’Amore
vince la morte, perdona il peccato e apre il Paradiso: il cuore del
Padre è la dimora del Figlio e dei figli nel Figlio.
Gesù,
il
Verbo
di
Dio,
si
è
incarnato
per
portare
Dio
e
il
suo
amore
sulla
Terra.
Questo
amore
è
come
la
calamita
che
attira
Dio
all’uomo
e
l’uomo
a
Dio:
“Chi
mi
ama,
osserverà
la
mia
Parola
e
il
Padre
e
io
verremo
a
lui
e
prenderemo
la
nostra
dimora
presso
di
lui,
in
lui”
(Gv
14,
24).
A
questa
“discesa”
fa
seguito
l’
“ascesa”
del
Figlio
di
Dio
che
ritorna
nella
dimora
del
Padre.
Con
l’ascensione,
l’umanità
di
Cristo
è
trasferita
nel
cuore
delle
divinità.
“Immersa
nell’essere
della
divinità
questa
umanità
ora
prende
parte
alle
proprietà
di
Dio,
così
come
un
ferro
incandescente
partecipa
alle
proprietà
del
fuoco”
(H.U.
von
Balthasar).
Come
l’ascensione-elevazione
di
Cristo
non
fu
per
i
discepoli
di
circa
duemila
anni
uno
spettacolo,
ma
un
avvenimento
in
cui
loro
stessi
furono
inseriti,
così
oggi
per
noi
l’innalzamento
di
Cristo
è
un
sursum
corda,
cioè
un
“in
alto
i
nostri
cuori”,
un
movimento
verso
l’alto,
a
cui
tutti
siamo
chiamati.
Si
tratta
di
un
evento
che
ci
dice
che
l’essere
umano
può
vivere
davvero
quando
è
rivolto
verso
l’alto.
L’essere
umano
è
capace
dell’altezza,
e l'altezza che
sola
corrisponde
alla
misura
dell’uomo
è
l’altezza
di
Dio
stesso.
Ed
è
per
questo
che
la
colletta
della
Messa
di
oggi
ci
fa
pregare
così:”Concedi,
o
Dio
onnipotente,
a
noi
i
quali
crediamo
che
il
tuo
unico
Figlio,
nostro
Redentore,
è
oggi
salito
al
cielo,
che
pure
noi
possiamo
dimorarvi
con
il
nostro
spirito”.
Ancora
una volta la Liturgia ci pone dinanzi il primato di Dio. Papa
Francesco ha detto: “L’Ascensione di Gesù al cielo ci fa
conoscere questa realtà così consolante per il nostro cammino: in
Cristo, vero Dio e vero uomo, la nostra umanità è stata portata
presso Dio; lui ci ha aperto il passaggio; è come un capo cordata
quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a
sé conducendoci a Dio”.
Quindi
l’ascensione per gli apostoli e, ora, per noi, è prima di tutto
uno sguardo contemplativo all’amore che unisce il Padre ed il
Figlio. La frase di San Luca nel vangelo di oggi: “Gesù fu portato
su verso il cielo” ci fa fissare lo sguardo su questo evento: il
Figlio torna al Padre che è in cielo. Il cielo è “immagine” del
Padre, è il luogo della sua casa, della sua presenza, della sua
comunione. Il Figlio Risorto non può che andare innanzitutto dal
Padre. E noi figli nel Figlio impariamo che la salvezza non consiste
in una propria presunta maggior grandezza o importanza, ma in questo
esodo, in questo ritorno di amore su, in alto, verso Dio.
Missione come
testimonianza, cioè
come martirio.
Il
compito dei discepoli, quelli di allora e noi oggi, non si riduce a
guardare il cielo o conoscere i tempi e i momenti nascosti nel
segreto di Dio. Il compito dei discepoli fino alla fine dei tempi è
di portare la testimonianza di Cristo fino ai confini della terra.
Il
Figlio di Dio, che ha comunione con il Padre, non la tiene come
geloso possesso per sé, anzi la offre ai discepoli e li invita ad
essere testimoni di essa fino agli estremi confini della terra.
L’ascensione non è la fine della storia, ma la apre ad una
fecondità inaspettata, perché diventi, per grazia divina e azione
umana, il grembo della nuova vita di comunione con Dio.
L’ascensione
ci annuncia che la vera questione non consiste nel prolungare la
storia, bensì nel salire con Cristo verso il Padre, consapevoli che
ognuno di noi “abita non dove sta il corpo, ma dove sta il cuore”
(Sant’Agostino d’Ippona).
Per
questo gli apostoli non rimasero sul monte a guardare il cielo, ma
ubbidendo al comando amoroso di Cristo si fecero testimoni della
comunione trinitaria che dà forma e vita alla comunione degli uomini
fra di loro, in cammino per raggiungere il cielo.
Non
dimentichiamo che Il testimone (in greco marturos= martire) è
chi è in grado di fare una deposizione, cioè di raccontare il fatto
al quale ha assistito di persona. Dunque, l’ambiente originario
della testimonianza è il dibattito processuale. Gli Apostoli hanno
personalmente visto gli eventi di Gesù (“queste cose”) e sono
perciò in grado di testimoniarli. La parola “testimone” ha però
allargato il suo significato. Ora non indica più soltanto chi parla
di un fatto a cui ha assistito. Il termine “testimone” è usato
spesso per indicare una persona che dà il buon esempio, ma il
Vangelo chiede di essere testimoni affermando coraggiosamente una
cosa in cui crede profondamente, pronti ad affermarla anche con il
sacrificio di se stessi. In questo senso, il vero testimone è il
martire che attesta con il dono della vita la verità che ha
incontrato e amato.
Dunque,
il testimone (=martire) è caratterizzato da un profondissimo legame
a Cristo, che è per eccellenza il Martire dell’amore e della
verità: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al
mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37).
L’amore è la causa che ha spinto il Redentore a dare la sua vita
(cfr 1 Gv 4,8). Verità e amore sono
inseparabili, perché l’amore diventa autentico soltanto se è
vero. E la forza della verità si svolge nell’amore. Questa doppia
dimensione è molto presente nella testimonianza dei martiri. Cristo
si è rivelato come la verità (cfr Gv 14,6) e questa verità
diventa credibile attraverso l’amore (cfr Gv 15,13).
A
questo riguardo, credo utile ricordare che se il martire è il
discepolo, che si rende simile al Maestro perché accetta liberamente
la morte per la salvezza dei fratelli e sorelle in umanità, la
verginità può essere considerata una forma di martirio. In effetti,
la verginità consacrata implica in modo ordinario –non
straordinario come nel martirio di sangue- una vita totalmente
identificata con l’offerta di Cristo, Agnello immacolato.
La
vergine consacrata nel mondo rende testimonianza a Cristo Signore con
il dono del propria vita quotidianamente rinnovato e vissuto nel
quotidiano lavoro nel e per il mondo. Con la sua consacrazione la
vergine nel mondo dice l’assoluto di Dio nel frammento dell’amore
quotidianamente vissuto nella lode a Dio e nel servizio di
misericordia per i poveri.
La
vergine consacrata offre il suo corpo come “cielo” per Cristo e
si fa tabernacolo vivente di chi ha fatto il cielo.
La
vergine consacrata rende particolarmente vera questa preghiera di San
Gregorio di Nazianzo: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei
creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo,
riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero
brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi
io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non
hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non
fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Lettura
Patristica
Sant’Agostino
d’Ippona (354 – 430)
Discorso
sull’Ascensione del Signore
PLS
2, 494-495
Nessuno
è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso
dal cielo
Oggi
nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il
nostro cuore.
Ascoltiamo
l’apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo,
cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di
Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,
1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche
noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia
ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo
è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte
le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede
assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi
perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete
dato da mangiare» (Mt 25, 35).
Perché
allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da
riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro
Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo,
infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi,
similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può
assumere questo comportamento in forza della sua divinità e
onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri
divini, ma per l’amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il
cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi,
quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà
testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è
mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il
Figlio dell’uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa
affermazione fu pronunciata per sottolineare l’unità tra lui
nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile
atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che
egli è il Figlio dell’uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per
lui.
Così
si esprime l’Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il
corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur
essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,
12). L’Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così
anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò
egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se
non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così
non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non
perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché
l’unità del corpo non sia separata dal capo.
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