venerdì 12 febbraio 2021

Cristo, la compassione di Dio.

 

Rito Romano

VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 14 febbraio 2021

Levitico 13,1-2.45-46; Prima Corinzi 10,31-11.1; Marco 1,40-45


Rito Ambrosiano

Ultima Domenica dopo l’Epifania – detta “del perdono”.

Is 54,5-10; Sal 129; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14


 


1) Nel contatto tra la mano di Gesù e il lebbroso è abbattuta ogni barriera tra Dio e l'impurità umana.

Il brano del Vangelo di oggi narra l’incontro tra Gesù e un lebbroso. L’incontro di Gesù con il lebbroso è il tipo e il modello del suo incontro con ogni uomo, il quale viene risanato e ricondotto alla perfezione dell’originaria immagine divina e riammesso alla comunione del popolo di Dio. In questo incontro (come negli altri incontri con altri lebbrosi) Gesù si manifesta come il portatore di una nuova vita, di una pienezza di umanità da tempo perduta. La legislazione mosaica escludeva, condannava il lebbroso, vietava di avvicinarlo, di parlargli, di toccarlo. Gesù, invece, si dimostra, anzitutto, sovranamente libero nei confronti della legge antica: avvicina, parla, tocca, e addirittura guarisce il lebbroso, lo sana, riporta la sua carne alla freschezza di quella di un bambino.

Al lebbroso (e a ciascuno di noi che ha la lebbra del peccato) che Gli rivolge una preghiera umile, “in ginocchio” e fiduciosa: “Se vuoi, puoi purificarmi” (Mc 1, 40), Gesù risponde con un atteggiamento profondo del suo animo: la compassione. E “compassione” è una parola molto profonda: compassione che letteralmente significa “patire-con-l’altro”. Il cuore di Cristo manifesta la compassione paterna di Dio per quell’uomo, avvicinandosi a lui e toccandolo. E questo particolare è molto importante. Gesù “tese la mano, lo toccò … e subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato” (Mc 1, 41).

La misericordia di Dio supera ogni barriera e la mano di Gesù tocca il lebbroso. Egli non si pone a distanza di sicurezza sanitaria e non agisce per delega, ma si espone direttamente al contagio del nostro male; e così proprio il nostro male diventa il luogo del contatto: Lui, Gesù, prende da noi la nostra umanità malata e noi prendiamo da Lui la sua umanità sana e risanante. Questo avviene ogni volta che riceviamo con fede un Sacramento: il Signore Gesù ci “tocca” e ci dona la sua grazia. In questo caso il pensiero va specialmente al Sacramento della Riconciliazione, che ci guarisce dalla lebbra del peccato.

Ancora una volta il Vangelo ci mostra che cosa fa Dio di fronte al nostro male: Dio non viene a “tenere una lezione” sul dolore; non viene neanche ad eliminare dal mondo la sofferenza e la morte; viene piuttosto a prendere su di sé il peso della nostra condizione umana, a portarla fino in fondo, per liberarci in modo radicale e definitivo. Così Cristo combatte i mali e le sofferenze del mondo: facendosene carico e vincendoli con la forza della misericordia di Dio.

  Il Messia lascia Cafarnao, dove aveva cominciato le prime guarigioni, e va nei villaggi vicini, dove doveva portare il Vangelo di misericordia e compassione. Nel deserto, che avvolgeva questi piccoli paesi di Galilea, certamente non c’era la sabbia, come nel Sahara, più che altro c’era una natura così aspra che nessuno voleva viverci. Era zona di passaggio, una terra di nessuno. Ma questo non voleva dire che non ci fosse nessuno, perché l’uomo a volte abita proprio là, per scelta o colpa propria o perché qualcuno ce l’ha mandato. E’ il caso del lebbroso. Chi era colpito dalla lebbra, “la primogenita della morte” (Gb 18,13), doveva tenersi separato e non poteva avvicinarsi a nessuno, perché la legge dell’Antico Testamento prescriveva: “Il lebbroso starà solo, lontano, fuori dell’accampamento” (Lv 13,46). Il lebbroso era abbandonato a se stesso, destinato ad una lenta morte, infamato in quanto era ritenuto un peccatore, che meritava quella condanna di avere una malattia ributtante, inguaribile e infettiva.

Gesù, il Medico che è venuto a guarire tutti i malati, tocca il lebbroso e lo guarisce. Le nostre leggi possono solo riconoscere il male e condannarlo. Gesù lo guarisce.

L’immondo, il castigato, l’intoccabile diventa fonte di stupore e di Vangelo. Ma perché Cristo tocca questo malato ripugnante? Perché, dato che guarisce il malato con la sua volontà e con la sua parola, Gesù aggiunge anche il tocco della sua mano? “Io ritengo che per nessun altro motivo lo faccia, se non per mostrare che non c'è niente di impuro per un uomo puro.”
(San
Giovanni Crisostomo).

  Una della più profonde spiegazioni di questo miracolo è l’esempio del Poverello di Assisi. San Francesco d'Assisi, che amò Cristo fino ad assomigliargli fisicamente con le stimmate, i lebbrosi li ha baciati.

Certo, non da subito.

Racconta Tommaso da Celano: “All'inizio, la sola vista dei lebbrosi gli era così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Solo nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”. Visse così non perché costretto da un timore, ma perché spinto dall’amore: era innamorato di Dio. Infatti, lo fece con il cuore: “Poco tempo dopo volle ripetere quel gesto: andò al lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò la mano e la bocca”.

Nel suo testamento, San Francesco stesso scrisse: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo” (Fonti Francescane, 110). Nei lebbrosi, che Francesco incontrò quando era ancora “nei peccati” – come egli dice -, era presente Gesù. E quando Francesco si avvicinò a uno di loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore di Dio. Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova.

  San Francesco d’Assisi mostrò e mostra ancora che il Vangelo non è il racconto di una fiaba per suscitare buoni sentimenti ed insegnare una morale, ma la narrazione di una Presenza che fa miracoli. ll miracolo, per Gesù, è la confluenza di due volontà buone; il contatto vivo tra la volontà di bontà di chi agisce e la fede di chi è agito. La collaborazione di due forze. Un combaciamento, una convergenza di due certezze: una che domanda “Se vuoi, puoi guarirmi” e l’altra che purificando guarisce non solo il corpo ma anche il cuore malato.


2) Gesù ci purifica dalla nostra “lebbra”.

Non ha nome né volto il lebbroso del Vangelo, perché così ognuno di noi può identificarsi in lui. La sua voce esprime il nostro desiderio di salute fisica e spirituale. In modo discreto supplica: “Se vuoi, guariscimi”.

Il lebbroso esprime questa supplica perché, più o meno consapevolmente, si chiede: “Che cosa vuole Dio per me? Cosa vuole da questa carne sfatta, da questo corpo piagato, da questi anni di dolore (per chi soffre il tempo della malattia è sempre lungo). Gli scribi di ogni epoca ripetono che il dolore è punizione per i peccati o maestro di vita o incomprensibile volontà di Dio. La domanda del lebbroso è “teologica”, perché a partire dalla sua esperienza di sofferenza quest’uomo si rivolge al Figlio di Dio-Amore. La fede del lebbroso non è teorica o astratta: nasce da un cuore che palpita e che ha capito che Dio è il Dio della compassione. Il dolore fa emergere l’amore da cui si è nati.

Facciamo nostro questo appello del lebbroso: “Se vuoi, puoi mondarmi”. Non la nostra purezza legale, ma la nostra miseria ci dà il diritto di rivolgerci al Signore, invocandoLo e mettendoci in ginocchio, perché riconosciamo la sua divinità ed il suo amore. Noi siamo bisognosi di Dio e del suo amore. L’importante è riconoscere il nostro male e voler guarire.

E Gesù, commosso, ci tocca. Per Gesù il lebbroso (ciascuno di noi) non è un caso da risolvere, ma è una lama nella carne. Per Lui il malato di lebbra non è una domanda teorica a cui rispondere, ma un fratello per il quale le sue viscere fremono, come quelle di una madre per il figlio. Dio ha verso di noi questa commozione materna, genera gesti, e fa quasi violenza alla mano, la fa stendere, la fa toccare. Gesù tocca il lebbroso, sapendo che per la legge mosaica toccare un lebbroso è diventare impuro. Per lui l’uomo vale più di questa legge. Con una carezza, che purifica, il Redentore porta a pienezza la legge antica mediante la nuova legge dell’amore e della libertà.

Eternamente Dio vuole figli guariti. A ciascuno di noi, come al lebbroso, a Lazzaro, alla figlia di Giairo, alla suocera di Simone ripete: lo voglio, alzati, guarisci.

Dio è salute e salvezza, è guarigione dal male di vivere. Non ne conosciamo i tempi e i modi, ma sappiamo dalla fede che Lui rinnoverà il cuore, battito su battito. Con la compassione, con una carezza della sua mano, con la forza tenera della sua voce ci toglie sempre e per sempre dall’abisso del dolore.

Un esempio attuale di questa compassione sono le Vergini Consacrate nel mondo. In forza di questa consacrazione esse sono chiamate ad essere testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Se da una parte queste donne sono chiamate ad essere, mediante il dono totale di sé stesse nella verginità a servire Dio nella preghiera, in particolare quella liturgica, dall’altra esse sono chiamate al servizio della carità nei confronti del prossimo, che consiste appunto nel fatto che, in Dio e con Dio, amano anche la persona non gradita, che la malattia rende ripugnante. “Totalmente consacrate a Dio, sono totalmente consegnate ai fratelli, per portare la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Le persone consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo” (Papa Francesco).




Lettura Patristica

San Beda il Venerabile (ca 672 - 735)

In Evang. Marc., 2, 3-5


La guarigione del paralitico e la salvezza dell’anima


       "E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone" (Mc 2,3).


       La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima, la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirino la speranza nella guarigione e intercedano per lei. A buon diritto viene riferito che il paralitico era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo, sia perché sono quattro le virtù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza. Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: "Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e fortezza, delle quali niente c’è li più necessario per gli uomini nella vita" (Sg 8,7). Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.


       "E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava" (Mc 2,4).


       Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li preme da ogni parte. Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carnale, che volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia celeste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini. Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signore, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo. Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultuano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo insegna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della Sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore. «Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire - dice il salmista - le tue parole» (Ps 118,9).


       "E praticata un’apertura, calarono giù il lettuccio sul quale giaceva il paralitico" (Mc 2,4).


       Scoperchiato il tetto, l’infermo è calato dinanzi a Gesù: infatti, svelati i misteri delle Scritture, si giunge alla conoscenza di Cristo, cioè si discende alla sua umiltà con la pietà della fede. Secondo il racconto di un altro evangelista, non è senza un motivo che la casa di Gesù appaia coperta da tegole, in quanto, se c’è chi squarcia il velo della lettera che pure può apparire d’insignificante valore, vi troverà la potenza divina della grazia spirituale. Togliete le tegole alla casa di Gesù, significa scoprire nell’umiltà della lettera il significato spirituale dei misteri celesti. Infine, il fatto che l’infermo sia calato giù insieme con il lettuccio, significa che dobbiamo conoscere Cristo mentre siamo ancora in questa nostra carne.


      


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