venerdì 7 giugno 2013

Come asciugare le lacrime ed essere sorpresi dalla gioia.

Rito romano
X domenica del Tempo Ordinario – Anno C- 9 giugno 2013
1 Re 17,17-24; Sal 29; Gal 1,11-19; Lc 7,11-17
Gesù resuscita il figlio della vedova di Naim

Rito ambrosiano
III Domenica di Pentecoste
Gen 3,1-20; Sal 129; Rm 5,18-21; Mt 1,20b-24b




1) Un Dio presente e compassionevole
Dio non solamente è, ma è presente, è il Dio con noi, che si fa incontro e che, commosso dal dolore di una madre, la vedova di Naim, le ridona il figlio risuscitandolo.
Dio è sì l’“eccelso” (Sal 112/113, 4), che “siede nell’alto” (ibid.,5) e che deve chinarsi perché “più alta dei cieli è la sua gloria” (ibid., 4), ma si abbassa con premura verso di noi e “solleva dall’indigenza della polvere” (ibid., 6). Anche oggi il vangelo ci mostra che l’Emmanuele, il Dio con noi, si china sulla sofferenza di una donna vedova, umiliata dall’antica società, perché senza marito e senza figlio era considerata come ramo inutile e secco.
Con questo miracolo di compassione Gesù manifesta ancora una volta di essere venuto a portare nel mondo Dio, la gioia e la pace. Inoltre compie un gesto che è “segno” che permette di riconoscere in Lui il vero inviato di Dio. Soltanto Dio, padrone della vita e della morte, può richiamare i morti alla vita, e se Gesù lo compie con la propria autorità, dimostra di essere di “natura divina”: Lui, il Figlio, agisce in piena comunione con il Padre.
In questo gesto di Gesù si può anche vedere la profezia del momento in cui la Vergine Maria, vedova di Giuseppe, piangerà sulla morte di Gesù, suo unico Figlio, che la compassione del Padre le restituirà risuscitandolo il giorno di Pasqua.
Anche la Chiesa è una madre afflitta, che spesso piange per le colpe dei suoi figli morti per il peccato, e per questo è necessario che i fedeli preghino continuamente perché i peccatori si pentano, si convertano e risorgano a nuova vita.
Dio, ricco di misericordia, ha compassione di tutti e non disprezza noi sue creature peccatrici, l’importante che il nostro essere polvere si lasci irrorare dalle lacrime di Cristo e nelle mani creative di Dio saremo rifatti creature nuove: figli.
La compassione di Dio e, dunque la nostra, non è riducibile ad un’emozione: è un giudizio, è una partecipazione al destino delle persona che soffre per almeno alleviare la sua sofferenza.
L’amore di Dio si muove nella logica della compassione. Cosa vuol dire che l’amore di Dio è un amore di compassione? Che Dio ci vede in una condizione nella quale non ci aveva creati, ma nella quale ci siamo messi con il nostro peccato: quella di persone condannate alla morte. Fortunatamente chinandosi nel suo cuore di Dio comincia una profonda commozione, una profonda partecipazione al nostro destino. Questa compassione di Dio si chiama misericordia. Ma come può Dio compatire (patire insieme con)? Egli com-patisce, prendendo la nostra stessa natura umana, in questa condizione di morte e di miseria. Egli com-patisce consolando, guarendo e, oggi, risuscitando il figlio unico della madre vedova. Così il corteo dolente di Naim, sorpreso dalla gioia, si unisce al corteo festoso di Gesù.
E’ un fatto stupefacente che Dio assuma la nostra povera e mortale natura umana. Ed è umanamente comprensibile l’impressionante brano scritto da Celso (filosofo pagano del III secolo d.C.). Questo pensatore aveva sentito parlare della partecipazione di Dio al nostro destino, e commenta così questa per lui strana, incredibile notizia: “Se alcuni (i Cristiani) sostengono che un Dio o un figlio di Dio è disceso sulla terra, questa è, fra tutte le pretese, la più vergognosa, e non c’è bisogno di un lungo discorso per respingerla. Ma quale senso può avere per un Dio un viaggio come questo? Dovrebbe forse servire a lui per sapere cosa accade fra gli uomini? Ma Dio non sa tutto? E’ dunque incapace, presupposta la sua potenza divina, di indagare gli uomini senza spedire corporalmente qualcuno? Senza venire egli in mezzo a noi? Se, come affermano i Cristiani, egli è venuto per aiutare gli uomini ad entrare nella vita, allora veramente dicono qualcosa che non può essere sostenuto se non da persone pazze. Non dico nulla di nuovo, ma cose risapute da tempo. Dio è buono, è bello, è felice, si trova in una situazione ottima e bellissima, ma se egli, come dite voi Cristiani, scende verso gli uomini, significa che si assoggetta ad un cambiamento, e questo cambiamento, per lui, sarà fatalmente da buono a cattivo, da bello a brutto, da felice ad infelice. Ma chi vorrebbe un cambiamento simile? E’ impossibile che questo sia accaduto!”. 

Umanamente parlando questo amore di Dio che viene a condividere il nostro destino: “mi ha amato e ha dato se stesso per me” è uno scandalo. Ed è umanamente inconcepibile che una Vergine concepisca per opera dello Spirito Santo il Figlio di Dio da chiamare Gesù (= Dio salva): “egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (cfr Vangelo ambrosiano di oggi). Ed è altrettanto umanamente inconcepibile che l’apostolo Paolo scriva: 
“Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché Cristo è morto per noi”.
Ma l’incarnazione, la passione, morte e resurrezione di Cristo non sono un pensiero, sono dei fatti realmente accaduti. La vita di Cristo è un evento dentro la nostra storia, un avvenimento straordinario: la compassione di Dio per ciascuno di noi e per tutta l’umanità. La compassione divina significa commozione per il nostro destino, partecipazione al nostro destino, condivisione del nostro destino attraverso l’assunzione della nostra natura umana e, quindi, della nostra stessa morte. 

2) Il cristiano non sceglie la sofferenza, sceglie l’amore.
Per intercessione della Madonna, Gesù ci doni la forza di saperLo seguire sulla strada della Croce, che è la legge di ogni vita, che è la legge di ogni vero amore, che è – ora – soprattutto la legge della vera amicizia con Cristo.
Gesù, che ha consolato la Vedova di Naim dicendole teneramente “Non piangere”, ci dia la forza di soffrire in pace; di piangere in pace; di sentirci maltrattati in pace; di morire in pace.
Nella sua visione dell’Apocalisse S. Giovanni vide davanti al trono dell’Agnello, cioè di Cristo, un’immensa moltitudine di persone biancovestite, con una palma tra le mani. Domandò chi fossero: “Essi sono coloro che vennero dalla tribolazione e hanno reso bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello [cioè nella croce e nel dolore]. Perciò ora sono davanti al trono di Dio. Essi non avranno più né fame né sete, né il sole mai tramonterà per essi. E l’Agnello li condurrà per sempre alla sorgente della vita, della felicità, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7,14-17). Quando siamo nel dolore, facciamo memoria di questa visione di S. Giovanni, e confortiamoci al pensiero che “Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi” (Ap 21,4).
Un modo non cruento di vivere il martirio è la verginità. Secondo Sant’Ambrogio di Milano la verginità consacrata nasce da Cristo vergine e da Maria vergine, che si donarono completamente al Padre con il martirio della croce l’uno e dell’anima trafitta dal dolore l’altra.
La Verginità consacrata è una risposta libera a Cristo. Egli chiama alcune donne al dono completo di se stesse a Lui e, quale ricompensa, dona a queste donne non tanto la stima sociale, ma l’esperienza di vera intimità con Lui nella fede.
La loro consacrazione è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio (cfr n 36 del Rito di Consacrazione delle Vergini, altra formula di benedizione finale) : “ Dio ha fatto nascere et crescere in vostri cuori la decisione di consacrarli la vostra vita. La sua grazia vi aiuti a respondere giorno dopo giorno alle esigenze della vostra vocazione. Vi renda segno e testimonienzia del suo amore. Vi conceda di vivere in pieneza, nel cielo, questa alleanza inaugurata sulla terra con Cristo”.


Lettura Patristica seguita da una poesia
S. Gregorio Magno, Commento a Giobbe, 19,68-69; 21,30

Talvolta la mano é più pronta a dare che il cuore a compatire”
Sebbene la vera compassione stia nell’usare le proprie ricchezze per le sofferenze del prossimo, talvolta però, quando uno ha grande disponibilità di mezzi, può avvenire che la mano sia più pronta a dare che il cuore a compatire. In realtà chi vuol dare perfettamente, oltre al porgere aiuto all’afflitto, fa suo anche il suo stato d’animo, e prima prende su di sé la sofferenza del paziente e poi somministra il rimedio al suo dolore. Poiché spesso i soccorsi provengono solo dal fatto dell’abbondanza di mezzi e non da virtuosa compassione. Infatti chi perfettamente compatisce l’afflitto spesso soccorre l’indigente mettendo se stesso nelle difficoltà. Allora é piena la compassione del nostro cuore quando per amor del prossimo non temiamo di accettare la povertà per liberarlo dalla sua sofferenza.

Cristo, modello di condivisione e compassione
Questo modello di pietà ce l’ha dato il Mediatore fra Dio e gli uomini. Egli poteva salvarci anche senza morire, ma preferì soccorrerci morendo, perché ci avrebbe amato di meno se non avesse preso su di sé le nostre ferite; né ci avrebbe dimostrato l’intensità del suo amore se Egli non avesse sostenuto quel male che voleva togliere a noi. Ci trovò passibili e mortali, ma lui che ci aveva creati
dal nulla, avrebbe potuto liberarci dai patimenti anche senza morire. Invece, per mostrare quanto era
grande la forza della sua compassione, si degnò di diventare lui quello che non voleva fossimo noi, e sostenne in sé la morte temporale per espellere da noi la morte eterna. Forse che restando invisibile a noi, con le ricchezze della sua divinità, non avrebbe potuto arricchirci colle sue meravigliose risorse? Ma per far riavere all’uomo le ricchezze interiori, Dio si degnò di apparire povero all’esterno. Perciò il grande predicatore Paolo, per accenderci in cuore una generosa compassione disse: “Si fece povero per noi, sebbene fosse ricco...”. Talvolta diciamo che vale di più la compassione del cuore che il dono materiale perché chi perfettamente compatisce l’indigente, da meno importanza a tutto quello che da.

 “E meno povero chi è senza vestito che chi è senza umiltà” 
Chi nel soccorrere il prossimo si da aria d’importanza, commette internamente un peccato di superbia che vince in proporzione il merito della buona opera esteriore, e resta lui nudo al di dentro, mentre  disprezza il nudo che riveste al di fuori, e diventa peggiore di prima col credersi migliore del prossimo indigente. Infatti é meno povero chi é senza vestito, che chi é senza umiltà. Perciò quando vediamo la miseria esteriore dei nostri fratelli, dobbiamo riflettere quanto sia grande la nostra miseria interiore, e allora non ci verrà da insuperbire su di loro, vedendo chiaro che al di dentro noi siamo realmente più miserabili di loro.

***
Propongo anche una bellissima poesia di Clemente Rebora, che ci narra la compassione di Dio descrivendo il momento supremo di questa compassione, cioè la morte di Cristo:

Gesù manda il gran grido.
Rende lo spirito al Padre.
Immenso silenzio improvviso;
via fugge, snidata, la morte;
addensate sul giorno
le tenebre, il sole le squarcia;
si squarcia il velo del tempio.
Immobile è tutto,
un istante che è eterno:
il Sangue solo si muove,
l’inesausto amor del Signore,
che pende regale
aperte le braccia ai fratelli
verso la Madre nel parto.
Ora ascende, ascende il Calvario,
paradiso pieno di dolore:
in un gemer tutto il creato,
la terra sussulta,
si spezzan le pietre,
nelle tombe esultano i santi;
rincasa la gente, battendosi il petto,
poca rimane, rapita nel pianto;
i crocifissi languenti
stan come assorti.
E nell’immane momento
il centurione, di fronte alla croce,
sgomento, dice, gloriando, coi suoi:
Veramente era il Figlio di Dio”.

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