Rito Romano
XXXIV Domenica Tempo Ordinario - Anno A - Cristo Re dell’Universo, 22 novembre 2020
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
Rito Ambrosiano
2ª Domenica di Avvento
Is 51,7-12a; Sal 47; Rm 15,15-21; Mt 3,1-12
Premessa di metodo.
La solennità di Cristo Re si festeggia sempre nell’ultima domenica dell’anno liturgico e spinge a guardare a Cristo che regna sul trono della Croce ed oggi ci dice: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”(Mt 25, 34 -35).
Contemplando il racconto della Crocefissione e quello del Giudizio universale, potremmo individuare cinque modi di guardare a Cristo: il modo dei capi del popolo, quello dei soldati, quello di uno dei due malfattori che ha imprecato contro Gesù, quello del buon ladrone che ha pregato Cristo, quello di chi, come il questo “buon” malfattore, ha saputo riconoscere Cristo nel prossimo sofferente e indigente. Solo gli ultimi due sono il modo giusto: solo il quarto e il quinto ci liberano dal potere delle tenebre e ci trasferiscono nel Regno del Figlio Crocefisso.
Allora dobbiamo attentamente comprendere bene ognuno di cinque modi.
Sia i capi del popolo, sia i soldati, sia uno dei due ladri gridano al Crocifisso: “Salva te stesso” e la ragione per cui il Crocefisso deve salvare se stesso è che deve dimostrare che è “il Cristo di Dio” cioè una particolare appartenenza a Dio e che è “il re dei Giudei” cioè qualcuno forte e potente. Dunque, i primi tre modi di guardare il Re Crocefisso nascono tutti da una certezza: la salvezza di se stessi è la dimostrazione della propria forza, l’affermazione di se stessi è l’atto che manifesta la propria personalità: regalità significa dominio; significa avere, potere, apparire. Se il Crocefisso non dimostra di essere capace di salvare se stesso attraverso una clamorosa manifestazione del suo potere, lui è - per i capi - religiosamente un maledetto, politicamente - per i soldati - un impotente, personalmente - per il ladro - un fallito.
Capi, soldati e ladro hanno guardato al Crocefisso misurando la sua Verità col metro delle aspettative umane e non hanno capito più nulla. Così si sono preclusi il passaggio dal potere delle tenebre al Regno del Figlio, alla partecipazione della sorte dei santi nella luce.
Ma c’è un quarto modo di guardare al Crocefisso, quello dell’altro ladro. Esso comincia dallo stupore di vederlo condannato alla stessa pena, dallo stupore di vederlo condividere fino in fondo la nostra condizione, di vederlo immerso nella nostra stessa miseria. Lo stupore di fronte alla condivisione divina mi fa scoprire la verità della mia ingiustizia: siamo colpevoli, abbiamo meritato di morire. “Lui invece non ha fatto nulla di male”. Ed allora sorge la domanda ultima: perché Lui è sulla croce? Per essere vicino all’uomo, con l’uomo anche là dove si sente maledetto, disperato, solo nella sua morte e così riportarlo nella vita. Guardando Gesù sulla croce, l’uomo scopre chi è Dio e la salvezza. Egli è grazia, egli è solo misericordia, Lui muore perché noi possiamo vivere.
Il quinto modo di guardare è quello di chi Cristo pone alla sua destra perché con occhi puri e cuore grande hanno saputo riconoscerLo nell’affamato, nel malato, nel povero, nel prigioniero, in tutti coloro che chiedendo pane per vivere, magari senza saperlo chiedevano il Pane della Vita.
1) Re Pastore.
In questa domenica del rito romano, celebriamo Cristo Re dell’Universo1, sovrano di un Regno di misericordia, di giustizia e di pace, fondato sul dono che Lui fa di se stesso a noi sulla Croce.
Gesù non è sceso dal trono della Croce, perché è dalla Croce che lui regge, governa il Regno nuovo e felice. Dallo “scandaloso” trono il Signore Gesù ci guarda diritto e profondo negli occhi come guardò al buon ladrone ed anche a noi dice: “Oggi, ora sarai con me nel Paradiso, nel Regno eterno, nell'amore infinito”.
Il Regno della Terra diventa il Regno del cielo grazie alla Croce, dalla quale ci offre il suo amore di Re Pastore, come ci indica la prima lettura presa dal libro del profeta Ezechiele.
Infatti, Ezechiele (34,11-17), deluso dai pastori d'Israele (re, sacerdoti e maestri) che pensano a se stessi anziché al gregge, sogna un pastore diverso: un pastore che non “disperde” ma “raduna”; conduce al pascolo le sue pecore e le fa riposare; va in cerca della pecora smarrita e fascia quella ferita. Sono tutti tratti che ritroviamo nei Vangeli, applicati a Gesù.
Il Cristo è il vero pastore, che cura l’interesse del suo gregge e che va in cerca di tutte le pecorelle smarrite, perché nessuna di loro può rimanere isolata dal suo amore e dal suo sguardo di bontà divina. Cristo esercita la sua regalità come buon pastore, perché la sua regalità, che oggi celebriamo, è regalità di amore e servizio, di donazione, di misericordia.
2) Re della vita.
Nella Seconda Lettura, il brano della prima lettera ai Corinzi ci aiuta a cogliere in modo sintetico il significato della solennità di Cristo Re. L’Apostolo Paolo ci parla della vera regalità di Cristo, che Egli esercita nel mistero di morte e risurrezione. Una regalità che verrà portata a pienezza, quando, dopo aver egli superata la barriera della morte corporale, farà superare tale barriera a tutta l’umanità nel giudizio universale. La morte infatti sarà per noi l’ultimo “nemico” da abbattere, mentre ora la pensiamo come un transito verso l’eternità, di cui non bisogna aver assolutamente paura, in quanto Cristo ha vinto la morte. Lui ha vinto tutto.
Quindi ispirati da Gesù, nostro amato Re e Signore dell’universo, preghiamo Dio Padre, che ha inaugurato il suo Regno di amore con la risurrezione di Cristo, perché ci renda operai appassionati e sinceri, affinché la regalità del tuo Figlio sia riconosciuta in ogni angolo della terra. Al termine dell’anno liturgico, che è tempo di santità e di perfezione nella carità, uniamoci alla preghiera del Sacerdote celebrante e con lui diciamo: “Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine”.
3) Re Giudice.
Ma è la terza lettura liturgica: il Vangelo di Matteo (25,31-46), che ci mostra maggiormente il lato più sorprendente della regalità di Gesù. La parabola del giudizio (Mt 25,31-36) è una pagina che si impone all'attenzione non solo per la forza del suo messaggio, ma anche per la suggestione della sua scenografia. Tre sono le sue parti: l'introduzione scenica che presenta la venuta gloriosa del Figlio dell'uomo, la convocazione dei popoli e la loro separazione (25,31-33); il dialogo del Re che prima parla con quelli di destra e poi con quelli di sinistra (25,34-45); infine la conclusione, che descrive l'esecuzione delle sentenze (25,46).
In questa parabola vediamo un Re Giudice che giudica con amore e con comprensione, ma anche con regole ben precise che egli stesso ha dettato per la salvezza eterna dei suoi figli. Regola fondamentale è la carità vissuta, attestata e concretizzata in comportamenti ed azioni semplici, come quelli di dare da mangiare, bere, assistere, essere vicino a chi è nel dolore, nella sofferenza, nell’emarginazione. La cosa che commuove è che Dio non ci giudicherà scorrendo l’elenco delle nostre debolezze, ma quello dei nostri gesti di bontà. Non prenderà in esame le nostre ombre, ma terrà conto dei semi di luce e di bene che abbiamo seminato. Se come Davide nel salmo del pianto e del pentimento diciamo: “Distogli il tuo sguardo dal mio peccato”, Dio esaudisce il nostro grido di dolore, ci conferma nel suo amore, e nell’ultimo giorno distoglierà il suo sguardo dal male e per sempre lo fisserà sul bene. Sul bene semplice e concreto, perché Dio ha legato la salvezza al dono di un po’ di pane, di un bicchiere d’acqua, di un vestito, di passi per visitare un povero o un ammalato. Certo, Dio non si è legato alle cose, ma al cuore che si serve delle cose. San Giovanni della Croce scrisse: “Alla fine della vita, saremo giudicati sull’amore”.
Questa è la grandezza della fede cristiana evangelica: il supremo confronto tra uomo e Dio non è il peccato ma il bene. La misura di Dio e, di conseguenza, la misura dell’uomo e quella della storia è il bene, è l’amore di Dio. Il nostro futuro, cielo e paradiso, è generato dal bene amorevole che ciascuno di noi ha donato agli innumerevoli “Lazzaro” della terra, che meritano molto di più delle briciole che domandano. Il giudizio di Dio è l’atto che dice la verità ultima dell’uomo, e per trovarla non guarderà noi, ma intorno a noi: le nostre relazioni, la porzione di poveri e di lacrime e di amori che ci è stata affidata e che devo custodire con la mia vita. Se c’è qualcosa di eterno in noi, se qualcosa di noi rimane quando non rimane più nulla, questa cosa è l’Amore.
4) Maria, Regina del Cielo e della Terra.
Tra tutte le creature dell’universo, Dio ha scelto la Vergine Maria per associarla in modo singolarissimo alla regalità del suo Figlio fatto uomo. La Madonna distribuisce regalmente e maternamente quanto ha ricevuto dal Figlio Re. Lei protegge con la sua potenza noi suoi figli acquisiti ai piedi del Trono della Croce e ci dona gioia con i suoi doni, poiché il Re ha disposto che ogni grazia passi per le sue mani di generosa, materna regina.
Ci insegni Maria a testimoniare con coraggio il Regno di Dio e ad accogliere Cristo come Re della nostra esistenza e dell’intero universo.
A questa testimonianza sono chiamate in modo speciale le vergini consacrate nel mondo. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, ai nn. 922 e 923 : “Fin dai tempi apostolici, ci furono vergini cristiane che, chiamate dal Signore a dedicarsi esclusivamente a lui in una maggiore libertà di cuore, di corpo e di spirito, hanno preso la decisione, approvata dalla Chiesa, di vivere nello stato rispettivamente di verginità o di castità perpetua « per il regno dei cieli » (Mt 19,12). «Emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, [le vergini] dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa». Mediante questo rito solenne (Consecratio virginum), « la vergine è costituita persona consacrata » quale « segno trascendente dell'amore della Chiesa verso Cristo, immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura»”. La Vergine consacrata testimonia in modo particolarissimo la regalità di Cristo, che merita tutto, e con tutta la sua persona è annuncio di carità e segno del carattere regale della vita cristiana. Infatti coloro che custodiscono la verginità si rendono simili alla Vergine Maria. “Come da Lei è nato il Figlio, il Verbo di Dio che regge il mondo, così quelle che custodiscono la verginità generano parole efficaci che istruiscono gli altri nella virtù” (Card. Spidlik) e li reggono nella vita quotidiana.
In breve: la liturgia di oggi ci invita a contemplare la regalità di Cristo e poi ci chiede di vivere regalmente, cioè di far nostro uno stile di vita alto, nobile, solenne perché così è la carità. Come non pensare a quella piccola e fragile donna che è stata la Beata Madre Teresa di Calcutta? A lei si sono inchinati tutti i potenti della terra. La sua vita è stata quella di una regina al seguito di Cristo Re. E tutti hanno reso omaggio a questa regina senza scettri e senza corone ma resa bella da tutti i poveri che ha amato. E noi sappiamo che in ciascuno di quei poveri ha amato Gesù. Facciamo verginalmente altrettanto.
1 Questa festa è stata opportunamente collocata nell’ultima domenica dell’anno liturgico, per evidenziare che Gesù Cristo è il Signore del tempo e che in Lui trova compimento l’intero disegno della creazione e della redenzione.
Lettura Patristica
Origene, sacerdote
Venga il tuo regno
Dall'opuscolo «La preghiera» Cap. 25; PG 11, 495-499.
“Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15). Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre « membra che appartengono alla terra» ( Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria? » (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di « incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.”
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