sabato 2 luglio 2022

La vita è vocazione ad una missione di carità.

 

XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 luglio 2022

Rito Romano

Is 66,10-14; Sal 65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20 [forma breve: Lc 10,1-9]

Rito Ambrosiano

Gs 24,1-2a.15b-27: Sal 104; 1Ts 1,2-10: Gv 6,59-69

 VII Domenica dopo Pentecoste


1) Cristiani cioè Missionari.

Il Vangelo di Domenica scorsa ci ha ricordato che siamo stati chiamati a essere veri discepoli di Cristo mettendo il Redentore al di sopra di ogni affetto, di ogni gioia. Oggi siamo chiamati a vivere la comunione con Lui non come rifugio o come fuga dal mondo, ma come missione e compito per collaborare con Lui a redimere il mondo. Il suo compito diventa la nostra missione.

Questa missione non riguarda solamente alcuni, ma tutti i discepoli di Gesù, cioè tutti noi. Dunque, tutti noi siamo chiamati a essere missionari cioè a portare l’annuncio della Buona e lieta Notizia della presenza di un Dio che si è fatto uno di noi per farci come Lui, che è ricco di misericordia. La misericordia di Dio arriva agli uomini attraverso la testimonianza di coloro che l’hanno conosciuta e sperimentata nella loro propria persona.

Cristo chiama per mandare a portare questo annuncio di verità, carità e speranza. La missione di Gesù è di salvare il mondo con un amore che fino a quel momento non conoscevamo, salvare tutti, senza esclusione e con amore vero. Questo annuncio non consiste in primo luogo nell’insegnare verità e dottrine, ma nell’annunciare una Presenza che è incontrabile, e che fa vivere, agire e pensare in modo nuovo: da fratelli e sorelle.

In effetti, le parole “missionario” e “apostolo” derivano una dal latino e l’altra dal greco, e vogliono dire “mandato”, “inviato”. Ognuno di noi è “inviato” ai fratelli. Quindi, la dimensione missionaria, apostolica, è essenziale per ogni cristiano e si realizza seguendo Cristo e andando verso il prossimo.

Per questo quando diciamo che la Chiesa è apostolica, non intendiamo dire soltanto che è fondata sugli apostoli, ma la pianta delle Chiesa si sviluppa da quel seme che sono gli apostoli di duemila anni fa. Se è vero che la missione è l’aspetto fondamentale della Chiesa, è altrettanto vero che è anche l’aspetto fondamentale di ciascuno di noi. In effetti, in quanto figli di Dio siamo chiamati a testimoniare il nostro essere figli, facendoci fratelli degli altri sulle strade del mondo.

 2) Pellegrini quindi missionari.

  E’ una delle caratteristiche dell’Evangelista Luca quella di descrivere Cristo in un atteggiamento di pellegrino, che non è riducibile a quello del viandante, perché la via per lui non è solo un mezzo per arrivare al fine ma un modo di essere, di vivere, tipico di chi sa che la terra non è la sua stabile dimora.

Il Cristiano è un viandante che si fa pellegrino con Cristo, che insegna che la nostra vita è un cammino con Lui, per imparare a donarsi per amore, come ha fatto Lui, che è la strada e la gioia.

A questo cammino ci invita anche Papa Francesco: “Sempre in cammino con quella virtù 
che è una virtù pellegrina: la gioia!”. Virtù che ci rende credibili ed esprime l’esperienza di misericordia e di appartenenza al Dio vero e amoroso.

In questo cammino possiamo lasciarci guidare da due frasi del Nuovo Testamento.

La prima è quella di Gesù che si definisce “Via”: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). La seconda è quella che definisce i cristiani chiamati “quelli della via” (tou odòs) (At 9,2), che è tradotto con “i seguaci della dottrina di Cristo”. “Quelli della via” è il primo nome che è dato ai discepoli di Cristo: sono quelli che si sono messi per strada a seguire questo nuovo Maestro, che ha fatto una fine vergognosa e che è risorto. La via cristiana è quindi una strada (Cristo) da percorrere tenendo fisso un obiettivo, quello di seguire Cristo, di conformarci a Lui. Il fine diventa un percorso: seguire Cristo è la via. E’ vivere la vita con il cuore che cammina, che tende a Dio con i passi interiori della preghiera e porta agli altri la carità.

A questo riguardo San Gregorio Magno scrive: “Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, ci indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a due. Perché due sono i precetti della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare. (Hom., 17, 1-4.7 s.)

3) Vergini e pellegrine.

Le persone chi in modo speciale fanno propria la spiritualità della vita come via, come pellegrinaggio sono le Vergini Consacrate nel mondo.

La verginità è la modalità propria di Cristo di amare e queste donne testimoniano che è possibile rispondere all’amore di Cristo con il dono totale di se stessi. In effetti, il vero amore non è dare delle cose, dei beni materiali, ma dare se stessi. Il vero amore di Dio è che lo si ama per quello che è non per quello che ha.

La verginità è anche la modalità di amare di Maria, la prima ad essere lieta non per quello che faceva ma perché certa che il suo nome era scritto nel cuore di Dio, che aveva guardato all’umile ancella.

Come Maria Vergine, Madre della Via e Arca dell’Alleanza, ha camminato sui monti di Giudea per portare Gesù e la sua gioia alla cugina Elisabetta, sulle strade d’esilio per salvare il Figlio di Dio, sulla via del Calvario per diventare nostra Madre, così le Vergini consacrate vivono portando nel mondo Gesù, attraverso la loro vita vissuta verginalmente e semplicemente.

Come Maria portò al mondo Cristo che portava sotto il suo cuore, così le Vergini consacrate portano al mondo il vangelo e la salvezza di Cristo che portano nel loro cuore. E’ un cuore dedicato solo a Lui e al suo regno. Per questo Regno di Dio occorrono persone che, a cuore pieno di Dio, si dedichino alla venuta di questo Regno. La verginità consacrata è sempre missionaria e non riguarda soltanto i consacrati che di fatto vanno in terre lontane ad annunciare il Vangelo, ma tutte le vergini.

Come per Maria la verginità non significa sterilità, ma, al contrario, fecondità massima, così queste donne consacrate mostrano che ci può essere e c’è una fecondità su un piano diverso da quello fisico.

La prima volta che la verginità compare nella storia della salvezza, è associata alla nascita di un bambino: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio...” (Is 7, 14). La tradizione della Chiesa ha colto questo legame, associando costantemente il titolo di vergine a quello di madre. Maria è la Vergine Madre; la Chiesa è vergine e madre. “Uno è il Padre di tutti uno anche il Verbo di tutti, uno e identico è lo Spirito Santo e una sola è la vergine madre: così io amo chiamare la Chiesa” (S. Clemente Alessandrino). Infine, ogni anima, e in particolare ogni anima consacrata, è vergine e madre: “Ogni anima credente, sposa del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta, a suo modo, vergine e feconda” (Ibid.)

Le persone consacrate ci ricordano che se è vero che il cammino-pellegrinaggio di Gesù è stato il suo amore fino alla fine, è altrettanto vero che il cammino-pellegrinaggio dietro a Gesù è quello dell’amore sponsale. Il rito di consacrazione delle Vergini è chiamato nel dizionario di liturgia, “consacrazione matrimoniale a Gesù Cristo”. Ognuna di questa donne è quindi chiamata “sponsa Christi”. E’ vero che ogni persona cristiana è sposa di Cristo, ma alle vergini consacrate è chiesto di esserlo in maniera eminente. Loro devono vivere e testimoniare l’unione sponsale con Cristo Gesù in modo pio, casto, devoto e totale. La verginità consacrata permette loro di essere finestre trasparenti tra la Chiesa e il mondo, lasciando passare la luce vera dell’amore misericordioso.


Lettura Patristica

Gregorio Magno

Hom., 17, 1-4.7 s.

       Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, c’indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a due. Perché son due i precetti della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare.

       È detto bene che "li mandò innanzi a sé in ogni città e villaggio, love egli pensava di recarsi" (Lc 10,1). Il Signore, infatti, va dietro ai suoi predicatori, perché prima arriva la predicazione nella nostra mente e poi vi arriva il Signore, quando si accetta la verità. Perciò Is dice ai predicatori: "Preparate la via del Signore, raddrizzate le vie di Dio" (Is 40,3)...

       Sentiamo ora che cosa dice il Signore ai suoi predicatori: "La messe è molta, ma gli operai son pochi. Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe" (Lc 10,2). La messe è molta, ma gli operai son pochi. Non lo possiamo dire senza rammarico. Son molti quelli che son disposti a sentire, ma son pochi a predicare. Il mondo è pieno di sacerdoti ma nella messe è difficile trovarci un operaio, perché abbiamo accettato l’ufficio sacerdotale, ma non facciamo il lavoro del nostro ufficio. Ma riflettete, riflettete, fratelli, alle parole: "Pregate il padrone della messe, che mandi operai alla sua messe". Pregate per noi, perché possiamo lavorare adeguatamente per voi, perché la nostra lingua non desista dall’esortare, perché, dopo aver preso l’ufficio della predicazione, il nostro silenzio non ci condanni. Spesso infatti la lingua tace per colpa dei predicatori; ma succede anche altre volte che, per colpa di chi deve sentire, la parola vien meno a chi deve parlare. A volte la parola manca per la cattiveria del predicatore, come dice il Salmista: "Dio disse al peccatore: Perché osi parlare della mia giustizia?" (Ps 49,16); e alle volte il predicatore è impedito per colpa degli uditori, come in Ezechiele: "Farò attaccare la tua lingua al tuo palato e sarai muto, e non potrai rimproverare, perché è una casa che esaspera" (Ez 3,26). Come se dicesse: Ti tolgo la parola, perché un popolo che mi esaspera con le sue azioni, non è degno che gli si porti la verità. Non è facile, quindi, discernere per colpa di chi vien tolta la parola al predicatore; ma è certo che il silenzio del pastore, se qualche volta è dannoso al pastore stesso, al suo gregge lo è sempre...

       Colui che prende l’ufficio di predicare, non deve fare il male ma lo deve tollerare, perché con la sua mansuetudine, gli riesca di mitigare l’ira di quelli che infieriscono contro di lui, e lui ferito riesca con le sue pene a guarire negli altri le ferite dei peccati. E anche se lo zelo della giustizia vuole che talvolta egli sia severo con gli altri, il suo furore deve nascere da amore e non da crudeltà; ed ami con amore paterno, quando col castigo difende i diritti della disciplina. E questo il superiore lo dimostra bene, quando non ama se stesso, non cerca cose del mondo, non piega il suo collo al peso di terreni desideri...

       "L’operaio è degno della sua mercede" (Lc 10,7), perché gli alimenti fanno parte della mercede, in modo che qui cominci la mercede della fatica della predicazione, che sarà compiuta in cielo con la visione della Verità. Il nostro lavoro, dunque, ha due mercedi, una qui nel viaggio e un’altra nella patria: una che ci sostiene nel lavoro, l’altra che ci premia nella risurrezione. La mercede che riceviamo qui però ci deve rendere più forti per la seconda. Il predicatore perciò non deve predicare per ricevere una mercede temporale, ma deve accettare la mercede, perché possa continuare a predicare. E chiunque predica per una mercede di lode o di danaro, si priva della mercede eterna. Colui invece che, quando parla, desidera di piacere, non perché lui sia amato, ma perché il Signore sia amato, e accetta uno stipendio solo perché non venga poi meno la voce della predicazione, certamente questi non sarà premiato meno nella patria perché ha accettato un compenso in questa vita.

       Ma che facciamo noi pastori, non posso dirlo senza dolore, che facciamo noi che prendiamo la mercede dei pastori e non ne facciamo il lavoro? Mangiamo ogni giorno il pane della santa Chiesa, ma non lavoriamo affatto per la Chiesa eterna. Riflettiamo quale titolo di dannazione sia il prendere il salario d’un lavoro senza fare il lavoro. Viviamo con le offerte dei fedeli, ma dov’è il lavoro per le loro anime? Prendiamo come paga ciò che i fedeli danno in sconto dei loro peccati, ma non ci diamo da fare con l’impegno della preghiera e della predicazione, come sarebbe giusto, contro quegli stessi peccati.



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