Rito romano
X domenica del
Tempo Ordinario – Anno C- 9 giugno 2013
1
Re 17,17-24; Sal 29; Gal 1,11-19; Lc 7,11-17
Gesù
resuscita il figlio della vedova di Naim
Rito
ambrosiano
III
Domenica di Pentecoste
Gen
3,1-20; Sal 129; Rm 5,18-21; Mt 1,20b-24b
1)
Un Dio presente e compassionevole
Dio
non solamente è, ma è presente, è il Dio con noi, che si fa
incontro e che, commosso dal dolore di una madre, la vedova di Naim,
le ridona il figlio risuscitandolo.
Dio
è sì l’“eccelso”
(Sal 112/113, 4), che “siede
nell’alto”
(ibid.,5) e che deve chinarsi perché “più
alta dei cieli è la sua gloria”
(ibid.,
4), ma si abbassa con premura verso di noi e “solleva
dall’indigenza della polvere”
(ibid.,
6). Anche oggi il vangelo ci mostra che l’Emmanuele, il Dio con
noi, si china sulla sofferenza di una donna vedova, umiliata
dall’antica società, perché senza marito e senza figlio era
considerata come ramo inutile e secco.
Con
questo miracolo di compassione Gesù manifesta ancora una volta di
essere venuto a portare nel mondo Dio, la gioia e la pace. Inoltre
compie un gesto che è “segno” che permette di riconoscere in Lui
il vero inviato di Dio. Soltanto Dio, padrone della vita e della
morte, può richiamare i morti alla vita, e se Gesù lo compie con la
propria autorità, dimostra di essere di “natura divina”: Lui, il
Figlio, agisce in piena comunione con il Padre.
In
questo gesto di Gesù si può anche vedere la profezia del momento in
cui la Vergine Maria, vedova di Giuseppe, piangerà sulla morte di
Gesù, suo unico Figlio, che la compassione del Padre le restituirà
risuscitandolo il giorno di Pasqua.
Anche
la Chiesa è una madre afflitta, che spesso piange per le colpe dei
suoi figli morti per il peccato, e per questo è necessario che i
fedeli preghino continuamente perché i peccatori si pentano, si
convertano e risorgano a nuova vita.
Dio,
ricco di misericordia, ha compassione di tutti e non disprezza noi
sue creature peccatrici, l’importante che il nostro essere polvere
si lasci irrorare dalle lacrime di Cristo e nelle mani creative di
Dio saremo rifatti creature nuove: figli.
La
compassione di Dio e, dunque la nostra, non è riducibile ad
un’emozione: è un giudizio, è una partecipazione al destino delle
persona che soffre per almeno alleviare la sua sofferenza.
L’amore di
Dio si muove nella logica della compassione. Cosa vuol dire che
l’amore di Dio è un amore di compassione? Che Dio ci vede in una
condizione nella quale non ci aveva creati, ma nella quale ci siamo
messi con il nostro peccato: quella di persone condannate alla morte.
Fortunatamente chinandosi nel suo cuore di Dio comincia una profonda
commozione, una profonda partecipazione al nostro destino. Questa
compassione di Dio si chiama misericordia. Ma come può Dio compatire
(patire insieme con)? Egli com-patisce, prendendo la nostra stessa
natura umana, in questa condizione di morte e di miseria. Egli
com-patisce consolando, guarendo e, oggi, risuscitando il figlio
unico della madre vedova. Così il corteo dolente di Naim, sorpreso
dalla gioia, si unisce al corteo festoso di Gesù.
E’
un fatto stupefacente che Dio assuma la nostra povera e mortale
natura umana. Ed è umanamente comprensibile l’impressionante brano
scritto da Celso (filosofo pagano del III secolo d.C.). Questo
pensatore aveva sentito parlare della partecipazione di Dio al nostro
destino, e commenta così questa per lui strana, incredibile notizia:
“Se
alcuni (i Cristiani) sostengono che un Dio o un figlio di Dio è
disceso sulla terra, questa è, fra tutte le pretese, la più
vergognosa, e non c’è bisogno di un lungo discorso per
respingerla. Ma quale senso può avere per un Dio un viaggio come
questo? Dovrebbe forse servire a lui per sapere cosa accade fra gli
uomini? Ma Dio non sa tutto? E’ dunque incapace, presupposta la sua
potenza divina, di indagare gli uomini senza spedire corporalmente
qualcuno? Senza venire egli in mezzo a noi? Se, come affermano i
Cristiani, egli è venuto per aiutare gli uomini ad entrare nella
vita, allora veramente dicono qualcosa che non può essere sostenuto
se non da persone pazze. Non dico nulla di nuovo, ma cose risapute da
tempo. Dio è buono, è bello, è felice, si trova in una situazione
ottima e bellissima, ma se egli, come dite voi Cristiani, scende
verso gli uomini, significa che si assoggetta ad un cambiamento, e
questo cambiamento, per lui, sarà fatalmente da buono a cattivo, da
bello a brutto, da felice ad infelice. Ma chi vorrebbe un cambiamento
simile? E’ impossibile che questo sia accaduto!”.
Umanamente
parlando questo amore di Dio che viene a condividere il nostro
destino: “mi
ha amato e ha dato se stesso per me”
è uno scandalo. Ed è umanamente inconcepibile che una Vergine
concepisca per opera dello Spirito Santo il Figlio di Dio da chiamare
Gesù
(= Dio salva): “egli
infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”
(cfr Vangelo ambrosiano di oggi).
Ed è altrettanto umanamente inconcepibile che l’apostolo Paolo
scriva:
“Dio
dimostra il suo amore verso di noi, perché Cristo è morto per noi”.
Ma
l’incarnazione, la passione, morte e resurrezione di Cristo non
sono un pensiero, sono dei fatti realmente accaduti. La vita di
Cristo è un evento dentro la nostra storia, un avvenimento
straordinario: la compassione di Dio per ciascuno di noi e per tutta
l’umanità. La compassione divina significa commozione per il
nostro destino, partecipazione al nostro destino, condivisione del
nostro destino attraverso l’assunzione della nostra natura umana e,
quindi, della nostra stessa morte.
2)
Il cristiano non sceglie la sofferenza, sceglie l’amore.
Per
intercessione della Madonna, Gesù ci doni la forza di saperLo
seguire sulla strada della Croce, che è la legge di ogni vita, che è
la legge di ogni vero amore, che è – ora – soprattutto la legge
della vera amicizia con Cristo.
Gesù,
che ha consolato la Vedova di Naim dicendole teneramente “Non
piangere”, ci dia la forza di soffrire in pace; di piangere in
pace; di sentirci maltrattati in pace; di morire in pace.
Nella
sua visione dell’Apocalisse S. Giovanni vide davanti al trono
dell’Agnello, cioè di Cristo, un’immensa moltitudine di persone
biancovestite, con una palma tra le mani. Domandò chi fossero: “Essi
sono coloro che vennero dalla tribolazione e hanno reso bianche le
loro vesti nel sangue dell’Agnello [cioè nella croce e nel
dolore]. Perciò ora sono davanti al trono di Dio. Essi non avranno
più né fame né sete, né il sole mai tramonterà per essi. E
l’Agnello li condurrà per sempre alla sorgente della vita, della
felicità, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”
(Ap
7,14-17). Quando siamo nel dolore, facciamo memoria di questa visione
di S. Giovanni, e confortiamoci al pensiero che “Dio
asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi”
(Ap
21,4).
Un
modo non cruento di vivere il martirio è la verginità. Secondo
Sant’Ambrogio di Milano la verginità consacrata nasce da Cristo
vergine e da Maria vergine, che si donarono completamente al Padre
con il martirio della croce l’uno e dell’anima trafitta dal
dolore l’altra.
La
Verginità consacrata è una risposta libera a Cristo. Egli chiama
alcune donne al dono completo di se stesse a Lui e, quale ricompensa,
dona a queste donne non tanto la stima sociale, ma l’esperienza di
vera intimità con Lui nella fede.
La
loro consacrazione è un grande atto di amore in risposta all’immenso
amore di Dio (cfr n 36 del Rito di Consacrazione delle Vergini, altra
formula di benedizione finale) : “
Dio ha fatto nascere et crescere in vostri cuori la decisione di
consacrarli la vostra vita. La sua grazia vi aiuti a respondere
giorno dopo giorno alle esigenze della vostra vocazione. Vi renda
segno e testimonienzia del suo amore. Vi conceda di vivere in
pieneza, nel cielo, questa alleanza inaugurata sulla terra con
Cristo”.
S.
Gregorio Magno, Commento a Giobbe, 19,68-69; 21,30
“Talvolta
la mano é più pronta a dare che il cuore a compatire”
Sebbene
la vera compassione stia nell’usare le proprie ricchezze per le
sofferenze del prossimo, talvolta però, quando uno ha grande
disponibilità di mezzi, può avvenire che la
mano sia più pronta a dare che il cuore a compatire.
In realtà chi vuol dare perfettamente, oltre al porgere aiuto
all’afflitto, fa suo anche il suo stato d’animo, e prima prende
su di sé la sofferenza del paziente e poi somministra il rimedio al
suo dolore. Poiché spesso i soccorsi provengono solo dal fatto
dell’abbondanza di mezzi e non da virtuosa compassione. Infatti chi
perfettamente compatisce l’afflitto spesso soccorre l’indigente
mettendo se stesso nelle difficoltà. Allora é piena la compassione
del nostro cuore quando per amor del prossimo non temiamo di
accettare la povertà per liberarlo dalla sua sofferenza.
Cristo,
modello di condivisione e compassione
Questo
modello di pietà ce l’ha dato il Mediatore fra Dio e gli uomini.
Egli poteva salvarci anche senza morire, ma preferì soccorrerci
morendo, perché ci avrebbe amato di meno se non avesse preso su di
sé le nostre ferite; né ci avrebbe dimostrato l’intensità del
suo amore se Egli non avesse sostenuto quel male che voleva togliere
a noi. Ci trovò passibili e mortali, ma lui che ci aveva creati
dal
nulla, avrebbe potuto liberarci dai patimenti anche senza morire.
Invece, per mostrare quanto era
grande
la forza della sua compassione, si degnò di diventare lui quello che
non voleva fossimo noi, e sostenne in sé la morte temporale per
espellere da noi la morte eterna. Forse che restando invisibile a
noi, con le ricchezze della sua divinità, non avrebbe potuto
arricchirci colle sue meravigliose risorse? Ma per far riavere
all’uomo le ricchezze interiori, Dio si degnò di apparire povero
all’esterno. Perciò il grande predicatore Paolo, per accenderci in
cuore una generosa compassione disse: “Si
fece povero per noi, sebbene fosse ricco...”.
Talvolta diciamo che vale di più la compassione del cuore che il
dono materiale perché chi perfettamente compatisce l’indigente, da
meno importanza a tutto quello che da.
“E
meno povero chi è senza vestito che chi è senza umiltà”
Chi
nel soccorrere il prossimo si da aria d’importanza, commette
internamente un peccato di superbia che vince in proporzione il
merito della buona opera esteriore, e resta lui nudo al di dentro,
mentre disprezza il nudo che riveste al di fuori, e diventa
peggiore di prima col credersi migliore del prossimo indigente.
Infatti é
meno povero chi é senza vestito, che chi é senza umiltà.
Perciò quando vediamo la miseria esteriore dei nostri fratelli,
dobbiamo riflettere quanto sia grande la nostra miseria interiore, e
allora non ci verrà da insuperbire su di loro, vedendo chiaro che al
di dentro noi siamo realmente più miserabili di loro.
***
Propongo
anche una bellissima poesia di Clemente Rebora, che ci narra la
compassione di Dio descrivendo il momento supremo di questa
compassione, cioè la morte di Cristo:
“Gesù
manda il gran grido.
Rende
lo spirito al Padre.
Immenso
silenzio improvviso;
via
fugge, snidata, la morte;
addensate
sul giorno
le
tenebre, il sole le squarcia;
si
squarcia il velo del tempio.
Immobile
è tutto,
un
istante che è eterno:
il
Sangue solo si muove,
l’inesausto
amor del Signore,
che
pende regale
aperte
le braccia ai fratelli
verso
la Madre nel parto.
Ora
ascende, ascende il Calvario,
paradiso
pieno di dolore:
in
un gemer tutto il creato,
la
terra sussulta,
si
spezzan le pietre,
nelle
tombe esultano i santi;
rincasa
la gente, battendosi il petto,
poca
rimane, rapita nel pianto;
i
crocifissi languenti
stan
come assorti.
E
nell’immane momento
il
centurione, di fronte alla croce,
sgomento,
dice, gloriando, coi suoi:
“Veramente
era il Figlio di Dio”.”
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