giovedì 25 maggio 2023

Dalla confusione delle lingue a Babele alla sinfonia dell’unità a Pentecoste.

Pentecoste – Anno A - 28 maggio 2023

Rito Romano
At 2,1-11; 1Cor 12,3-7.12-13; Gv 20,19-23

Rito Ambrosiano
At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20

1) Il significato cristiano della Pentecoste.

la Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo” (Paolo VI).

D

Purtroppo, per molte persone e per molti Paesi dove anche il lunedì di Pentecoste è festivo, la Pentecoste non è altro che il nome di un lungo weekend. E sono contenti che la routine dei giorni feriali sia interrotta da quella del tempo libero, che offre il vantaggio del divertimento, l’illusione forse della libertà, ma veri momenti di elevazione e di contentezza per il tempo che si può passare con le persone amate.

È ovvio che chi vive coscientemente non potrà accontentarsi di passare in modo non riflesso e passivo dal lavoro al tempo libero e dal tempo libero al lavoro. Di tanto in tanto, dovrà fermarsi e chiedere in che direzione si muova la sua vita, verso dove si dirigano tutte le cose, gli uomini ed il mondo. Dovrà assumersi un po’ di responsabilità per questo movimento e per la sua direzione e non potrà limitarsi a partecipare semplicemente all’offerta consumistica, che costantemente si diffonde, senza chiedersi da dove essa venga e dove conduca.

Dunque questa Solennità della Pentecoste è un invito a passare dalla logica del fine settimana a quella festa, nella quale

  • -  facciamo memoria di un fatto accaduto nel passato;

  • -  celebriamo un fatto o che accade ora fra noi discepoli di Gesù;

  • -  viviamo l’attesa che quanto è ricordato e vissuto raggiunga la sua pienezza nella vita eterna.

    Nella Pentecoste facciamo memoria, celebriamo e viviamo il fatto che

    riallaccia la nostra relazione con il Padre dalla condizione di orfani e ci restituisce a

    quella di figli

    - - -

    Il fatto che oggi ricordiamo e celebriamo è che il Regno di Dio nel quale Gesù vuol introdurci e al quale noi siamo chiamati è un cielo interiore, dentro di noi perché come dice San Gregorio Magno: “Il cielo è l’anima del giusto”. E noi siamo giusti perché immersi nel Battesimo in Cristo, che oggi si immerge in noi con il suo Spirito.

Cinquanta giorni dopo la Pasqua, la Liturgia ci fa celebrare la Pentecoste, cioè la discesa dello

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Spirito Santo sulla Chiesa nascente e sulla Chiesa di oggi. Non facciamo memoria di un fatto accaduto

circa duemila anni fa, ma di un evento che riaccade perché “

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unque celebriamo oggi l’annuale festa della discesa dello Spirito Santo; ma lo Spirito Santo

dobbiamo averlo nel cuore tutti i giorni. “Non celebriamo la Pentecoste per un giorno solo ma in ogni tempo, se vogliamo essere non riprovati ma approvati dal Signore nel giorno della sua venuta. Avendoci in antecedenza dato il pegno, ci voglia condurre al possesso eterno [dei beni]. Cristo infatti ha sposato la sua Chiesa e ha mandato a lei lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è come l’anello nuziale; e chi

le ha dato l'anello le darà anche l'immortalità e il riposo. Lui amiamo, in lui speriamo, in lui crediamo

(Sant’Agostino, Discorso 272/ B per la Pentecoste).

Vergine Maria, avviene in ogni credente in Cristo, che con il dono dello Spirito Santo

quello che avvenne nella

, rovinata dal peccato; ci toglie

” (Papa Francesco, 15 maggio 2016)

Vengono i brividi solo a pensarlo che Dio

non solamente ha visitato la terra, discendendo quaggiù nel mondo,

non solo ha pagato con la Croce il prezzo del suo amore per noi,

ma Dio si dona a noi, vive in noi. Ciascuno di noi diventa capace di Dio, accoglie Dio in sé,

perché in ognuno di noi si rinnovi il mistero dellanostre unione col Verbo.

L’unione nostra con Dio e di Dio con noi si realizza in questo dono dello Spirito e in questo

dono dello Spirito che ci unisce a Dio, si realizza anche, come frutto divino di unione, la nostra trasformazione in Cristo, Figlio di Dio e fratello nostro. A questo riguardo Papa Francesco insegna

Mediante il Fratello universale, che è Gesù, possiamo relazionarci agli altri in modo nuovo, non più come orfani, ma come figli dello stesso Padre buono e misericordioso. E questo cambia tutto! Possiamo guardarci come fratelli, e le nostre differenze non fanno che moltiplicare la gioia e la

meraviglia di appartenere a quest’unica paternità e fraternità” (Omelia di Pentecoste, 15 maggio 2016).

2) Da Babele a Pentecoste, dalla divisione all’unità.

La luce della Pentecoste ci conduce all’essenziale: ci rivela la dignità e la vocazione che ci sono donate: quella di essere figli destinati all’immortalità e testimoni dell’uguaglianza nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.

San Luca racconta la discesa dello Spirito (I lettura: At 2,1-11) utilizzando i simboli classici che accompagnano l’azione di Dio: il vento, il terremoto e il fuoco. Sotto forma di lingue questo fuoco si posa sui presenti nel Cenacolo, che cominciarono a parlare in altre lingue”. Con questo diventa chiaro il compito di unità e di universalità a cui lo Spirito chiama la sua Chiesa.

Con la venuta dello Spirito a Pentecoste e la nascita della comunità cristiana inizia in seno all’umanità una storia nuova. Alla luce del racconto della torre di Babele comprendiamo meglio l’evento di Pentecoste, di cui oggi facciamo memoria. E’ iniziata dentro l’umanità la costruzione di una vera comunione fra le persone: vera, perché donata dall’alto, per opera dello Spirito di Gesù e l’annuncio apostolico delle grandi meraviglie di Dio. Con il dono dello Spirito Santo il seme dell’unità è posto nel campo dei conflitti umani.

La celebrazione che siamo chiamati a vivere in questa domenica rende attuale l’evento accaduto circa duemila anni fa. Mediante la fede noi diventiamo contemporanei ad esso e possiamo testimoniare che esso è la risposta vera al desiderio di unità che è insito nel cuore umano.

A Babele uomini della stessa lingua non si capirono più. A Pentecoste, di allora e di oggi, invece uomini di lingue diverse si incontrano e si intendono. Il compito che lo Spirito affida alla sua Chiesa è di imprimere alla storia umana un movimento di riunificazione: movimento nello Spirito, nella verità, nella libertà e attorno a Dio.

Anche nel Vangelo di oggi (Gv 20,19-23) è detto che lo Spirito ricrea la comunità degli apostoli, la apre alla missione (allora come oggi), ricordando che lo Spirito è il dono di Cristo: “Ricevete lo Spirito Santo”.

San Giovanni mette un relazione stretta relazione tra lo Spirito, la comunità dei discepoli e la missione di portare nel mondo il Vangelo di Cristo e il suo perdono.

San Cipriano, lodandole, rivolge loro nel suo libro De habitu virginum in cui descrive come deve essere il loro comportamento: “Ora il nostro discorso si rivolge a voi, vergini, delle quali quanto è più sublime la gloria, tanto maggiore deve essere la cura; fiore della stirpe della Chiesa, decoro ed ornamento della grazia spirituale, stirpe eletta e lieta, opera integra ed incorrotta di lode e di amore, immagine di Dio che rappresenta la santità del Signore, la più illustre porzione del gregge di Cristo. Attraverso le vergini gode e nelle vergini

abbondantemente fiorisce la gloriosa fecondità della Madre Chiesa”.

Le vergini consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa

misericordia del Signore, nella quale l'uomo trova la propria salvezza. Queste donne tengono viva

l'esperienza del perdono di Dio, perché hanno la consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando

riconoscono il proprio peccato.

Le vergini consacrate accettano con umiltà le indicazioni che

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La loro vita è da considerare come una scuola della fiducia nella misericordia di Dio, nel suo

amore che mai abbandona. In realtà, più ci si avvicina a Dio, più si è vicini a Lui, più si è utili agli altri. Le persone consacrate testimoniano la grazia, la misericordia e il perdono di Dio non solo per sé, ma

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anche per i fratelli, essendo chiamate a portare nel cuore e nella preghiera le angosce e le attese degli

uomini, specie di quelli che sono lontani da Dio.

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Lettura Patristica
San Cirillo di Alessandria 
Catechesis XVI, De Spir. Sancto, I, 22-24

Qualcosa di grande, e onnipotente nei doni, e ammirabile, lo Spirito Santo. Pensa, quanti ora sedete qui, quante anime siamo. Di ciascuno egli si occupa convenientemente; e stando in mezzo (Ag 2,6) (a noi) vede di che cosa ciascuno è fatto; vede anche il pensiero e la coscienza, ciò che diciamo e abbiamo nella mente. È certamente cosa grande ciò che adesso ho detto, ma ancora poco. Vorrei che tu considerassi, illuminato da lui nella mente, quanti sono i cristiani di tutta questa diocesi, e quanti di tutta la provincia della Palestina. Di nuovo spazia col pensiero da questa provincia a tutto l’impero romano; e da questo rivolgi lo sguardo a tutto il mondo; le stirpi dei Persiani, e le nazioni degli Indi, Goti e Sarmati, Galli, e Ispani, Mauri ed Afri ed Etiopi, e tutti gli altri, dei quali non conosciamo neanche i nomi; ci sono molti popoli, infatti, dei cui nomi non ci venne neppure notizia. Considera di ciascun popolo i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i monaci, le vergini, e tutti gli altri laici; e guarda il grande reggitore e capo, e largitore dei doni; come in tutto il mondo a uno dà la pudicizia, a un altro la perpetua verginità, a un altro ancora la misericordia (o la passione dell’elemosina), a uno la passione della povertà, ad un altro la forza di fugare gli spiriti avversi; e come la luce con un solo raggio illumina tutto, così anche lo Spirito Santo illumina coloro che hanno occhi. Poiché se uno che vede poco con l’aiuto della grazia non si dona affatto, non accusi lo Spirito ma la sua propria incredulità.

Avete visto la sua potestà che egli esercita in tutto il mondo. Ora, perché la tua mente non sia rivolta alla terra, tu sali in alto: sali col pensiero fino al primo cielo, e contempla le innumerevoli miriadi di angeli che ivi esistono. Sempre col pensiero, sforzati di salire a cose ancora più alte, se puoi; mira gli arcangeli, mira gli spiriti; guarda le virtù, guarda i principati; guarda le potestà, i troni, le dominazioni. Di tutti questi è stato dato da Dio chi stia loro a capo, il Paraclito. Di lui hanno bisogno Elia ed Eliseo e Is tra gli uomini; di lui, tra gli angeli, Michele e Gabriele. Nessuna delle cose generate (o meglio create) è pari a lui nell’onore; infatti tutti i generi degli angeli, e gli eserciti tutti insieme riuniti, non possono avere alcuna parità ed uguaglianza con lo Spirito Santo. Tutte queste cose ricopre e oscura totalmente la buona potestà del Paraclito. Quelli infatti sono inviati per il ministero e questi scruta anche le profondità di Dio; come dice l’Apostolo: "Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio" (1Co 2,10ss).

Fu lui a predicare del Cristo nei profeti: lui ad operare negli apostoli: ed è lui che fino ad oggi segna le anime nel Battesimo. E il Padre dà al Figlio e il Figlio comunica allo Spirito Santo. È lo stesso Gesù, infatti, non io, che dice: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio" (Mt 11,27); e dello Spirito Santo dice: "Quando però verrà lo Spirito di verità, ecc., egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà" (Jn 16,13-14). Il Padre dona tutto attraverso il Figlio con lo Spirito Santo. Non è che una cosa sono i doni del Padre, e altri quelli del Figlio, e altri quelli dello Spirito Santo; una infatti è la salvezza, una la potenza, una la fede. Un solo Dio, il Padre un solo Signore, il suo Figlio unigenito; un solo Spirito Santo, il Paraclito.

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mercoledì 17 maggio 2023

L’«ascensione» non è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma nel cuore del Padre aperto anche per noi.

Ascensione – Anno A – 21 maggio 2023

Rito Romano

At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

 

Rito Ambrosiano

AT 1,6-13a; Sal 46; Ef 4,7-13; Lc 24,36b-53

 

 

            1) Una festa non facile.

            Quaranta giorni fa, abbiamo celebrato il fatto della Pasqua: la risurrezione di Cristo è stata per noi motivo di grande gioia. Oggi la liturgia ci propone come causa di gioia la  Sua ascensione al cielo: “Oggi, infatti, ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre” (San Leone Magno, Disc. 2 sull'Ascensione, 1, 4; PL 54, 397-399). 

La festa dell’Ascensione non è riducibile ad una strana festa in cui ci à chiesto di essere contenti perché Cristo si allontana da noi andandosene in cielo. Qual è dunque il significato della “ascesa” al cielo di Cristo risorto?  “Significa credere che in Cristo l’uomo, l’essere uomo al quale noi tutti abbiamo parte, è entrato, in modo inaudito e nuovo, nell’intimità di Dio. Significa che l’uomo trova per sempre spazio in Dio. Il cielo non è un luogo sopra le stelle, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell’uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo ‘cielo’, poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti” (Joseph Ratzinger, Predicazione e Dogma, Brescia 1983).

            In effetti, la frase finale del vangelo di oggi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo” (Mt, 28, 20), non contiene parole di qualcuno che lascia i suoi soli sulla terra. Queste ultime parole di Gesù non sono un addio, ma spiegano che Lui è il Signore vivo di una vita senza limite e che, con la sua parola e il suo Amore consolatore, ogni giorno è presentealla sua Chiesa, suo mistico Corpo, fino al compimento del tempo.

Gesù, il Figlio di Dio entrato nella storia per essere il “Dio con noi”, realizza in pieno la sua missione nel dono totale di sé. Morendo e risorgendo,  Lui ha manifestato che  l’Amore si rivela infinito quando si annienta, quando completamente dona la vita. L’Ascensione è il compimento del mistero dell'Amore di Dio: morendo Gesù annulla ogni limite per essere il “Dio con noi”. Lui è con noi per essere l’Amore che redime il nostro amore e rende il nostro cuore capace di essere dimora dell’Amore.

            Dunque, se da una parte l’Ascensione non è una festa facile da capire, perché fa sorgere spontaneamente la domanda: “Perché essere in festa se l’Amato se ne va via?”. D’altra parte, l’Ascensione è una festa chiara, perché questa festa “non è un percorso cosmico geografico ma è la navigazione spaziale del cuore che ci conduce dalla chiusura in noi stessi all’amore che abbraccia l’universo” (Benedetto XVI). L’Ascensione è la festa del nostro destino che ha come destinazione il cielo amoroso di Dio, che eleva la terra della nostra umanità. 

            E’ una festa che ci mostra che il cielo e la terra, il possesso e il sacrifico, la pace e la fatica non sono in contrasto. Non basta che la nostra esistenza sia interamente e sinceramente rivolta al cielo, poi alla terra e poi di nuovo al cielo. La nostra condotta in cielo deve completarsi a poco a poco, in mondo tale che la nostra condotta sulla terra riveli quella del cielo.  La nostra condotta sulla terra deve a poco a poco  elevarsi a preghiera di desiderio e questa preghiera di desiderio si chiarisce nell’adorazione. Non basta che la nostra vita sia interamente e sinceramente pace, poi fatica e poi di nuovo pace: la nostra pace deve essere come la forza raccolta per la fatica e la nostra fatica come uno spirare di pace.

 

2) Ascensione e missione.

Questo destino di pace perfetta nell’amore si intreccia con la nostra missione: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

L’Ascensione di Cristo, che San Matteo ci racconta alla fine del suo vangelo, è un grande inizio. I discepoli videro Gesù come Lui è, come nella trasfigurazione. E Lo adorano, prostrandosi in segno di consegna e di abbandono totale. Su questo rapporto di amore accolgono il “comando” di andare per tutto il mondo poggiano le prospettive universali, insegnando e battezzando. Battezzare non vuol dire versare un po’ di acqua sul capo di una persona, ma immergerla in Dio, dentro il Dio della Vita e, poi, insegnare a osservare ciò che Lui comanda. Ma che cosa comanda Cristo? L’amore. Il suo comando è di immergere la persona umana e insegnarle ad amare, lasciandosi amare e donando amore.

Per compiere missione di carità secondo il cuore di Cristo il quale anche a noi chiede:

“Andate”, cioè superate ogni barriera culturale e religiosa; 

“Fate discepoli tutti i popoli”, cioè formiamo un “nuovo popolo di popoli”; 

“Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè portiamo al mondo intero la la rivelazione di questo nome divino di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo;

 “Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” e, quindi, annunciando agli uomini tutta la rivelazione di Dio, che porta con sé anche la stessa rivelazione dell’uomo. Si può intuire ciò che l’uomo è per davvero solo alla luce questa rivelazione di Dio: solo nel mistero del Verbo incarnatosi “illumina veramente” il mistero dell’uomo (Gaudium et spes, 22)

Queste indicazioni sarebbero impraticabili senza Cristo che anche a noi dice: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Lui è presente accanto a noi e in noi, sempre. Noi, cristiani,  non confidiamo in noi stessi, nelle proprie capacità, ma nella presenza del Signore.

            Con Cristo, in Cristo e per Cristo noi diventiamo testimoni affidabili in tutto il mondo. Non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o uomini ai quali non si possa e non debba testimoniare Cristo. Lui è il Signore di tutto e di tutti, e perciò deve essere annunciato a tutti e dappertutto.

Dire che Gesù è il «Signore di tutto» significa affermare, in altre parole, che Egli dà senso a tutte le cose. «Andate e fate discepoli»: la missione suppone un incarico. Non si annuncia Gesù a nome proprio, tanto meno si annunciano pensieri propri, ma soltanto “tutto ciò che Egli ha comandato”. Il discepolo deve annunciare nella più assoluta fedeltà e il suo annuncio deve nascere da un ascolto.

La missione esige una partenza: “andate”. Il discepolo non aspetta che la gente del mondo si avvicini: è lui che va incontro a loro alla gente. “Fate discepole tutte le genti”: l’espressione è carica di tutto il significato che “discepolo” ha nel Vangelo. Non si tratta semplicemente di offrire un messaggio, ma di instaurare una relazione di comunione. Il discepolo si lega alla persona del Maestro e si impegna a condividere il suo progetto di vita. “Sarò con voi fino alla fine del tempo”: è questa la grande promessa, che dà al discepolo la forza di svolgere la sua missione, andando in ogni luogo del mondo e predicando il Vangelo.

In effetti, Cristo non dice: “Predicate la morale della saggezza greca”. Non dice, per esempio, di spiegare l’Etica di Aristotele, non solo perché gli Apostoli erano poco istruiti, ma perché ogni sapienza diventa poca cosa quando una persona si mette alla scuola di Cristo, che guida con amore le sue pecorelle che docili lo seguono verso i pascoli eterni della verità e della gioia. Quello che Cristo esige dagli uomini per poterli fare entrare nel Regno di Dio non è un certificato di studi, né un attestato di carriera ben fatta. Lui chiede un atto molto più semplice eradical: la conversione del cuore e la rinascita nella fede e nel battesimo.

“Che crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi non crederà, sarà condannato”. Prima di tutto “credere”, perché il crede è l’atto fondamentale della vita cristiana. Con il credere, con l’atto di fede, la persona umana scegli con piena libertà il Regno di Dio che le è offerto dal magistero della Chiesa. Con l’atto di fede quindi il cristiano accetta tutte le verità da credere: tutto quanto Cristo ci ha insegnato su Dio e sull’uomo, sul peccato e sulle cose ultime, che sono la morte, il giudizio e il Paradiso.

Credere allora è vedere la propria vita unicamente nella luce di queste verità accettando il giogo “soave e leggero” della legge dell’amore verso Dio e verso il prossimo,

Infine, credere è vivere con la mente e con il cuore, con il pensiero e con l’azione nella realtà della vita divina.

In ciò ci sono di esempio le vergini consacrate che con la loro vita totalmente donata a Cristo “predicano” la verità amorosa e il vero amore redentivo di Dio. Queste donne testimoniano che la vita cristiana è legata all’Ascensione, perché la nostra vita si realizza andando verso il cielo e dipende dalla fedeltà alle promesse fatte nel Battesimo e rinnovate nella consacrazione. 

Pur nella fragilità umana e certe che Dio è forte nei deboli, le vergini consacrate accompagno lo Gesù-Sposo nella sua ascensione, gioiscono della sua glorificazione vivono anticipatamente la dimensione del Paradiso e ci ricordano che la festa dell’Ascensione del Signore ò la festa liturgica del Paradiso, che si apre all’umanità con l’ingresso solenne di Cristo in cielo, alla destra del Padre. Nel suo addio, Gesù lasciò agli apostoli (e a noi) la sua verità e la sua potenza, perché la sua ascensione non fu una partenza ma una intensificazione della sua presenza fino ai limiti estremi dello spazio e dl tempo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).

 

 

Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona 
Discorso sull'Ascensione del Signore, ed. 
A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)


Nessuno è mai salito al cielo,  fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo.
Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l'apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»(Mt 25, 35).
Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l'amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l'unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell'uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così si esprime l'Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12). L'Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l'unità del corpo non sia separata dal capo.

 

 




giovedì 11 maggio 2023

Il centro del Cristianesimo è amare Gesù, che ci ama di amore infinito

 VI Domenica di Pasqua – Anno A – 14 maggio 2023

Rito Romano

At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

 

Rito Ambrosiano

At 4,8-14; Sal 117; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29

 

            1) Non siamo orfani.

             In questa domenica si continua la lettura del capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, la cui prima parte è stata letta domenica scorsa. Il tema è l’amore, come appare dall’inizio (“se mi amate...” (Gv 14,15) e dalla conclusione (“chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21) del Vangelo di oggi.  I discepoli, terrorizzati dalla possibilità reale che il Maestro muoia, sono rincuorati da Gesù che apre a loro il Suo cuore, chiamandoli “amici” e non “servi”, donando loro in eredità l’Eucarestia e aprendo loro una via nuova: quella dell’amore donato al mondo attraverso la Croce. La Sua Croce è rivelazione concreta di Dio che ama sino al dono totale di sé, segno della sua presenza senza limite nel mondo. Sulla Croce Cristo non fallisce ma porta a pienezza la manifestazione del Suo immenso amore: “Nessuno ha un amore più grande di questo, morire per i propri amici. Voi siete miei amici se fate quello che io comando” (Gv 15, 13-15).  

            Ai Suoi discepoli Gesù insegna che il suo Amore donato è la forza che permette di non rinchiudersi in un passato finito, ma di aprirsi ad un avvenire percepito come lo spazio della loro fedeltà a Lui in una comunità e nel mondo. Solamente il discepolo che accetta la realtà della morte di Gesù, può aprirsi ad una nuova relazione con il Crocifisso-Risorto: la vera “sequela” comincia con la Pasqua, evento che restituisce Gesù al credente in modo nuovo.

             La Croce non è la fine, ma l’inizio di un nuovo cammino, di una relazione, diventata indistruttibile, con Gesù Cristo: con la sua morte e risurrezione, Lui apre la “Via” che conduce alla “Verità” dell’esperienza di Dio che è la “Vita” piena. 

            Quella sera del primo giovedì santo, gli Apostoli impauriti sono consolati da Cristo che oltre a proclamare il Suo amore dice loro: “Non vi lascerò orfani”.  Quella sera Gesù sembra non tanto preoccupato per sé, quanto per i suoi amici, che sa avrebbero conosciuto la profondità della loro debolezza, il grande dolore dell'abbandono, e avrebbero cercato qualcosa che li confortasse. Gesù stesso sarebbe stato consolato dalla presenza di un Angelo, durante la sua agonia nel Getsemani, nel momento in cui sembra potesse nascere anche in Lui la voglia di fuggire dalla crocifissione: “Padre se è possibile, allontana da me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà si compia in me”. È incredibile come Gesù, che ci ha promesso il Consolatore, abbia voluto essere ‘uomo di tutti i tempi’: l’uomo, ogni uomo, che conosce l’abisso della prova e della solitudine. Ma alla fine trionfa il disegno di realizzare il grande disegno di Amore per noi.

            Gesù anche oggi ripete a noi: “Non vi lascerò orfani”. Queste parole furono, sono e saranno sempre una certezza per chi Lo segue, ieri, oggi e sempre; e le ha dette nel momento più difficile della sua esistenza tra noi, fino a giungere al punto, quasi facendosi voce della nostra paura di essere abbandonati da tutti, di proclamare dalla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46). Cristo risorto ci ridice che Chi ama è la dimora dell’amato: lo porta nel cuore, come sua vita. Noi da sempre siamo in Dio, che ci ama di amore eterno; se lo amiamo, anche lui è in noi come noi in lui.

            2) Se mi amate…

            “Se mi amate osserverete i miei co­mandamenti” (Gv 14,15). Le parole di questo versetto si ripetono come un ritornello anche nei versetti 21 e poi 23 e 24.  Non si tratta di una ingiunzione (do­vete osservare) ma di una rivelazione di bontà: “se” amate, entrerete in un mondo nuovo. Tutto comincia con la congiunzione “se”, paroletta carica di delicatezza e di rispetto: se mi amate... "Se": un punto di partenza così umile, così libero, così fidu­cioso che ci aiuta a capire che osservare i comandamenti di Cristo non è obbedire a una legge esterna, ma vivere come Lui nell’amore. Così come i primo apostoli di Cristo e del Vangelo furono mossi dalla amore vissuto come legge, anche noi mossi dall’amore di Cristo siamo mossi a proseguire il compito di portare nel mondo l’amore di Dio fatto carne.

            Se amiamo Cristo, Lui abita i nostri pensieri, le nostre azioni e parole e le cambia. Così facendo, viviamo la sua vita buona, bella e felice. Se amiamo Gesù e osserviamo il suo comandamento dell’amore, non solo non feriamo, non tradiamo, non rubiamo, non mentiamo, non uccidiamo, ma soccorriamo accogliamo, benediciamo.

            Se è vero, come ho detto all’inizio di queste riflessioni, che il tema di oggi è quello dell’amore, è altrettanto vero che le idee dominanti sono due. La prima è che il criterio più adatto per verificare la realtà dell'amore a Cristo è l’obbedienza alla sua volontà, cioè l’osservanza concreta dei comandamenti, che in San Giovanni si riducono al comandamento dell'amore fraterno. E la seconda: la pratica dell’amore è il luogo in cui Gesù si manifesta. 

            L’amore è una “cosa” tale che quando si ama una persona, quella persona è nel nostro cuore e nella nostra mente, e diventa norma della nostra vita. Sappiamo cosa pensa, cosa fa lei e facciamo ciò che lei fa, perché amiamo anche ciò che lei fa. Insomma, l’amore non è solamente un sentimento, tocca tutto l’essere: 

·      tocca il conoscere: noi conosciamo una persona se la amiamo, e “l’amore è la via per conoscere Dio” (Papa Francesco); 

·      tocca il volere: amare è volere il bene dell’altro; voler davvero il suo bene; 

·      tocca l’azione: se tocca l’intelligenza e la volontà, tocca l’azione; è agire come l’altro.


            Quindi l’amore è una comunione nell’essere più profondo, è unione di intelligenza, di volontà e di azione che ci rende come Cristo, Figlio di Dio, con la stessa intelligenza, con la stessa volontà, con la stessa azione. 

 

            3) I “miei” comandamenti.

            Oltre alla congiunzione “se”, vorrei attirare l’attenzione sul pronome possessivo "miei". Gesù dicendo: “Se “osserverete i comandamenti”, dice i “miei” comandamenti. E’ come se dicesse: i comandamenti sono miei non tanto perché prescritti da me, ma perché manifestano ciò che sono io e il vostro futuro. Riassumono me e tutta la mia vita. Se mi amate, vivrete come me e con me”

            Se amiamo Cristo, osservando i suoi comandamenti, Lui abita in noi e cambi i nostri pensieri, le nostre azioni, le nostre parole in pensieri, azioni e parole di bene. E così partecipiamo alla sua libertà, alla sua pace, alla gioia del suo vivere nell’amore.

            La testimonianza, che quanto sto proponendo è vero, ci viene dalla vita delle Vergini consacrate, le quali mostrano discretamente ma decisamente che una vita dedicata a mettere in pratica le sue parole che rende effettivo il seguire Cristo come discepoli (cfr Mt 7,24) ed è l’osservanza dei suoi comandamenti che rende concreto l'amore a Lui e attira l’amore del Padre (cfr. Gv 14,21). Dunque, non c’è amore senza obbedienza (“siete miei amici, se fate ciò che vi comando” Gv 15, 14), ma senza amore l’obbedienza è servile. Celo ricorda Sant’Ambrogio che, rivolgendosi alle Vergini consacrate, ha scritto: “Con quali legami Cristo è trattenuto?... Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13,77). Infine prendendo alla lettera l’insegnamento di San Paolo: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose... per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui” (Fil 3,8-9), queste donne consacrate vivono l’amore con “distacco”. L’amore verginale che sono chiamate a testimoniare a tutti i battezzati, in particolare agli sposi, realizza il bene oggettivo ed effettivo di sé e degli altri se mantiene un atteggiamento di distanza. Solo nel distacco si dà vero possesso in Dio, perché le mani invece di stringersi attorno all’altro si stringono in preghiera. Queste mani giunte aprono il cuore di Dio, che riversa sull’umanità il suo amore misericordioso.

 

Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)

In Ioan. 75, 3-4

 

 Vivere in Cristo


       Che significa «perché io vivo e voi vivrete» (
Jn 14,19)? Perché disse che egli viveva, usando il tempo presente, mentre di essi disse che avrebbero vissuto nel futuro, se non perché egli stava per risorgere anche nella carne, cioè li precedeva su quella via della risurrezione, su cui aveva promesso che i discepoli lo avrebbero seguito più tardi? E, siccome il tempo della sua risurrezione era ormai prossimo, usò il tempo presente per indicarne la rapidità; di essi, la cui risurrezione doveva avvenire alla fine dei secoli, non disse: vivete, ma: «vivrete «. Con stile rapido e significativo, usando due verbi, uno al presente e l’altro al futuro, promise le due risurrezioni, la sua, che stava per accadere, e la nostra, alla fine dei secoli: «Perché io» - disse - «vivo e voi vivrete»; cioè noi vivremo perché egli vive ora. "Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita" (1Co 15,21-22). Nessuno muore se non per colpa di Adamo, e nessuno riottiene la vita, se non per mezzo di Cristo. È perché noi vivemmo, che siamo morti; è perché egli vive, che noi vivremo. Noi siamo morti per Cristo, se viviamo per noi; è invece perché egli è morto per noi, che vive per sé e per noi. Insomma, perché egli vive, noi vivremo. Potremmo infatti da noi stessi darci la morte, ma non potremo ugualmente darci da noi stessi la vita.

       "In quel giorno" - egli continua - " voi conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi" (
Jn 14,20).


       In quale giorno? Nel giorno di cui ha parlato prima quando ha detto: «e voi vivrete «. Allora noi potremo finalmente vedere ciò in cui oggi crediamo. Infatti, anche ora egli è in noi e noi siamo in lui: è vero in quanto ci crediamo, mentre allora sapremo. Ciò che ora sappiamo con la nostra fede, allora lo sapremo perché vedremo. In effetti, finché siamo in questo corpo quale è ora, cioè corruttibile e che appesantisce la nostra anima (
Sg 9,15), peregriniamo per il mondo lontani dal Signore; e camminiamo verso di lui per mezzo della fede, non perché abbiamo di lui la chiara visione (2Co 5,6). Allora, invece, lo vedremo chiaramente, perché lo vedremo qual è (cf. 1Jn 3,2). Se Cristo non fosse in noi anche ora, l’Apostolo non potrebbe dire: "Se poi Cristo è in noi, il nostro corpo è morto per causa del peccato, ma lo spirito è vita per ragione di giustizia" (Rm 8,10). Egli stesso apertamente mostra che anche ora noi siamo in lui, laddove dice: "Io sono la vite, voi tralci" (Jn 15,5). Dunque in quel giorno, quando vivremo in quella vita che avrà completamente distrutto la morte, conosceremo che egli è nel Padre, e noi in lui e lui in noi; perché allora vedremo compiersi ciò che egli stesso ha incominciato, affinché appunto noi si fosse finalmente in lui e lui in noi.



Bernardo di Chiaravalle (1090 -1153)

In Cant. Cant. Sermo 74, 6


       Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito ia sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.

 



 

giovedì 4 maggio 2023

Si arriva alla Vita per le Via della Verità.

V Domenica di Pasqua – Anno A – 7 maggio 2023

Rito Romano

At 6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

 

Rito Ambrosiano

At 10,1-5.24.34-36.44-48a; Sal 65; Fil 2,12-16; Gv 14,21-24

 

 

            1) Si abita dove si è amati.

            Il Vangelo di questa Quinta Domenica di Pasqua inizia con l’invito di Gesù a non lasciarsi prendere dalla paura: “Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1). Ai discepoli turbati dal fatto che stanno per assistere alla sua passione e morte, Cristo dice loro di non avere paura e di avere fede in Dio e il Lui.  Lui, con il suo stare con loro (e con noi),  ha mostrato il Padre e ha aperto il cammino verso la casa paterna. Con il suo andarsene in questo modo, ci dà la forza di seguirlo. Chi crede in lui, trova la via del ritorno a casa: partecipa alla sua vita di Figlio e conosce la verità di Dio come Padre.  Come risposta alla paura della sofferenza e della morte, dell’incertezza del futuro, il Redentore Messia dice che c'è un solo modo per vincere questa paura: la fede in Dio e la fede in Lui. E ha ragione: soltanto Dio è la roccia. Le altre sicurezze deludono. L’amore di Dio è fedele e non ci abbandona mai: questa è la grande certezza che rasserena il credente.

 Accogliere l’invito: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1), non è un’adesione astratta ad un messaggio ma un’adesione amorosa e fiduciosa ad una persona, Cristo, da seguire quotidianamente, nelle semplici azioni che compongono la nostra giornata. 

Questa amorosa fiducia permette che entrino nel nostro cuore e comprendiamo le parole che Gesù dice nel versetti successivi: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14, 2-3). Quale senso hanno queste parole? Il significato di queste parole è che la vera questione non è dov’è la casa del Padre, ma chi è la casa del Padre? Il Figlio, il suo corpo. 

Per questo alla domanda: dove abita il Padre e dove abita il Figlio? Gesù ci risponde: “Il Padre è in me e io sono nel Padre” (Gv 14, 11), perché uno abita dove è amato. Il Padre abita pienamente nel Figlio che lo accoglie, come il Figlio abita pienamente nel Padre. Ora in questa casa del Padre c’è posto per molti, ci sono molte dimore. Quante dimore ci sono nel Padre? Quanti sono i figli, perché se non ci fosse  un posto per ciascuno di noi non sarebbe Padre giusto e misericordioso. 

Per questo alla domanda: dove abitiamo noi? La risposta è: la nostra casa è nel cuore del Padre.  

Ma questa risposta fa nascere un’altra domanda: in che senso Cristo, Fratello nostro, ci prepara un posto in casa “nostra”? Ce lo prepara nel senso che ce lo fa conoscere, perché noi non sapevamo di essere figli nel Figlio. Quindi Cristo ci rivela che siamo figli e quindi abbiamo un posto nel Padre. E poi non solo ce lo rivela, ma ci dona il suo amore perdonandoci e facendosi cibo per noi, in modo che mediante l’amore anche noi abitiamo nel Padre e il Padre in noi.

 

2) La via verso casa della vera vita.

Già nell’Antico Testamento il credente pregava: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario” (Sal26/27, 4). Ma va detto che questa domanda di felicità e di amore vero, quindi santo, è nel cuore di ogni essere umano, di ogni luogo e di ogni tempo. All’uomo che cerca il senso della vita, di una vita che duri e che abiti nell’amore Cristo, dice:“Io sono la via”. A questo riguardo Sant’Agostino commenta: “Prima di dirti dove devi andare, ha premesso per dove devi passare e disse: ‘Io sono la via’. La via per arrivare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il termine dove vuoi arrivare. ‘Io sono la via, Io sono la verità, Io sono la vita’. Rimanendo presso il Padre, era verità e vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato la via”. 

            Gesù è la via per giungere alla vita, anzi Lui stesso è la vita. Innanzitutto Lui è la vita: si dice infatti “in lui era al vita”, e poi che egli è la verità, perché “era la luce degli uomini” (Gv 1, 4). E la luce è la verità. Se dunque cerchi per dove passare, accogliamo Cristo perché Lui è la via: “Questa è la strada, percorretela” (Is 30, 2).

            Lui è la via per arrivare alla conoscenza della verità, anzi è la stessa verità: Guidami, Signore, nella verità e camminerò nella tua via (cfr. Sal 85, 11). Similmente egli è la via per giungere alla vita, anzi, egli stesso è la vita: “Mi hai fatto conoscere il sentiero (via) della vita” (Sal 15, 11 volgata).

Questa via è la via dell’amore compiuto, è la via del lavare i piedi, del boccone dato a Giuda, del dono e  del perdono, è la via della Croce, è la via che ci riconduce alla casa del Padre, è l’unica via, quella dell’amore che ci fa essere con lui e come Lui, che ci vuole bene. 

            Per camminare sulla Via della Verità e della Vita prendiamo sul serio l’invito di San Paolo quando scrisse: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (Fil 2,5[1]), che “non si spogliò di nessuna parte costitutiva della sua natura divina, e ciò nonostante mi salvò come un guaritore che si china sulle fetide ferite. Era della stirpe di David, ma fu il creatore di Adamo. Portava la carne, ma era anche estraneo al corpo. Fu generato da una madre, ma da una madre vergine, era circoscritto, ma era anche immenso. E lo accolse una mangiatoia, ma una stella fece da guida ai Magi, che arrivarono portandogli dei doni e davanti a lui piegarono le ginocchia. Fu vittima, ma anche sommo sacerdote; fu sacrificatore, eppure era Dio. Offrì a Dio il suo sangue, e in tal modo purificò tutto il mondo. Una croce lo tenne sollevato da terra, ma rimase confitto ai chiodi il peccato. Il Figlio immortale assunse su di sé la forma terrena, perché Lui ti vuol bene” (San Gregorio di Nazianzo).

            Per rispondere e corrispondere a questo “essere voluti bene”, a questo amore fraterno dobbiamo sentire come Cristo sentiva. Perciò dobbiamo conformare il nostro modo di pensare ai sentimenti di Gesù, che aveva sentimenti di amore e di compassione, di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.  

           Ma non basta. Per amare davvero Cristo ed avere il vero amore dobbiamo osservare i suoi comandamenti. Sono le opere che testificano i sentimenti.

 

 

            3) Vita consacrata è opera e vita di amore.

            Tutti i credenti sono chiamati a testimoniare questo amore, che è via vera e vitale verso la Casa del Padre, ma le vergini consacrate ne sono una testimonianza speciale perché -con il dono totale di se stesse a Cristo- sono in modo particolare innestate nel suo cuore e rese capaci di amare con il Suo amore, di donare con il Suo cuore, di servire con la Sua luce, di operare con i Suoi doni. Con l’offerta completa di se stesse e la letizia della loro vita queste donne testimoniano che Cristo è la Via, la Verità e la Vita del mondo. Le consacrate sono testimoni di ciò mediante il linguaggio eloquente di un’esistenza trasfigurata, capace di sorprendere il mondo. Allo stupore degli uomini queste donne rispondono con l'annuncio dei prodigi di grazia che il Signore compie in coloro che Lui ama e che umilmente Gli rispondono accettandolo come Sposo.

            Queste donne manifestano che Gesù è la via in quanto libertà, libertà che sa dare la vita, e ci ricordano che testimoniare non è tanto il dare il buon esempio quanto trasmettere il messaggio cristiano “per via” di esempio, “per via” di parola, “per via” di opere, “per via” di vita vissuta in favore della verità posseduta come valore superiore al proprio stesso benessere e alla propria vita.

            Inoltre. testimoniano che, donandosi senza riserve a Cristo, si riceve la vera vita: la vita di Dio, e che Cristo ci ha donato l’amore di Dio come nostra vita. In effetti, “non basta che Cristo sia via, non basta che sia verità, deve essere vita” (Benedetto XVI). Gesù, Parola del Padre, è la Via per trovare la mèta, la Verità per non confondere il bene dal male, e la Vita per non restare schiavi della morte (Papa Francesco).  

            Insomma, queste donne consacrate vivendo una relazione personale con Cristo mostrano che Lui-Sposo non solamente è un maestro dal quale ci si limita a imparare qualche cosa. Lui è la verità stessa: bisogna, quindi, avere un rapporto personale con lui. Percorrendo quella via e costruendo un rapporto con quella verità si arriverà alla vita, grazie alla quale si sta con il Padre, nella sua e nostrea casa.

 

 

 

 

Lettura Patristica

San Agostino d’Ippona

Discorso 141

La verità scoperta dai filosofi secondo questo mondo non è la Via.

1. Leggendosi il santo Vangelo, avete udito tra l'altro ciò che afferma il Signore Gesù: Io sono la via, la verità e la vita 1. Ogni uomo desidera la verità e la vita, ma non ogni uomo trova la via. Anche alcuni filosofi secondo questo mondo hanno riconosciuto che Dio è una certa qual vita eterna, immutabile, intellegibile, intelligente, sapiente, datore agli uomini di sapienza. Senza dubbio riconobbero che la verità è fissa, irremovibile, immutabile, comprensiva di ogni ragione d'essere di tutte le cose create, ma a distanza; l'avvistarono, ma attenendosi a false credenze; e proprio per questo non trovarono la via per la quale giungere a quel così alto, inesprimibile e beatificante possesso. Infatti scoprirono anch'essi (per quanto può essere colto dagli uomini) il creatore attraverso la creatura, il fattore attraverso la fattura, il costruttore del mondo attraverso il mondo; ne è testimone l'apostolo Paolo, al quale tutti i Cristiani sono senz'altro tenuti a credere. Riferendosi a costoro, afferma: L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà. Queste, come riconoscete, sono parole dell'apostolo Paolo. L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che recludono la verità nell'ingiustizia 2. Ha detto forse di loro che non possiedono la verità? Ma recludono la verità nell'ingiustizia. E' un bene ciò che possiedono, ma è un male che lo tengano dove viene recluso. Recludono la verità nell'ingiustizia.

Come hanno intravisto la verità.

2. Ma bisognava che gli si dicesse: Com'è che quegli empi possiedono la verità? Dio ha forse parlato con qualcuno di loro? Forse che hanno ricevuto la legge come il popolo degli Israeliti per mezzo di Mosè? Come dunque possiedono la verità addirittura nella stessa ingiustizia? Ascoltate quanto segue e lo spiega. Poiché ciò che di Dio si può conoscere - dice - è loro manifesto; Dio stesso infatti lo ha loro manifestato. A quelli si manifestò, a quanti non aveva dato la legge? Si manifestò, ascolta in che modo: Le sue perfezioni invisibili possono infatti essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute. Interroga il mondo, la magnificenza del cielo, lo splendore e l'armonia degli astri, il sole rispondente alle esigenze del giorno, la luna a moderare l'oscurità della notte; interroga la terra feconda di erbe e di alberi, piena di animali, ordinata per gli uomini; interroga il mare che contiene gran quantità e varietà di animali acquatici; interroga l'atmosfera, cui conferisce vivacità un gran numero di volatili; interroga tutte le cose e vedi se, a loro modo, non ti rispondono: Dio ci ha fatti. Filosofi nobili hanno fatto di queste ricerche, e dall'opera compiuta hanno conosciuto l'Artefice. Che dunque? Per quale ragione l'ira di Dio si rivela contro ogni empietà? Perché recludono la verità nell'ingiustizia? Venga [l'Apostolo], dimostri in che modo. Ha già detto infatti come sono giunti a conoscere. Le sue, cioè di Dio, perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, anche la sua eterna potenza e divinità, perché siano inescusabili. Infatti, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria, né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa; infatti mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 3. Ciò che scoprirono spinti dalla brama di sapere lo perdettero per superbia. Mentre si dichiaravano sapienti, cioè, attribuendo a se stessi il dono di Dio, sono diventati stolti. Ripeto, sono le parole dell'Apostolo: Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti.

Stoltezza degli adoratori degli idoli.

3. Dimostra, prova la stoltezza di costoro. Spiega, o Apostolo, e come hai fatto capire a noi, in che modo ad essi è stato possibile giungere al concetto di Dio, poiché le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, così spiega ora in che modo mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti. Ascolta: Perché - egli afferma - hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio nella somiglianza della figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili 4. Infatti, della figura di questi animali i Pagani se ne fecero dèi. Tu hai trovato Dio e adori un idolo. Hai scoperto la verità ed è appunto la verità che recludi nell'ingiustizia. E per via di ciò che è esecuzione della mano dell'uomo, perdi quello che hai conosciuto attraverso le opere di Dio. Hai considerato tutto ciò che esiste; hai colto nell'insieme la disposizione ordinata del cielo, della terra, del mare e di tutti gli elementi; non vuoi fare attenzione a questo: il mondo è opera di Dio, un idolo è fattura di un artigiano. Se l'artigiano desse all'idolo anche una mente, come ha dato la forma, l'artigiano sarebbe adorato dallo stesso idolo. Infatti, o uomo, a quel modo che Dio è il tuo artefice, così l'uomo è artefice dell'idolo. Chi è il tuo Dio? Colui che ti ha formato. Chi è il Dio dell'artigiano? Colui che lo ha formato. Chi è il Dio dell'idolo? Colui che lo ha formato. Quindi, se l'idolo avesse una mente, non adorerebbe l'artigiano che lo ha formato? Ecco in quale ingiustizia hanno relegato la verità, ma non hanno trovato la via che conduceva al possesso di quella verità che avevano intravisto.

Cristo si è fatto via.

4. Ma Cristo che presso il Padre è verità e vita, è il Verbo di Dio del quale è stato detto: La vita era la luce degli uomini  5. Appunto perché presso il Padre è verità e vita e noi non avevamo una via da seguire per giungere alla verità, il Figlio di Dio, che nel Padre è per l'eternità verità e vita, assumendo la natura dell'uomo si è fatto via. Passa attraverso l'uomo e giungi a Dio. Per lui passi, a lui vai. Non cercare al di fuori di lui per dove giungere a lui. Se egli non avesse voluto essere la via, saremmo sempre fuori strada. Perciò si è fatto la via per dove puoi andare. Non ti dico: Cerca la via. E' la via stessa a farsi incontro a te: Alzati e cammina. Cammina con la condotta, non con i piedi. Molti infatti hanno un passo regolare, ma con il comportamento procedono male. A volte quegli stessi che vanno avanti bene finiscono per cadere. Troverai senz'altro uomini di vita onesta, ma non Cristiani. Vanno di buon passo e bene, ma la loro sollecitudine non è lungo la via. Quanto più si affrettano, tanto più si sbandano perché si allontanano dalla vera via. Nel caso, invece, che uomini tali giungano alla vera via e senza deviare, questa è allora la sicurezza perché e camminano speditamente e non si smarriscono. Ma se sono sviati, vadano pure avanti bene quanto si vuole, come c'è da compiangere! E' preferibile camminare zoppicando sulla via, ad un incedere energico fuori strada. Queste cose bastino alla Carità vostra.

 

 

 

 

 

 



[1]  Questa frase è seguita da queste parole “… Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 5-11)