Rito Romano - Anno C – 29 maggio 202
At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28;10,19-23; Lc 24,46-53
Rito Ambrosiano
At 1, 6-13a; Sal 46; Ef 4, 7-13; Lc 24, 36b-53
Ascensione: elevazione, innalzamento, esaltazione.
Per celebrare la festa dell'Ascensione, la Liturgia per l’ Anno C ci propone il racconto di San Luca che descrive questo evento con il verbo “essere portato su”, cioè “elevato”, quindi “esaltato”.
Seguendo l’insegnamento di questo Evangelista, comprendiamo che l’Ascensione ha un doppio aspetto. Il primo è quello del salire in alto verso il Padre (“Veniva portato su verso il cielo”), precisando così che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all'indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio. Il secondo è quello della partenza: l’Ascensione è presentata quindi anche come un distacco (“Si staccò da loro”). Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile, che tuttavia è più profonda. Si tratta di una presenza che si coglie nella fede, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane (cioè la Messa) e nella fraternità.
Come ho fatto notare all’inizio di queste riflessioni, San Luca narra il fatto dell’ascensione, presentadola come l’“esaltazione” di Gesù (cfr Lc 24,50-53 e At 1,1-11). Questo innalzamento verso il cielo è –secondo me- strettamente connesso con l’elevazione di Cristo sulla Croce, che diventa il trono della sua esaltazione. In entrambi i casi, Cristo dice parola di misericordia, perdono e benedizione.
In tutte e due le elevazioni non si tratta della fine della relazione tra Gesù e i suoi discepoli, e tutte due sono fonte di gioia. Certo la gioia provocata dal Cristo “portato su” la croce venne dopo tre giorni, mentre quella di oggi è immediata. Tutte e due gli innalzamenti mostrano bene lo scopo redentivo di Cristo: l’Amore vince la morte, perdona il peccato e apre il Paradiso: il cuore del Padre è la dimora del Figlio e dei figli nel Figlio.
Gesù, il Verbo di Dio, si è incarnato per portare Dio e il suo amore sulla Terra. Questo amore è come la calamita che attira Dio all’uomo e l’uomo a Dio: “Chi mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre e io verremo a lui e prenderemo la nostra dimora presso di lui, in lui” (Gv 14, 24). A questa “discesa” fa seguito l’ “ascesa” del Figlio di Dio che ritorna nella dimora del Padre. Con l’ascensione, l’umanità di Cristo è trasferita nel cuore delle divinità. “Immersa nell’essere della divinità questa umanità ora prende parte alle proprietà di Dio, così come un ferro incandescente partecipa alle proprietà del fuoco” (H.U. von Balthasar).
Come l’ascensione-elevazione di Cristo non fu per i discepoli di circa duemila anni uno spettacolo, ma un avvenimento in cui loro stessi furono inseriti, così oggi per noi l’innalzamento di Cristo è un sursum corda, cioè un “in alto i nostri cuori”, un movimento verso l’alto, a cui tutti siamo chiamati. Si tratta di un evento che ci dice che l’essere umano può vivere davvero quando è rivolto verso l’alto. L’essere umano è capace dell’altezza, e l'altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso. Ed è per questo che la colletta della Messa di oggi ci fa pregare così:”Concedi, o Dio onnipotente, a noi i quali crediamo che il tuo unico Figlio, nostro Redentore, è oggi salito al cielo, che pure noi possiamo dimorarvi con il nostro spirito”.
Ancora una volta la Liturgia ci pone dinanzi il primato di Dio. Papa Francesco ha detto: “L’Ascensione di Gesù al cielo ci fa conoscere questa realtà così consolante per il nostro cammino: in Cristo, vero Dio e vero uomo, la nostra umanità è stata portata presso Dio; lui ci ha aperto il passaggio; è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio”.
Quindi l’ascensione per gli apostoli e, ora, per noi, è prima di tutto uno sguardo contemplativo all’amore che unisce il Padre ed il Figlio. La frase di San Luca nel vangelo di oggi: “Gesù fu portato su verso il cielo” ci fa fissare lo sguardo su questo evento: il Figlio torna al Padre che è in cielo. Il cielo è “immagine” del Padre, è il luogo della sua casa, della sua presenza, della sua comunione. Il Figlio Risorto non può che andare innanzitutto dal Padre. E noi figli nel Figlio impariamo che la salvezza non consiste in una propria presunta maggior grandezza o importanza, ma in questo esodo, in questo ritorno di amore su, in alto, verso Dio.
2) Missione come testimonianza, cioè come martirio.
Il compito dei discepoli, quelli di allora e noi oggi, non si riduce a guardare il cielo o conoscere i tempi e i momenti nascosti nel segreto di Dio. Il compito dei discepoli fino alla fine dei tempi è di portare la testimonianza di Cristo fino ai confini della terra.
Il Figlio di Dio, che ha comunione con il Padre, non la tiene come geloso possesso per sé, anzi la offre ai discepoli e li invita ad essere testimoni di essa fino agli estremi confini della terra. L’ascensione non è la fine la storia, ma la apre ad una fecondità inaspettata, perché diventi, per grazia divina e azione umana, il grembo della nuova vita di comunione con Dio.
L’ascensione ci annuncia che la vera questione non consiste nel prolungare la storia, bensì nel salire con Cristo verso il Padre, consapevoli che ognuno di noi “abita non dove sta il corpo, ma dove sta il cuore” (Sant’Agostino d’Ippona).
Per questo gli apostoli non rimasero sul monte a guardare il cielo, ma ubbidendo al comando amoroso di Cristo si fecero testimoni della comunione trinitaria che dà forma e vita alla comunione degli uomini fra di loro, in cammino per raggiungere il cielo.
Non dimentichiamo che Il testimone (in greco marturos= martire) è chi è in grado di fare una deposizione, cioè di raccontare il fatto al quale ha assistito di persona. Dunque, l’ambiente originario della testimonianza è il dibattito processuale. Gli Apostoli hanno personalmente visto gli eventi di Gesù (“queste cose”) e sono perciò in grado di testimoniarli. La parola “testimone” ha però allargato il suo significato. Ora non indica più soltanto chi parla di un fatto a cui ha assistito. Il termine “testimone” è usato spesso per indicare una persona che dà il buon esempio, ma il Vangelo chiede di essere testimoni affermando coraggiosamente una cosa in cui crede profondamente, pronti ad affermarla anche con il sacrificio di se stessi. In questo senso, il vero testimone è il martire che attesta con il dono della vita la verità che ha incontrato e amato.
Dunque, il testimone (=martire) è caratterizzato da un profondissimo legame a Cristo, che è per eccellenza il Martire dell’amore e della verità: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). L’amore è la causa che ha spinto il Redentore a dare la sua vita (cfr 1 Gv 4,8). Verità e amore sono inseparabili, perché l’amore diventa autentico soltanto se è vero. E la forza della verità si svolge nell’amore. Questa doppia dimensione è molto presente nella testimonianza dei martiri. Cristo si è rivelato come la verità (cfr Gv 14,6) e questa verità diventa credibile attraverso l’amore (cfr Gv 15,13).
A questo riguardo, credo utile ricordare che se il martire è il discepolo, che si rende simile al Maestro perché accetta liberamente la morte per la salvezza dei fratelli e sorelle in umanità, la verginità può essere considerata una forma di martirio. In effetti, la verginità consacrata implica in modo ordinario –non straordinario come nel martirio di sangue- una vita totalmente identificata con l’offerta di Cristo, Agnello immacolato.
La vergine consacrata nel mondo rende testimonianza a Cristo Signore con il dono del propria vita quotidianamente rinnovato e vissuto nel quotidiano lavoro nel e per il mondo. Con la sua consacrazione la vergine nel mondo dice l’assoluto di Dio nel frammento dell’amore quotidianamente vissuto nella lode a Dio e nel servizio di misericordia per i poveri.
La vergine consacrata offre il suo corpo come “cielo” per Cristo e si fa tabernacolo vivente di chi ha fatto il cielo.
La vergine consacrata rende particolarmente vera questa preghiera di San Gregorio di Nazianzo: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)
Discorso sull’Ascensione del Signore
PLS 2, 494-495
Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo
Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l’apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25, 35).
Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l’amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l’unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell’uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così si esprime l’Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12, 12). L’Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l’unità del corpo non sia separata dal capo.