venerdì 30 aprile 2021

Gesù è la vite, attraverso di Lui l’amore di Dio passa a noi suoi tralci

 

V Domenica di Pasqua - Anno B 2 maggio 2021

Rito Romano

At 9,26-31; Sal 21; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

Rito Ambrosiano

At 7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54; Sal 117; 1Cor 2,6-12; Gv 17,1b-11

1) Rimanere nell’amore di Cristo, nell’essere amati e nell’amare il Signore.

Nel Vangelo di oggi Cristo dice di se stesso che è la Vite e invita i discepoli – di allora e di oggi – a rimanere in Lui come Lui rimane in noi. La prima risposta a questo invito  è di chiederGli di darci la grazia di essere degni del fatto che Lui abiti in noi. L’audacia di questa domanda ha il suo fondamento in ciò che è stato detto da Dio stesso: Lui ha promesso di abitare, di rimanere nel cuore di chi è retto e sincero. “Un cuore che nessuna intenzione equivoca può sviare; un cuore fermo che resiste ad ogni avversità; un cuore libero che nessuna passione violenta può soggiogare” (cfr San Tommaso d’Aquino).

Il verbo “rimanere”[1] è un verbo chiave del quarto vangelo e significa prendere dimora, fondare un legame stabile, abitare. Rimanere con Cristo, abitare con lui Amando lui e dimorando in lui, portiamo il suo stesso frutto: diventiamo come lui, partecipando alla sua vita e alla pienezza della sua gioia. Rimanere nel Signore, che ci ha reso popolo in se stesso, nel suo Corpo e col suo Sangue.

Non stanchiamoci di meditare questo mistero, cioè

  • che Dio stesso si fa Corpo, uno con noi; Sangue, uno con noi;

  • che Dio si è fatto uno con noi tutti e, nello stesso tempo, ci fa tutti uno, una vite che produce molto frutto;

  • che Dio è la nostra Casa e noi siamo chiamati ad essere sua casa.

Questo è il disegno di Dio: noi creature piccole, incoerenti e peccatrici, siamo chiamate ad essere la dimora di Dio: la nostra casa è l’amore che il Padre ha per il Figlio.

Viene alla mente la meraviglia di re Salomone quando consacrò il tempio di Gerusalemme ed esclamò: “Ma è proprio vero che Dio abita in una casa sulla terra?” (1 Re 8, 27).

La meraviglia di Salomone non è niente di fronte allo stupore del cristiano per il fatto che Dio sceglie come sua dimora, come sua casa il nostro cuore, la nostra vita.

Questa decisione di Dio di farci sua dimora è stupenda, ma l’immensità dell’amore di Dio non può entrare nel nostro cuore, se Lui stesso non ci desse la grazia di accoglierlo. Quindi, non ci resta che domandare un cuore come quello di Maria, la Vergine Madre, l’umile Serva di Dio, la quale più di tutti ha fatto spazio nella sua vita al Signore, diventando anche fisicamente la Sua dimora di Dio.

L’importante è avere un cuore retto e sincero, come quello della Madonna, cioè un cuore che non ha altro desiderio, se non quello di essere una cosa sola con il Figlio di Dio venuto tra noi.

Per essere cristiani bisogna avere un grande e santo desiderio. È necessario desiderare con tutte le nostre forze di essere niente meno che il luogo in cui Dio abita, per poter noi stessi abitare in lui e, rimanendo in lui, avere i la sicurezza, la gioia, la misericordia e la pace.

Per dare un’immagine del rimanere, Gesù usa la metafora della vite e dei tralci: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla […]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,4-8). Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutto e questo frutto è l’amore e l’amore produce gioia.  Quindi credo sia giusto affermare che il vero frutto, segno della presenza di Dio, è la gioia. Appunto, la vite che produce il vino è il segno della gioia, dell’amore, del frutto che tutti dobbiamo produrre.

2) La vera Vite: Cristo, e noi in Lui.

L’affermazione di Gesù: “Io sono la vite” introduce una novità rispetto all’Antico Testamento, dove si afferma che Dio ha una vigna[2]  e si lamenta con la sua vite, cioè con il suo popolo: “Ma cosa ho fatto? Forse ho sbagliato qualcosa? Forse non ho avuto abbastanza cura di te? Perché mi fai questo e non produci i frutti?”.

Nell’Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Nel Nuovo Testamento si dice che Dio stesso è la vite. Nel Vangelo è insegnato che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, perché Gesù è la vite.

La vera vite è quella che produce frutto. Questa vite si contrappone alla vigna “falsa”, sterile, che non produce frutto.

E’ il dramma di Dio, non ha trovato un uomo che rispondesse al suo amore. Il primo uomo che risponde all’amore è il Figlio, il Figlio suo che diventa Figlio dell’uomo e lui è la vite, è il primo uomo che produce il frutto desiderato da Dio, che produce l’uva vera: il frutto dolce che è l’amore. Cristo è la vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli. Per questo è la vite vera.

E’ un dramma per Dio che questa vite non risponda alle sue cure, e si chiede: “Cosa dovevo fare che non abbia fatto?? E’ un vero dramma per Dio ed è questo dramma che verrà fuori anche nella parabola dei vignaioli come ci è raccontata da Marco al capitolo 12 e paralleli.

Questo dramma in Gesù si risolve, perché Lui è la vite, come Lui è la vita così Lui è la vite e produce frutto.

“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla […]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. (Gv 15,4-8).

Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti. I frutti principali sono il cambiamento e la gioia che lo stesso rimanere gratuitamente provoca.

Il rimanere con Gesù implica – come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello dell’essere – vivere come Gesù: “Chi dice di dimorare in Lui, deve comportarsi come Lui si è comportato” (1 Gv 2,6).  A questo punto, sorge una domanda ovvia: “Come è possibile comportarsi come Cristo, vero uomo ma anche vero Dio, l’Innocente che muore per i colpevoli?”. Restando attaccati a Lui, come tralci alla vite. In effetti, Gesù dice anche a noi: “Io-Sono la vite, voi i tralci”. Quindi se restiamo attaccati a Lui, allora portiamo molto frutto, cioè il suo stesso frutto, abbiamo la sua a stessa vita di Figlio, il suo stesso amore per il Padre, il suo stesso amore per i fratelli. Se restiamo uniti a Lui continuiamo la sua opera e la sua opera è dare vita e dare amore; se ci separiamo da Lui distruggo la sua opera e diamo frutti di morte.

Ma allora, come rimanere in lui? Come perseverare in questa adesione a Lui, vincendo la fragilità della nostra povera natura umana ferita ed infedele?.

Prima di tutto, chiedendo questo dono di “rimanere il lui”, Amore che diventa la nostra casa. Se non chiediamo, se non siamo mendicanti dell’Amore, non possiamo riceverlo in dono.

In secondo luogo, se cresciamo nella consapevolezza che per vivere in questa casa, dobbiamo abitarvi con il cuore pieno di riconoscenza. Dunque il sentimento da coltivare è la gratitudine, perché un cuore grato è un cuore fedele, lieto di essere amato da Dio e di amare i fratelli, lieto di essere amico di Cristo, che non vuole servi ma amici.  Ed essere amici di Gesù vuol dire accettare la sua Persona, vuol dire accettare il suo amore per noi, vuol dire amarLo e amare il nostro prossimo.

Un esempio speciale di questa accettazione di Cristo, di questa adesione a Lui è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne sono chiamate ad essere nel mondo testimoni della fedeltà di Dio che è il custode della loro.

Fedeli alla Parola rivolta a loro da Dio fin dal giorno del battesimo e che nel tempo ha preso la forma di una chiamata a vivere la vocazione cristiana nella forma particolare della consacrazione verginale.

Fedeli come spose al loro Sposo, perché la caratteristica delle dell’Ordo Virginum che è quella di vivere il loro essere spose di Cristo nella vigilante custodia della promessa di Gesù: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20) e nell’essere voce che, nella gratuità, responsabilità e libertà pura delle relazioni, grida alla Chiesa e al mondo: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!” (Mt 25,6).

Fedeli a Cristo, le donne dell’Ordo Virginum sono portatrici della Parola dell’Amato. E’ dall’amore sempre fedele di Dio che esse attingono forza nel perseverare nell’abbraccio la verginità per il Regno dei cieli (Mt 19,12) e si impegnano a vivere ogni giorno con autenticità e concretezza quell’Amore che manifesta il volto di Dio.

NOTE

[1] Il verbo rimanere (μένειν, menein,) s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento, di cui soltanto 12 nei Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. Il termine appare il più delle volte (43 dei 67 casi) nell’espressione composta rimanere in. Direi che si possono distinguere tre modalità dell’uso del verbo rimanere e delle espressioni ad esso collegate: innanzitutto l’uso semplicemente biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli spostamenti di Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni che ricorrono nei racconti degli incontri evangelici, come quelli con Giovanni e Andrea (Gv 1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42). E infine le formule contenute nei discorsi di Gesù o nelle Lettere: si tratta di inviti rivolti ai discepoli a rimanere in Lui, rimanendo nella sua parola e nel suo amore. Ci sono affermazioni in cui è indicato insieme il rapporto di Gesù con i discepoli e il rapporto di Gesù con il Padre e la comunione con il Padre e con il Figlio che è sperimentata dai discepoli.

[2] Si vedano, per esempio, Isaia 5, 1-7, il Salmo 80 e Osea 10.



Lettura Patristica

Sant’Ambrogio da Milano (339 – 397)

 Exameron III, V, 12, 49-52


La vite simbolo della nostra fecondità spirituale


       Saprai certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, così hai in comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che rallegra il cuore dell’uomo (
Ps 103,15). E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da procurarti letizia e giocondità. In te si trova la dolcezza della tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in te; in te stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la Scrittura dice: "Bevi l’acqua dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi" (Pr 5,15). Anzitutto nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre, chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta rigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per mezzo di questi, sale in alto.

       Del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire, mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà. Di essa dice bene il profeta: "
Hai trasportato la vite dall’Egitto e ne hai piantato le radici e la terra ne è stata riempita. La sua ombra ha ricoperto i monti e i suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e fino al fiume le sue propaggini" (Ps 79,9-12). E il Signore stesso parlò per bocca d’Is dicendo: "Il mio diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e la circondai d’un muro e vangai tutt’attorno la vigna di Sorec e nel mezzo vi innalzai una torre" (Is 5,1-2). La circondò infatti come con la palizzata dei comandamenti celesti e con la scolta degli angeli. Infatti "l’angelo del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono" (Ps 33,8). Pose nella Chiesa come la torre degli apostoli, dei profeti, dei dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La vangò tutt’intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla infatti grava la mente più delle preoccupazioni di questo mondo e dell’avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene mostrato nel Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva inferma, era così curva da non poter guardare in alto. Era curva la sua anima che, rivolta ai guadagni, non vedeva la grazia celeste. Gesù la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi terreni. Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai quali dice: "Venite a me tutti voi che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò" (Mt 11,28). L’anima di quella donna, come se le avessero scavato intorno la terra, poté respirare e si raddrizzò.

       Ma anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si tagliano quelli che ostentano un’inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l’esperto agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e ragguardevole, si senta superiore e nessuno, se povero, e di oscuri natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia per tutti un’unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e identica cortesia. Perciò nel mezzo si innalza una torre, per mostrare tutt’intorno l’esempio di quei contadini, di quei pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro esempio i nostri sentimenti si elevino, non giacciano a terra spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l’animo a ciò che sta sopra di noi e abbia il coraggio di dire: "
Ma la nostra cittadinanza è nei cieli" (Ph 3,20). Quindi, per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto dalla tempesta, ognuno, come fa la vite con i suoi viticci e le sue volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. È la carità che ci unisce a ciò che sta sopra di noi e ci introduce in cielo. "Se uno rimane nella carità, Dio rimane in lui" (1Jn 4,16). Perciò anche il Signore dice: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre frutto da solo, se non resta unito alla vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci" (Jn 15,4-5).


       Manifestamente il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere richiamato quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella, riscaldata dal tepore primaverile, dapprima comincia a gemmare, poi manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali nascendo l’uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi, conserva l’asprezza del prodotto immaturo e non può diventare dolce se non raggiunge la maturazione sotto l’azione del sole. Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto più dolce che vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d’un colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi frutti, il tempo dell’età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo suole essere senz’altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è cresciuto sino alla perfetta maturità. A quest’uomo perfetto solitamente non nuoce né il freddo della morte con il suo brivido né il sole dell’iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la grazia divina e spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti lodino tutti coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come ghirlande di tralci, contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della loro prudenza, dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro testimonianza, dalla bellezza della loro santa vita, dall’abbondanza della loro misericordia, così che ti possano dire: "
La tua sposa è come vite ricca di grappoli nell’interno della tua casa" (Ps 127,3), perché con l’esercizio di una generosa liberalità riproduci l’opulenza d’una vite carica di grappoli.


       


venerdì 23 aprile 2021

Il Pastore bello che offre la vita.

 

Il Pastore bello1 che offre la vita.


IV Domenica di Pasqua - Anno B – 25 aprile 2021

 

Rito Romano

At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10,11-18


Rito Ambrosiano

At 20,7-12; Sal 29; 1Tim 4,22-16; Gv 10,27-30



Premessa

Il Vangelo, che la Liturgia di questa domenica propone, è soltanto una parte del grande discorso di Gesù sui pastori. In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: lui dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dellunità. Nel paragrafo 1 di questa meditazione proporrò alcune brevi riflessioni su queste tre caratteristiche essenziali dellessere pastori, qui è utile ricordare la parte precedente del discorso sui pastori nella quale Gesù, prima di designarsi come Pastore, dice sorprendentemente: Io sono la porta (Gv 10, 7). È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: Chi … sale da unaltra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1). La parola sale evoca limmagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. Salire – si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare in alto, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi della Chiesa, non servirLa. È limmagine delluomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; limmagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non lumile servizio di Gesù Cristo. Ma lunica “salita” legittima verso il ministero del pastore è la croce. Cristo è la porta e la croce ne è la chiave.



1) Cristo, Pastore buono e Uomo nuovo.

In ogni persona umana c’è il desiderio di sconfiggere la morte e di vivere per sempre. Il Cristo risorto si pone come risposta vera e concreta a questo desiderio e il brano del Vangelo Gv 10, 11 – 18) di oggi ci insegna che se vogliamo la vita dobbiamo seguire il Pastore buono, che è Vita e che la dona incessantemente.

Infatti, in questo brano, Gesù stesso non solo spiega il significato dell’immagine del buon pastore, descrivendone l’identità (vv. 11-13) e la conoscenza esistente tra il pastore e il suo gregge (vv. 13-16), ma soprattutto sottolineando il gesto più bello: il dono della vita. Per cinque volte (Gv 10, 11.15.17.18) Gesù rivela di essere il Pastore per eccellenza mediante il dono della vita, che è offerta completamente.

Con l’espressione “donare la vita” Gesù non intende solamente la sua morte in Croce per noi, anche perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita va inteso, in primo luogo, nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Un dono di vita per noi, che Cristo ama al punto tale da sacrificare la vita sulla croce.

Dunque quando Cristo afferma: “Offro la vita” significa: “Vi do il mio modo di essere e di amare”. Quindi ci propone un modello di “uomo nuovo” che non è frutto di un’astrazione: è lui stesso, il Figlio che si sa amato dal Padre, che ama i fratelli e propone questa libertà di amare e di servire. Gli altri – dice Gesù - sono semplicemente ladri e briganti, prendono la vita delle pecore, non la danno a loro.

Il pastore buono è il pastore che ama. L’uomo buono è l’uomo che ama, imitando il buon Pastore.

Definendo se stesso come “buon pastore” e chiedendo di seguirlo, Gesù indica un modello di uomo nuovo che, da una parte, è disarmante e disarmato, dall’altro è pieno di coraggio perché affronta i lupi e la croce. Gesù è il pastore bello (che in greco si dice “kalòs” e che è stato tradotto con “buono”), perché la bellezza di Lui pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio.

Con quale bellezza Cristo ci attrae? Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io dono la mia vita. Gesù ci offre questo scambio: “la mia vita per la tua”. Il Dio incarnato è attraente e Sant’Agostino spiega “Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo”. Sempre Sant’’Agostino riguardo alla bellezza di Gesù Cristo scrive: “Perché anche nella croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (Cor 1,23-25) […] Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello il Verbo nato fanciullo […]. È bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita e bello nel riprenderla, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo […]. Suprema e vera bellezza è la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto, ovunque è bello. Venga a noi per farsi contemplare dagli occhi dello spirito”. 


2) La vocazione è dono per condividere.

Gesù Cristo ha ricevuto dal Padre questo comando di “donare”, che fa la vita bella e lieta: il dono fa la vita lieta perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” e perché con il dono non si è mai soli, si vive nell’esperienza gioiosa della condivisione e della comunione.

Ma il buon Pastore, che è bello e coraggioso, non ha semplicemente un ordine da eseguire ha un movente: l’amore del Padre e per noi. Questa carità è ciò che lo muove. Per Lui ogni essere umano è importante e per ciò dà la sua vita. Agli apostoli che sulla barca sballottata dal mare in tempesta Gli gridano: “Signore, non ti importa che moriamo?” il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: “Sì, mi importa di voi, mi importa la vostra vita, voi siete importanti per me”. In un certo senso, ripete a ciascuno noi: “Mi importano i passeri del cielo, ma tu vali più di molti passeri. Mi importano i gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l'assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora.

La vocazione è a vivere Cristo e diventare come Lui dono. Per salvare gli uomini e per insegnare loro il vero amore, il Figlio Dio si è “abbassato” fino a loro, e proprio in questo “abbassamento” ha offerto l'agape, cioè l'amore non possessivo ma “donativo”.

E’ bello dire di sì a Dio che chiama. E vero che da una parte occorre rinunciare a se stesi e darGli tutto, ma se ne riceve in cambio la vita eterna e cento volte tanto di tutto quello che si è lasciato per seguire Lui, il Signore.

La vocazione è un esodo, come ha recentemente ricordato Papa Francesco, da se stessi verso Dio in compagnia dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Alla radice di ogni vocazione cristiana – spiega il Papa – c’è proprio l’uscita “dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo”. Un’uscita che non rappresenta però “un disprezzo della propria vita del proprio sentire e della propria umanità”, anzi. La vocazione – spiega Papa Francesco citando l’enciclica “Deus Caritas est” di Benedetto XVI – è una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, innescando “un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé”.

Con l’offerta totale di se stesse, le Vergini consacrate nel mondo si abbandonano totalmente nel cuore di Cristo, loro Sposo, e testimoniano questo amore “oblativo”. Esse mostrano in modo particolare che il dono ricevuto diventa un dono offerto per la lode a Dio e la salvezza del mondo. Come lo ricorda il RCV: “La verginità consacrata manifesta più compiutamente l’amore verginale di Cristo per la Chiesa sua Sposa e la fecondità soprannaturale di questo spirituale unione”. Perché una vita non donata è arida, una vita donata è feconda di bene.

Infine è importante ricordare che questa vita donata nella spiritualità delle vergini consacrate nell’Ordo Virginum ha tratti caratteristici specifici. Questi tratti sono collegati almeno a tre immagini che la tradizione ha utilizzato per delineare la figura spirituale delle vergini consacrate e che il Rito di consacrazione tratteggia sul modello della Chiesa sposa, sorella e madre.

La figura della sposa rappresenta l’esperienza dell’unione intima e indissolubile con Cristo. La figura della sorella raccomanda l’impegno della condivisione con cui le vergini consacrate si pongono all’interno del contesto ecclesiale e sociale; la figura della madre allude alla fecondità della consacrazione che trova in Maria un’icona splendida e illuminante.


1 Nel Vangelo di oggi, Gesù si definisce per la prima volta in modo esplicito come il “buon pastore”. Il termine «buono» (così è tradotto l’aggettivo greco kalos, che vuol dire bello) è inteso nel senso di “generoso, ideale, genuino, vero”: egli è il pastore ideale annunziato nelle Scritture. Questo appellativo gli compete perché egli “(de)pone la vita per le sue pecore”. L’espressione viene ripetuta con qualche variazione ben cinque volte nel brano (Gv 10, 11.15.17.18). Il verbo “(de)porre” (tithêmi) è usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Gesù (de)pone/(es)pone la vita ‘per’ (hyper) le sue pecore. Questa frase richiama Mc 10,45 dove si dice che Gesù dà “la sua vita come riscatto ‘per’ (anti) molti”. Ma, mentre la preposizione hyper, usata da Giovanni, significa espressamente «in favore di», in Marco l’uso di anti (al posto di) dà adito all’idea di sostituzione, anche se nel greco ellenistico una distinzione netta tra preposizioni simili era scomparsa: in pratica le due espressioni si equivalgono. Inoltre il testo greco usa la parola “psyche”, che è tradotta con “vita”, ma letteralmente vuol dire “anima”. L’espressione “dare l’anima” esiste anche nelle lingue moderne. Quindi si può legittimamente intendere l’espressione: “dare la vita” :

1. come offerta di sé, 2. come mettere al mondo, e 3. come dare la vita eterna, perché spirituale e non solo materiale.


Lettura Patristica

Clemente di Alessandria,

da il Paedagogus, 83, 2 - 84, 3



Gesù, il Logos salvatore, pastore, pedagogo


       Le persone in buona salute non hanno bisogno del medico (Mt 9,12e parall.), almeno finché stanno bene; i malati al contrario richiedono la sua arte. Allo stesso modo, noi che in questa vita siamo malati di desideri riprovevoli, di intemperanze biasimevoli, di tutte le altre infiammazioni delle nostre passioni, abbiamo bisogno del Salvatore. Egli ci applica dolci medicamenti, ma del pari amari rimedi: le radici amare del timore bloccano le ulcere dei peccati. Ecco perché il timore, anche se amaro, è salutare.


       Dunque noi, i malati, abbiamo bisogno del Salvatore; gli smarriti, di colui che ci guiderà; i ciechi, di colui che ci darà la vista; gli assetati, della sorgente di acqua viva, e coloro che ne berranno non avranno più sete (cf. - Jn 4,14); i morti, abbiamo bisogno della vita; il gregge, del pastore; i bambini, del pedagogo; e tutta l’umanità ha bisogno di Gesù: per paura che, senza educazione, peccatori, cadiamo nella condanna finale; è necessario, al contrario, che siamo separati dalla paglia ed ammassati "nel granaio" del Padre. "Il ventilabro è nella mano" del Signore e con esso separa il grano dalla pula destinata al fuoco (Mt 3,12).


       1) Se volete, Possiamo comprendere la suprema sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo, che è il Signore di tutto e il Logos del Padre, quando impiega un’allegoria e si dà il nome di pastore del gregge (cf. Jn 10,2s); ma è anche il Pedagogo dei piccolini.


       2) È così che egli si rivolge diffusamente agli anziani, attraverso Ezechiele, e dà loro il salutare esempio di una sollecitudine quanto mai accorta: "Io medicherò colui che è zoppo e guarirò colui che è oppresso; ricondurrò lo smarrito (Ez 34,16) e lo farò pascolare sul mio monte santo" (Ez 34,14). Tale è la promessa di un buon pastore. Facci pascere, noi piccolini, come un gregge;


       3) sì, o Signore, dacci con abbondanza il tuo pascolo, che è la giustizia; sì, Pedagogo, sii nostro pastore fino al tuo monte santo, fino alla Chiesa che si eleva, che domina le nubi, che tocca i cieli! (Ps 14,1 Ap 21,2). "E io sarò", egli dice, "loro pastore e starò loro vicino" (Ez 34,23), come tunica sulla loro pelle. Egli vuole salvare la mia carne, rivestendola con la tunica dell’incorruttibilità (1Co 15,53); ed ha unto la mia pelle.


      


venerdì 16 aprile 2021

Perdonandoci, la Misericordia ci cambia la mente, il cuore, gli occhi.

 

III domenica di Pasqua – Anno B – 18 aprile 2021


Rito romano

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1 Gv 2,1-5; Lc 24,35-48


Rito ambrosiano

At 16, 22-34; Col 1, 24-29; Gv 14, 1-11a.



Premessa:

Grazie alla celebrazione della passione, morte e risurrezione, che ci ha messo in cammino come i due discepoli di Emmaus, la nostra mente è cambiata e abbiamo meglio capito le Scritture. E’ cambiato anche il nostro cuore che si è dilatato per accogliere Cristo. Sono cambiati anche gli occhi che ci permettono di riconoscere il Risorto allo spezzare del pane. Sono cambiati i piedi che, come accadde ai due discepoli di Emmaus, ci spingono ad uscire dalla locanda per tornare immediatamente a Gerusalemme.


1) Un cammino di misericordia: da Emmaus a Gerusalemme

Domenica scorsa abbiamo celebrato la divina Misericordia. E anche oggi la pagina del vangelo di Luca che la liturgia ci propone, sottolinea come essere testimoni della risurrezione del Signore voglia dire annunciare la conversione e il perdono. Viviamo la misericordia allora come riflesso della Risurrezione, e come occasione di conoscenza di Dio e del suo infinito amore, riconoscendoci deboli, fragili, miseri, ed è appunto nella nostra miseria che ci sentiamo accolti dal Dio misericordioso.

Domenica scorsa, abbiamo contemplato Gesù che guardava Tommaso con i suoi occhi pieni di misericordia. Le letture della Messa di oggi ci fanno contemplare un crescendo di misericordia: gli Atti degli Apostoli ci dicono come condizione necessaria per il perdono sia la conversione, Giovanni nella sua lettera ci dice come se qualcuno ha peccato può trovare in Gesù un avvocato, qualcuno che invece di chiedere il resoconto del male fatto dall’uomo offre la vita per l’uomo, e la offre non soltanto per chi crede in lui, ma anche per il mondo, cioè per tutti gli uomini, anche i più distanti da lui. Il Vangelo lega in modo strettissimo l’essere testimoni del risorto con la predicazione della conversione ed il perdono.

La Chiesa è nata dal cuore trafitto di Cristo1 e San Tommaso, perdonato della sua incredulità, ebbe l’impegnativo dono di mettere la sua mano nel costato e di arrivare vicino al Cuore del Crocifisso risorto. Toccò l’uomo e riconobbe Dio, che gli manifestava ancora una volta la Sua misericordia.

La sua conversione non fu tanto un movimento esteriore, quanto un cammino interiore, come aveva fatto la Maddalena quando, nel giardino dove c’era il sepolcro vuoto, si voltò indietro e vide Gesù che stava vicino a lei in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Alla domanda “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Lei, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Lei allora, voltatasi verso di lui, gli disse: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!

Questo episodio evangelico descrive in che cosa consiste la conversione. San Giovanni dice che Maria di Magdala si volta verso Gesù due volte... E’ già girata verso di lui, che senso ha allora il secondo voltarsi verso di lui? E’ un volgersi interiore, è quel cambiamento che avviene in noi e che rende gli occhi del cuore capaci di riconoscere la presenza nuova del Signore Risorto. Mi pare che sia questo il cammino di conversione: per poter ricevere il perdono è necessario orientare la propria vita a colui che ha annunciato, vissuto, dato il perdono. In fondo credo che proprio perché avvenga questo riconoscimento Gesù insiste così tanto nel dire: Sono proprio io!

Bellissimo che il riconoscimento avvenga ancora una volta attraverso la voce che chiama “Maria”, la voce che spiega le Scritture lungo il cammino verso Emmaus, le mani che spezzano il pane, eucaristicamente. Grazie a questo incontro, i due discepoli che hanno ricevuto, accolto Cristo, che hanno camminato e mangiato con lui, si affrettano a tornare a Gerusalemme. Vi tornano per annunciare il Vangelo di misericordia: Cristo è davvero risorto e si è fatto compagno della loro miseria.


2) Testimoni del Misericordioso.

Nel Vangelo di oggi, San Luca rivela un’evidente preoccupazione apologetica, e cioè quella di affermare la realtà e la concretezza della risurrezione. Gesù risorto ha un vero corpo. Entra di nuovo nel Cenacolo saluta, domanda e rimprovera, invita a rendersi conto della sua verità, mostra le mani e i piedi e, infine, mangia davanti ai discepoli.

Questi hanno una reazione umanamente comprensibile: sono sconcertati, impauriti, turbati, dubbiosi, stupiti e increduli. Sono anche presi dalla gioia, che se pure in modo diverso dalla paura, rende increduli: “Ancora non credevano per la gioia”. Dopo la risurrezione, i discepoli restarono dubbiosi e increduli, sia perché si trovavano davanti a un fatto assolutamente nuovo, sia perché si trovarono inaspettatamente davanti ad una sorpresa troppo bella, desiderata, preannunciata da Cristo ma da loro ritenuta impossibile.

Finalmente, grazie alla riconoscenza (gratitudine) per l’amore manifestato dalle piaghe gloriose, dal pane eucaristicamente spezzato ad Emmaus, dalla pace effusa su di loro nel Cenacolo, i discepoli hanno riconosciuto che Cristo era davvero risorto e sentirono il “dovere” di testimoniarLo.

Visitati da Cristo che si manifestò loro con segni di misericordia, i discepoli hanno creduto al suo Amore appassionato, di cui Lui ha dato prova affrontando la passione e mostrando le ferite d’amore: le stigmate. Fu quindi naturale per loro seguire l’invito di diventare testimoni appassionati di questo amore. Perché l’amore si “paga” con l’amore.

Di conseguenza, la testimonianza della risurrezione di Cristo è efficace e credibile solo se anche noi, discepoli del Risorto, mostriamo al mondo le nostre mani e i nostri piedi segnati da opere di amore, dalle opere di misericordia.

Le tre letture della Messa di questa domenica sono unite da questo filo rosso: la conversione e il perdono dei peccati. Ambedue –conversione e perdono- hanno la loro radice nella Pasqua di Gesù e sono parte essenziale dell’annuncio missionario della Chiesa, come ha pure ricordato Papa Francesco nella Bolla di indizione dell’Anno della Misericordia (11 aprile 2015) . Negli Atti degli Apostoli, il giorno di Pentecoste San Pietro dichiara nella piazza pubblica: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19, Prima Lettura). L’Apostolo esorta in modo paterno i “figlioli” a non peccare, ma se ciò capitasse, ricorda che c’è sempre una tavola di misericordia: “abbiamo un avvocato... Gesù Cristo il giusto... vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo” (1 Gv, 2,1-2, Seconda Lettura).

Nella terza lettura, presa dal Vangelo di San Luca “la conversione e il perdono dei peccati” sono la bella notizia che i discepoli dovranno predicare “a tutte le genti”, nel nome, cioè per mandato di Gesù (Lc 24,47).

Un esempio particolare di questa evangelizzazione è dato dalle Vergini consacrate nel mondo, che - in una società che rischia di essere soffocata nel vortice dell'effimero e dell'utile, del calcolo e della rivalità - sono segno di gratuità e d’amore.

La vita consacrata si caratterizza per la sua assoluta gratuità: è un dono che si riceve da Dio, si vive per Dio solo, e a Dio ritorna passando attraverso la preghiera di lode e di supplica e il servizio di carità.

Le persone consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale l'uomo trova la propria salvezza. Esse tengono viva l’esperienza del perdono di Dio, perché hanno la consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato. Per questo, anche per l’uomo di oggi, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della “compunzione del cuore”2 (Benedetto XVI, 2 febbraio 2010). Queste donne testimoniano che, grazie alla verginità, è possibile vivere un amore consacrato nel mondo e che, grazie ad una vita lietamente e totalmente offerta, l’amore di Dio è davvero credibile.

La vergine consacrata nel mondo testimonia che la sua vita è Dio e Dio non è un discorso, non è un’idea: è una realtà della quale la persona consacrata vive e che fa presente agli uomini.


1  Cfr Sant'Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, 2, 85-89: CCL 14, 69-72 (PL 15, 1666-1668)

La compunzione del cuore porta in sé il sigillo della carità divina, del puro amore a Dio. La vera compunzione, infatti, è dono dell'Altissimo, è il dolore soprannaturale che penetra nel cuore dell'uomo al pensiero della Passione di Cristo, al ricordo delle proprie colpe, alla constatazione del prolungarsi dell'esilio terreno che separa da Dio, unica felicità dell'anima viatrice. Tutto ciò fa sgorgare quelle salutari lacrime, dell’anima piuttosto che degli occhi, alle quali neppure Dio sa resistere.



Lettura Patristica

Guerric d’Igny,

Sermo I, in Pascha, 4-5



Cristo e la vera risurrezione e la vita


       Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26 Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.


       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...


       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».


       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire»