domenica 27 febbraio 2022

Chi ha un cuore puro non è cieco.

VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 febbraio 2022


Rito Romano

Sir 27,4-7; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45


Rito Ambrosiano

Sir 18,11-14; Sal 102; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10

Ultima Domenica dopo l’Epifania - detta “del perdono”



1) Chi è il vero cieco?

Il  Vangelo della liturgia di oggi ci propone  i versetti finali del discorso che  Gesù stava facendo nella pianura vicina al lago di Galilea. Nella parte finale del brano evangelico di domenica scorsa  il Figlio di Dio invitava ad essere misericordiosi come il Padre celeste, indicando quattro modi di essere e di agire per praticare la misericordia: non giudicare, non condannare, assolvere e dare senza misura.

Allora come oggi, Cristo ci invita a fare in modo che le beatitudini dirigano la nostra vita. A questo riguardo va ricordato che questo dato fondamentale della vita cristiana: la vita morale è conseguenza di un incontro e di una appartenenza a Dio-Amore , non uno sterile, farisaico moralismo. Gesù ci chiede di essere misericordiosi perché il Padre è misericordioso: il nostro agire è conseguenza dell'incontro che abbiamo avuto con Gesù, il Redentore. 

Nel Vangelo di oggi Cristo prosegue il suo  insegnamento sulla misericordia con tre brevi parabole più un paragone tra discepolo e maestro

La parabola del cieco che guida un altro cieco la più breve delle parabole, occupa una riga: “Può forse un cieco guidare un cieco? Forse non cadranno entrambi in una fossa?” (Lc 6. 39), e sembra rivolta agli animatori della comunità che pensano di essere i detentori della verità e per tanto di essere superiori agli altri e, quindi, non praticano la misericordia. Per questo sono guide cieche, perché non sanno distinguere tra l'ispirazione dello Spirito e la spinta oscura del male. Chi pensa che ci sia una via superiore alla misericordia è un cieco. Credo che in questo caso si possa interpretare “cieco” non come  “persona non vedente dal punto di vista fisico”, ma come persona che non sa da dove viene e dove va. E’ un cieco spirituale che non conosce né sé, né Dio, né gli altri, perché Dio è misericordia.

Cosa accade a chi vuole tentare vie superiori a quelle di Dio? Cade nella fossa del morte, perché lontano dalla misericordia di Dio non c’è vita. Voler guidare gli altri può sembrare un gesto di amore, ma quando si è ciechi e si pretende di essere guide, non è vero amore, è puro egoismo, che porta nel burrone.

Al versetto 40 del Capitolo 6 del Vangelo di Luca, Cristo prosegue il suo discorso dicendo: “Non c’è discepolo sopra il Maestro” (Lc 6, 40). E’ come se affermasse: Se qualcuno pensa di fare qualcosa di migliore di quello che ho fatto io che sono il Maestro, sbaglia per essere buoni discepoli cristiani “basta” essere come lui : umili operatori di misericordia. La presunzione, fra l’altro, è segno di stupidità

E poi continua, fino ai vv. 41 e 42 che vale la pena di rileggere: “”Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. In questo modo il Redentore ci dice chi sono i cattivi maestri: sono quelli ciechi alla misericordia, sono quelli presuntuosi che sono, poi, giudici spietati con gli altri. sono benevoli con se stessi e guardano tutte le pagliuzze negli occhi degli altri e non si accorgono di avere una trave nell’occhio. Provate a immaginare un uomo con la trave nell’occhio. Provate a mettervi una trave nell’occhio. Siete morti Cioè chi giudica senza usare la misericordia è morto. Uno che sta lì a rifare le bucce all’altro, a guardare tutte le pagliuzze nell’occhio altrui è morto nel cuore.

A questo riguardo San Cirillo di Alessandria commenta: “Gesù ci convince con argomenti irrefutabili di non voler giudicare gli altri e di scrutare i nostri effetti è Lui che guarisce quelli che hanno il curo contrito e ci libera dalle malattie spirituali.. Infatti se i peccati che ci travolgono sono più grandi e più gravi di quelli degli altri perché, li rimproveriamo senza preoccuparci dei nostri peccati? Tutti quelli che vogliono vivere con la pietà e, soprattutto quelli che hanno il compito di istruire gli altri, tireranno vantaggio da questo comando di Cristo. Se sono virtuosi e temperanti, dando l'esempio di vita evangelica con le loro azioni, rimprovereranno con dolcezza quelli che non si sono decisi a fare la stessa cosa, ricordando loro che devono prendere come modelli i modi di vivere conformi alla virtù dei maestri.” ( Commentario al Vangelo di Luca 6, PG 72, 604)

Insomma, nella parabola della pagliuzza nell'occhio del fratello, Gesù ci chiede un atteggiamento che ci renda capaci di andare incontro all'altro con un'apertura totale per rapportarci con Dio con fiducia di figli. Dunque giudichiamo non per punire ma per condividere, per correggersi (reggersi con) fraternamente per andare a Cristo e innestarsi a Lui, albero della vita.


2) L’albero buono. Un amore senza condizioni, questa è la legge di Dio.

Con la parabola dell’albero che dà buoni frutti Gesù ci fa sapere che credere veramente in lui significa praticare il bene altrui e non l'egoismo, mentre, la persona che non si impegna ad imitarlo, avrà difficoltà a compiere il bene perché il suo cuore è sterile.

Per concludere si può dire: nessuno sarà giudicato sulla base di regole che egli si impone dall'esterno, ma da ciò che gli succede nel proprio cuore. Bisogna convertirsi, il che comporta il capovolgimento del proprio cuore, una conversione della mente.

L’apostolo Giacomo chiama la legge di Dio “legge di libertà” (Gc 2, 11-12). Questo apostolo ci invita a parlare e ad agire come persone che devono essere giudicate secondo la legge della libertà.

La legge dell’amore è una legge di libertà. E’ quella dei “liberi” che in latino vuole dire anche figlio, perché “liberi” nella concezione di famiglia del mondo romano di quei tempi è quella parte di famiglia che si contrappone agli “schiavi”. Sono i figli. La nostra legge è quella dei “figli”. E che legge hanno i figli? La legge di libertà, la legge dei figli, cioè la legge dell’amore, perché, avendo ricevuto l’amore della madre e del padre, sanno amare se stessi e gli altri come se stessi, come sono amati. Questa è l’unica legge. E chi ama il prossimo compie tutta la legge. Questa è la legge di libertà.

E continua ancora Giacomo: E il giudizio sarà senza misericordia per chi non avrà usato misericordia. Perché il giudizio non lo fa Dio, ma lo facciamo noi nella nostra vita concreta nei rapporti con l’altro. Se giudico l’altro, giudico Dio e condanno Dio che ama l’altro come ama me. Quindi rifiuto l’amore di Dio. Quindi rifiuto Dio. L’unico peccato è il non amare l’altro, è il giudicare l’altro, è il condannare l’altro. E’ l’altro che sbaglia, perché l’altro, state sicuri, sbaglia sempre! Siamo noi che facciamo giusto. Eppure Dio non lo giudica, lo perdona. Perché è chiaro che pensa sbagliato, se pensasse giusto penserei la stessa cosa anch’io! Ragioniamo sempre tutti così.

E poi continua: la misericordia però ha sempre la meglio nel giudizio. Questa è la bella legge di libertà, alla quale convertirci.

Un esempio di questa conversione è quella di San Paolo. Questo Apostolo non si è convertito dal peccato alla bontà, si è convertito dalla “perfezione” della legge antica osservata fino in fondo, fino a perseguitare i cristiani perché erano una setta che non era buona. La sua conversione è stata dalla giustizia alla conoscenza di Dio che ama tutti.

Questa è la giustizia di Dio. Dalla legge al Vangelo.

Mi sia concesso paragonare una realtà piccola a quella grande di San Paolo e di affermare che anche le vergini consacrate sono un esempio di conversione all’amore di Cristo riconosciuto come Sposo.

Come ricorda ESI: “La sequela del Signore consiste in una continua conversione, in una progressiva adesione a Lui: è un processo che interessa tutte le dimensioni dell’esistenza – corporea e affettiva, intellettiva, volitiva e spirituale – e si estende per tutta la durata della vita, giacchè nessun consacrato « potrà mai ritenere di aver completato la gestazione di quell’uomo nuovo che sperimenta dentro di sé, in ogni circostanza della vita, gli stessi sentimenti di Cristo ». La grazia della consacrazione nell’Ordo virginum definisce e configura in modo stabile la fisionomia spirituale della persona, la orienta nel cammino dell’esistenza, la sostiene e la rafforza in una risposta sempre più generosa alla chiamata” ((Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago, n. 74 -75).

Queste donne consacrate ci testimoniano che se ci convertiamo a Cristo che ci invita a dimorare in Lui per far dimorare in noi la sua lieta novella, capiremo sempre meglio che il significato vero del comandamento di Dio non è quello di essere una imposizione, ma di essere una comunicazione di amore. Il “comando” di convertirsi è un invito d’amore, che Cristo rivolge ai suoi discepoli perché entrino in comunione con lui, perché accolgano la sua offerta di amicizia fraterna.



Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)

Sermo Guelferb. 32, 10




       Se, dunque, anche i cattivi possono dir cose buone, chiediamo un po’ al Cristo, non per contestarlo, ma proprio per imparare da lui: Signore, se i cattivi possono dir cose buone - per cui ci ordinasti: fate quello che dicono, ma non fate quello ch’essi fanno - se possono dir cose buone, com’è che altrove dici: "Ipocriti, non potete dir nulla di buono, perché siete cattivi" (
Mt 12,34)?

       Riflettete sul problema, perché con l’aiuto del Signore possiate vederne la soluzione. Vi ripeto la domanda. Il Cristo dice: "Fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno, perché dicono e non fanno". Essi stessi non fanno quello che insegnano. Perciò dobbiamo fare quello che dicono, ma ciò ch’essi fanno, noi non lo dobbiamo fare. Altrove è detto: "Che forse si raccoglie uva dalle spine o fichi da un cespuglio? L’albero lo si riconosce dai suoi frutti" (
Mt 7,16). Che dobbiamo fare, allora? Come dobbiamo interpretare queste parole? Ecco qua rovi e spine. Fate. Mi chiedi di raccogliere uva dalle spine: qua comandi, là proibisci, come farò a ubbidire? Senti, cerca di capire. Quando dico: "Fate ciò che dicono, non fate ciò che fanno", devi ricordarti di quella mia parola: "Si son seduti sulla cattedra di Mosè". Quando dicono cose buone, non son loro a dirle, è la cattedra di Mosè che le dice. La cattedra sta per la dottrina, è la dottrina di Mosè che parla; e la dottrina di Mosè sta nella loro memoria, ma non sta nelle loro opere. Quando però son loro a parlare, quando esprimono se stessi, qual è il commento? "Come potete dir cose buone voi, che siete cattivi"? Sentite l’altra similitudine. Non andate a cercar uva tra le spine; perché l’uva non viene sulle spine. Ma non vi siete accorti del tralcio che, crescendo, si spinge nella siepe, si mescola alle spine e lì fiorisce e tira fuori un grappolo? Hai fame, passi e vedi un grappolo tra le spine. Hai fame e vorresti prenderlo: prendilo, allunga la mano con cautela: guardati dalle spine, prendi il frutto. Così quando un uomo, sia pur pessimo, ti offre la dottrina di Cristo: ascoltala prendila, non rigettarla. Se lui è cattivo, le spine son sue, se dice cose buone, il grappolo pende tra le spine, non nasce dalle spine. Se hai fame, prendilo, ma guarda le spine. Se ti metti a imitar le sue azioni, stendi incautamente la mano: hai afferrato le spine prima del frutto: ne resti ferito, graffiato: non è il frutto che ti nuoce, esso viene dall’uva, sono le spine, che hanno un’altra radice. Per non sbagliarti, guarda dove prendi il frutto: c’è la vite. C’è un tralcio e vedi che appartiene alla vite, vien dalla vite, ma è capitato tra le spine. Dovrebbe forse la vite trattenere i suoi tralci? Così capita alla dottrina di Cristo: cresce, si spande e s’innesta su alberi buoni e su spine cattive e vien poi annunziata da buoni e da cattivi. Ti tocca guardare da dove viene il frutto, da dove nasce ciò che ti alimenta e da dove viene ciò che ti punge; si presentano insieme, ma la radice è diversa.


sabato 19 febbraio 2022

Imparare la logica dell’amore

 

VII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 20 febbraio 2022

Rito Romano:

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; 1Cor 15,45-49; Lc 6, 27-38

Rito Ambrosiano

Dn 9,15-19; Sal 106; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17

Penultima Domenica dopo l’Epifania detta “della divina clemenza”


  1) La felicità di amare il nemico.

Le esigenze dell’amore, il comandamento nuovo, che Gesù ha portato nel mondo, “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi...” (Gv 19,12) sono la trama del brano del Vangelo di oggi, che è come il coronamento delle beatitudini, sulle quali abbiamo meditato domenica scorsa. Oggi Cristo ci dice: “A voi, che ascoltate, io dico: amate...”. Sul motivo conduttore dell’amore si articola tutto il discorso del Redentore, un discorso che manifesta la logica di Cristo e che non sempre è facile fare nostra, nelle concrete situazioni della vita.

“Amate” dice Gesù, ma l’amore, di cui Lui parla, non ha i confini della famiglia, né della cerchia degli amici o delle persone gradevoli. L’amore di cui il Signore parla ha il sapore di una sfida: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano”, un amore, che non è solo sentimento, ma si realizza nella concretezza dei gesti: “Fate del bene a chi vi odia....pregate per chi vi maltratta...a chi vi percuote sulla guancia, porgete l’altra...date a chiunque chiede....e a chi prende del vostro, non richiedetelo”. Un amore senza limiti, dunque, ma non un assurdo, perché questo modo di amare è il modo di amare di Dio, che si è reso visibile nel suo Figlio Gesù. Se, infatti, contempliamo la passione di Cristo vediamo come Lui, intravediamo la passione di Cristo, nella quale Lui mette in pratica le parole che oggi ci dice: parole di offerta, di amore e di perdono nei confronti del mondo che lo sta condannando a morte. Come Gesù preghiamo per i carnefici, offriamo la nostra a guancia, apriamo la porta del perdono come Lui ha aperto la porta del paradiso ad un ladrone.

Gesù è sempre colui che dà e che si dà. Così è chiamato ad essere anche il cristiano, guidato dalla regola d'oro: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fatelo a loro”.

E teniamo presente che l’amore al nemico è il vertice dell’amore del prossimo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il “più lontano”: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.

Dobbiamo tenere presente che la figura del nemico di cui Luca parla è, possiamo dire, quotidiana, normale: non si tratta del persecutore, ma più semplicemente di chi sparla di noi, ci odia e ci maltratta. Le esemplificazioni concrete sono numerose, e vanno al di là dello stretto ambito del nemico: si parla infatti non solo di chi odia, percuote, ruba, ma anche di chi chiede un prestito senza avere poi la possibilità di ridare. Luca è particolarmente interessato a sottolineare la gratuità dell'amore.

Le motivazioni che giustificano l'amore al nemico sono due: distinguersi dai peccatori ed essere figli dell'Altissimo. Si tratta di comportarsi come il proprio Dio, “benevolo verso gli ingrati e i cattivi”. L'aggettivo “benevolo” in greco “χρηστός (chrestòs)” dice l’amore attento, accogliente, mite, che non fa pesare ciò che dona. E “ingrato” in greco ἀχαρίστos (acharìstos) sottolinea una volta di più l’assenza di ogni pretesa di reciprocità. Non si ama il lontano perché si avvicini. Lo si ama perché si vuole prolungare fino a lui la benevolenza di Dio. Anche se ci sembra paradossale, educhiamo in noi la capacità di amare l’altro senza suo merito, richiamando alla mente che Dio ci ha amati dall’eternità, e quindi ancor prima che nascessimo. Quindi Dio ci ha amato d’un amore eterno e continua ad amarci d’un amore fedele non per nostro merito, ma per purissimo e disinteressato suo amore. Non aveva bisogno di noi, ma ci ha creato per puro suo amore, allo scopo di farci felici come lo è Lui.

2) Imparare la logica di Dio.

La logica di Cristo sconvolge totalmente la nostra logica. Il comando dell’amore dei nemici e del perdono è il più scandaloso, incomprensibile, illogico per i discepoli di Gesù di duemila anni fa come per noi oggi. Ci viene chiesto infatti di agire non secondo il nostro istinto e la nostra umanità, ma secondo Dio, come Dio. E “come Dio” significa: essere misericordiosi. Chi si vendica vuole una vittoria per se stesso. Chi perdona dà la possibilità all'altro di vincere, ossia di aprirsi alla vita di Dio.

La logica di Dio è sempre “altra” rispetto alla nostra, come Dio stesso rivela per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo, seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda conversione, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è totale pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. La Vergine Maria è perfettamente “sintonizzata” con Dio: invochiamola con fiducia e imitiamola con generosità, seguendo con lei fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.

La logica di Dio non è disumana, anzi fa fiorire la nostra umanità. Non dobbiamo, quindi, avere paura di assumere la logica di Dio, anche se è la logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita” (Papa Francesco).

La logica di Dio è diversa dalla nostra. Anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere alla nostra libertà. Se assumiamo la logica di Dio useremo il nostro potere non con la violenza, né con la distruzione, ma con l’amore, nella misericordia, nel perdono. Questo modo di agire è solo apparentemente debole, perché in realtà “solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell’amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli” (Benedetto XV).

La logica di Dio è condivisione e misericordia., che non ragiona secondo premi o castighi, ma in base all’accogliere a tutti coloro che richiedono misericordia e perdono, e che tutti tornino a essere fratelli” (Papa Francesco).

Se impariamo la logica di Dio capiamo anche la verginità, che è imitazione di Cristo, Logos di Dio. Essa è la forma più alta d'immedesimazione con l’umanità del Redentore. Gesù ha vissuto una completa dipendenza amorosa dal Padre. Il Figlio e il Padre sono una cosa sola, egli fa quello che il Padre gli dice, quello che piace al Padre (cfr.  Gv , 8, 28-29; 10, 30; 14, 31). Questo è innanzitutto la verginità: vivere interamente per Dio, partecipare della sua volontà, dedicare tutte le proprie energie al suo regno nel mondo. 

Un esempio di vita vissuta nella logica della verginità è quella delle vergini consacrate. In un tempo come il nostro, così denso di erotismo e di permissività sessuale, potrebbe risultare incomprensibile riflettere sulla verginità consacrata. Nei confronti della verginità, oggi, forse più che contestazione, c’è tanta confusione, accompagnata da poca fede e scarso coraggio di proporre la bellezza e la fecondità di questa scelta di vita cristiana. La verginità consacrata è un dono, un carisma, un evento di grazia per chi, in vista del Regno, instaura un rapporto personale ed esclusivo con Cristo, decidendo radicalmente di non possedere nulla, neanche il proprio corpo. La verginità consacrata, vissuta nella Chiesa locale, si nutre dell’innamoramento, non c’è altra spiegazione logica o razionale.

L’unica gioia della vergine è e sarà Cristo. Dunque le vergini consacrate sono chiamate a vivere questa vocazione testimoniando che La verginità cristiana si pone così nel mondo come segno manifesto del Regno futuro perché la sua presenza rivela la relatività dei beni materiali e la transitorietà del mondo stesso. In questo senso, come il celibato del profeta Geremia, essa è profezia della fine imminente, ma al tempo stesso, in forza del legame sponsale con Cristo, annuncia anche l’inizio della vita del mondo futuro, il mondo nuovo secondo lo Spirito. Il segno, così, come accade nella visione biblica, non è un riferimento puramente convenzionale o la pallida immagine di una realtà lontana, ma la realtà stessa nella sua manifestazione incipiente. Nel segno è contenuta, anche se ancora nascosta, la realtà futura.

La verginità consacrata si colloca perciò nell’orizzonte di una sponsalità, che non è teogamica (vale a dire di matrimonio con la divinità) ma teologale, cioè battesimale, perché riguarda l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa (cf. Ef 5,25-26). Si tratta di una realtà salvifica soprannaturale e non solo umana, che non può essere spiegata con la logica della ragione ma con la fede, perché – come ricorda la Scrittura – Tuo sposo è il tuo creatore (Is 54,5). Essa è una delle grandi opere dell’ordine nuovo inaugurato con la Pasqua di Cristo e l’effusione dello Spirito, esperienza difficile da comprendere per l’uomo carnale e comprensibile solo a chi si lascia istruire dallo Spirito di Dio (cf. 1Cor 2,12-13) (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago, n. 17).


Lettura patristica

Ambrogio

In Luc., 6, 73-77


 Amare i nemici

       La carità ci viene ordinata, quando ci viene detto: "Amate i vostri nemici" (Lc 6,27), e così si realizza quella parola della Chiesa di cui abbiamo parlato prima: "Ordinate in me la carità" (Ct 2,4), poiché la carità viene ordinata quando sono formulati i precetti della carità stessa. Osserva come si cominci dalle cose più elevate, e si volga le spalle alla legge dopo le beatitudini.

       La legge comanda il ricorso alla vendetta (cf. Ex 21,23-26); il Vangelo richiede per i nemici carità, bontà per l’odio, benedizioni per le maledizioni, invita a dare soccorso a chi ci perseguita, diffonde la pazienza tra gli affamati e la grazia della rimunerazione. Quanto è più perfetto di un atleta colui che non si risente per l’offesa.

       E, per non apparire come il distruttore della legge, il Signore ordina per le buone azioni la reciprocità che invece proibisce per le offese. Tuttavia, dicendo: "E come volete che gli uomini facciano a voi, cosi fate voi a loro" (Lc 6,31), mostra che il bene reso è maggiore, in quanto il valore dell’altro è adeguato alle intenzioni .

       Il cristiano si è formato a questa buona scuola e, non soddisfatto del diritto della natura, ne cerca anche la grazia. Se tutti anche i peccatori, sono d’accordo nel ricambiare l’affetto, colui che ha convinzioni più elevate deve applicarsi con maggiore generosità all’esercizio della carità, al punto da amare anche coloro che non lo amano. Infatti, benché l’assenza di ogni titolo a essere amati escluda l’esercizio dell’amore, non tuttavia esclude l’esercizio della virtù. E come tu ti vergogneresti di non ricambiare l’amore a uno che ti ama, e per ricambiare il bene ricevuto ti metti ad amare, così per virtù devi amare chi non ama, affinché, amando, per virtù, tu incominci ad amare chi non amavi. Poiché, mentre è futile e vuota la ricompensa dell’affetto, duratura è la ricompensa della virtù.

       Cosa c’è di più ammirevole che porgere l’altra guancia a chi ti colpisce? Questo, non significa spezzare l’impeto dell’uomo adirato e calmare la sua collera? Non puoi tu giungere forse, per mezzo della pazienza, a colpire più forte colui che ha colpito te, suscitando in lui il rimorso? Così tu respingerai l’offesa e otterrai l’affetto. Spesso grandi amicizie nascono per la dimenticanza d’una insolenza, o per un favore fatto in risposta ad una ingiuria.

       Ed ecco che le parole dell’Apostolo: "La carità è paziente, benigna, non è invidiosa, non si gonfia d’orgoglio" (1Co 13,4), appaiono perfette in questi precetti. Se essa è paziente, deve sopportare chi offende; se è benigna, non deve rispondere a chi maledice; se non cerca il bene per sé, non deve resistere a chi toglie; se non è invidiosa, non deve odiare il nemico. E tuttavia i precetti della carità divina vanno oltre quelli dell’Apostolo; dare è più che cedere, amare i nemici è ben più che non essere invidiosi. Tutto questo il Signore lo ha detto e fatto, egli che, oltraggiato, non ha restituito l’oltraggio; schiaffeggiato, non ha restituito gli schiaffi; spogliato, non ha opposto resistenza; crocifisso, ha chiesto perdono per gli stessi suoi persecutori, dicendo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34), scusava del loro crimine i suoi accusatori: quelli preparavano la croce, ed egli diffondeva grazia e salvezza.


domenica 13 febbraio 2022

La legge della gioia: le Beatitudini

 

VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 13 febbraio 2022


Rito Romano:

Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26


Rito Ambrosiano

Is 56,1-8; Sal 66; Rm 7,14-25a; Lc 6, 17,11-19

VI Domenica dopo l’Epifania

 

Premessa:

Nel Vangelo di questa domenica vediamo che Gesù, nuovo Mosè, prende posto sulla “cattedra” della montagna» e proclama beati i poveri in spirito, gli afflitti, i misericordiosi, quanti hanno fame della giustizia, i puri di cuore, i perseguitati Non si tratta di una nuova ideologia, ma di un insegnamento che viene dall’alto e tocca la condizione umana, proprio quella che il Signore, incarnandosi, ha voluto assumere, per salvarla. Perciò, il Discorso della montagna è diretto a tutto il mondo, nel presente e nel futuro … e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù, nel camminare con Lui. Le Beatitudini sono un nuovo programma di vita, per liberarsi dai falsi valori del mondo e aprirsi ai veri beni, presenti e futuri. Quando, infatti, Dio consola, sazia la fame di giustizia, asciuga le lacrime degli afflitti, significa che, oltre a ricompensare ciascuno in modo sensibile, apre il Regno dei Cieli. «Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli» (ibid., p. 97). Esse rispecchiano la vita del Figlio di Dio che si lascia perseguitare, disprezzare fino alla condanna a morte, affinché agli uomini sia donata la salvezza.

Meditiamo le parole di Gesù che oggi ci dice: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo, infatti, agivano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6, 20 – 26).

Ascoltando queste parole, permettiamo a Cristo di toccare la nostra mente ed il nostro cuore e di guarirci completamente, dalla radice dei nostri mali. Gesù infatti è venuto a portare l’amore e la vita, che vince l’egoismo e la morte. L’egoista cerca ricchezze e prende tutto, per dominare sugli altri ed essere superiore a tutti. Chi ama dà tutto, fino a dare se stesso, e serve gli altri con umiltà, ed è beato, felice qui sulla terra e per l’eternità.


1) Le beatitudini secondo Luca.

Il versetto iniziale del Vangelo di oggi (Lc 6,17) è molto solenne e preciso: dopo aver pregato tutta la notte e aver poi scelto i suoi dodici apostoli, il Redentore scende dalla montagna in un luogo pianeggiante e pronuncia il suo discorso circondato dai discepoli e dalla folla. Una folla venuta da ogni dove, persino dalle contrade pagane di Tiro e di Sidone. Il confronto con le beatitudini di Matteo (5,3-12) ci offre il modo di notare alcune particolarità proprie della narrazione di Luca, il cui modo di narrare è più personale di quello di Matteo, e coinvolge direttamente l'ascoltatore (“Beati voi poveri”). Inoltre Luca parla di poveri, di piangenti, di affamati, di perseguitati, senza precisare – come invece fa Matteo – che sono poveri nello spirito, affamati di giustizia. Infine Luca elenca tre “guai”, che imprimono al discorso un tono quanto mai drastico e radicale (6,24-26).

I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo in cui Dio si sarebbe preso cura dei poveri, degli affamati, dei perseguitati. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza: “Verrà un tempo in cui i poveri saranno beati”. Per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati. La ragione è una sola, fondamentale: il Messia, il Re dei re con il suo Regno è arrivato. È alla luce del Regno arrivato – un Regno che capovolge i valori comuni – che si giustifica la paradossalità di queste parole di Gesù.

Mentre Matteo elenca otto beatitudini, mentre Luca ne propone che quattro e che riguardano: i poveri, i piangenti, gli affamati, i perseguitati. Partendo dalla stessa fonte Matteo e Luca ci offrono testi differenti, perché gli evangelisti non sono semplici cronisti, interessati solo a trasmettere fatti e parole, ma testimoni. Le parole di Gesù sono un fermento di vita: la Chiesa primitiva le trasmette soltanto avvolgendole nella sua propria vita (cfr. J. Dupont).

Nella modo di pensare e di vivere di Luca per “povero” non si intende semplicemente chi è privo di mezzi, ma indica la situazione del mendicante trascurato, povero accanto a gente ricca, deriso: i piangenti e gli affamati sono sostanzialmente una ripetizione dei poveri. Più che a delle virtù (come invece Matteo) Luca sembra fare riferimento a delle situazioni di fatto, cioè alla moltitudine dei poveri che non hanno cercato la loro povertà e tuttavia sono chiamati a viverla. La quarta beatitudine (i perseguitati) è quella del discepolo, di colui che ha scelto di seguire Gesù, trovandosi coinvolto nel suo destino di persecuzione. Questa sintetiche spiegazioni fanno emergere un giudizio severo sul mondo ricco: un giudizio che si rafforza se si leggono i quattro guai: “Guai a voi ricchi, guai a voi che siete sazi, guai a voi che ora ridete, guai a voi che ora siete applauditi”.

Con le Beatitudini e i “guai” Cristo ci si presenta un altro criterio di valori. E mentre quella scala di valori che stiamo seguendo è esattamente il principio della violenza, della guerra, dell’uccisione, della morte, dell’uccisione dell’essere figli, dell’essere fratelli e dello sterminio dei beni della terra, non solo degli uomini, l’altro, invece, è il principio dell’amore, del dono, della solidarietà, della vita, della vita vivibile, dell’essere figli, dell’essere fratelli.


2) “Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio”

Se seguiamo la logica non cristiana, diciamo: “Beati i ricchi, beati i sazi, beati i gaudenti e beati gli onorati, i famosi. Chi dice il contrario è considerato come un pazzo o come uno che ha voglia di scherzare.

Vediamo cosa vuol dire beato cristianamente parlando. Beato vuol dire: mi congratulo con te, hai vinto. Sei della parte giusta: beato te! Beato te: è forma di congratulazione. E Gesù si congratula con i poveri! Il vangelo di Luca in greco usa la parola “povero”. Il povero sarebbe il contrario del ricco. Il ricco è quello che ha tanto con poca fatica, idealmente senza fatica, molto di più allora. Il povero è quello che ha poco con tanta fatica. La parola usata in greco da Luca è “ptochoi”(=pitocco). Chi è il “pitocco”, è colui che ha niente ed ha tanta pena e che, quindi, vive di elemosina, vive di dono, vive di dipendenza. Di questi dice il motivo perché questi poveri sono beati: non perché sono poveri, ma perché “vostro è il Regno di Dio”.

Questa beatitudine è al presente: il regno di Dio è già “vostro”. Cosa vuol dire che il regno di Dio è del pitocco, è del povero? Il regno di Dio è Dio stesso che regna sulla terra. Noi vediamo sulla terra che regnano i ricchi che dominano sugli altri.

Ma Dio regna in un altro modo. Dio regna servendo perché è amore. E l’amore dona tutto fino a dar se stesso. E Dio è estremamente povero perché ama, dà tutto, fino a dar se stesso.

Dio stesso è dono e il peccato è voler possedere il dono come ci pare e piace e così lo distruggiamo. Il dono è significativo perché è relazione con chi dona e, allora, non cadiamo nel feticismo, nell’idolatria delle cose.

Se viviamo del dono condividendolo, esso resta sempre dono e si ravviva. Se, invece, ci impossessiamo avidamente del dono, alla fine neghi la vita stessa che è dono. La vita è dono, tutte le cose fondamentali sono dono. Noi siamo chiamati a vivere di doni, come il povero.

L’accumulare è il far consistere il bene nelle cose, e credere che la nostra vita consiste nelle cose da tenere strette. Si diventa schiavi delle cose. Immoliamo la vita alle cose, i poveri muoiono di fame, i ricchi muoiono di di stress. Non è vita questa.

Il desiderio delle cose ci divide gli uni dagli altri e ci distrugge. Per questo la povertà - come molto spesso fortunatamente Papa Francesco ci ricorda - è la cosa più sublime che ci sia da imparare oggi, per la salvezza del mondo. Altrimenti il mondo è perduto perché se tutti vogliamo possederci, alla fine ci distruggiamo. L’importante è capire la bellezza di questa povertà e capire  come ogni relazione vera è povera, perché non è un dominio sull’altro, perché l’altro non è un nostro possesso.

Riceviamo l’altro gratuitamente, altrimenti che relazione é? E i figli sono amati gratuitamente, e il marito e la moglie si amano veramente quando si amano gratuitamente: uno e dono per l’’altra e tutti e due sono un dono di Dio.

A vivere e testimoniare questa vita di dono sono chiamate in modo particolare le Vergini consacrate e che con il dono totale di se stesse a Cristo Sposo diventano immagine concreta della Chiesa Sposa. Queste donne consacrate sono chiamate a vivere come la Vergine Maria: tenera e umile, povera di cose e ricca di amore. Consacrandosi, le vergini consacrate si riflette la natura della Chiesa, animata dalla carità tanto nella contemplazione quanto nell’azione; discepola e missionaria; protesa verso il compimento escatologico e allo stesso tempo partecipe delle gioie, delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini del proprio tempo soprattutto dei più fragili e poveri; immersa nel mistero della trascendenza divina e incarnata nella storia dei popoli” (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago, n. 20).




Letture Patristiche

Beda il Venerabile

In Luc., 2, 24 ss.



I «guai a voi» di Luca


       "
Guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione" (Lc 6,24). In che cosa consista questo "guai a voi ricchi" lo si capisce meglio dove si dice che il regno dei cieli è dei poveri. Da questo regno infatti si separeranno coloro che mettono ogni loro piacere in questo mondo e udranno la sentenza del giusto giudice: "Rammentate, figli, che avete avuto dei beni nella vostra vita" (Lc 16,25). Dove però è da notare che l’incriminazione non è posta tanto sulla ricchezza quanto sull’amore della ricchezza. Infatti, non tutti quelli che hanno ricchezze, ma, come dice il Qoèlet: "Chi ama le ricchezze non ne avrà vantaggio" (Qo 5,9), perché colui che non sa staccare l’animo dai beni temporali e non sa farne parte ai poveri, per il momento, sì, gode del loro uso, ma resterà privo per sempre del frutto che avrebbe potuto acquistare, se li avesse donati. E leggiamo anche altrove: "Beato il ricco che è stato trovato senza macchia, che non è corso appresso all’oro e non ha riposto le sue speranze nel danaro e nel tesoro" (Si 31,8).


       "
Guai a voi che siete sazi, perché avrete fame" (Lc 6,25).


       Era sazio quel ricco, vestito di porpora, che faceva ogni giorno splendidi banchetti, ma stava certo poi in un gran guaio, quando, affamato, dovette chiedere che dal dito del disprezzato Lazzaro gli cadesse una goccia sulla bocca. D’altra parte, se son beati quelli che hanno sempre fame delle opere di giustizia bisogna pur che siano infelici coloro che, al contrario, seguendo i loro desideri, non sentono nessuna fame di veri e solidi beni e si reputano abbastanza felici, se per il momento non son privi del loro piacere.


       "
Guai a voi che ridete, perché sarete tristi e piangerete" (Lc 6,25). E Salomone dice: "Il riso sarà mescolato al dolore e la gioia finirà in lutto" (Pr 14,13). E ancora: "Il cuore dei sapienti è quello dov’è tristezza e il cuore degli stolti è quello dov’è letizia" (Qo 7,4-5); e questo vuole insegnare che la stoltezza dev’essere attribuita a quelli che ridono e la prudenza a quelli che piangono.

       "
Guai a voi, quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Lc 6,26). È ciò che il Salmista deplora, "poiché il peccatore è lodato per i suoi desideri e il malvagio è benedetto" (Ps 9,24). A costui non dà nessuna pena che i suoi delitti non siano ripresi e che egli ne sia lodato, come se avesse fatto bene.

       "
I padri di questa gente hanno trattato allo stesso modo i profeti" (Lc 6,26). Ma qui intende gli pseudoprofeti, i quali nella Sacra Scrittura son chiamati anche profeti, perché, per accaparrarsi il favore del popolo, si sforzavano di predire cose future. Perciò dice Ezechiele: "Guai ai profeti stolti che vanno dietro alla loro fantasia e non vedono niente; i tuoi profeti, Israele, erano come volpi nel deserto" (Ez 13,3). Perciò il Signore sulla montagna descrive soltanto le Beatitudini dei buoni, invece nella campagna annunzia anche le sventure dei malvagi; perché la gente più rude per essere spinta al bene ha bisogno di minacce e terrore, i perfetti invece basta invitarli con la prospettiva d’un premio.


     


Basilio di Cesarea

Adversus divites, 5


La cupidigia di ricchezze è insaziabile


       Tu chiami te stesso povero, ed io son d’accordo. Povero infatti, è colui che ha bisogno di molte cose. Tuttavia, non è altro che l’insaziabile cupidigia a rendervi tali. A dieci talenti cerchi di aggiungerne altri dieci; diventati venti, ne vuoi altrettanti e ciò che tu ammassi, lungi dal calmare il tuo appetito, lo stimola ancor di più. Infatti, come per gli ubriaconi il continuare a ingerire vino costituisce uno stimolo al bere, parimenti le persone che si arricchiscono, dopo aver messo insieme delle ricchezze, ne desiderano ardentemente delle altre ancora, in tal modo, continuando sempre a nutrirsi, aggravano la loro malattia ed il loro desiderio ottiene l’effetto contrario a quello auspicato. Le ricchezze materiali, infatti, anche quando siano abbondanti, non rallegrano tanto i loro detentori quanto invece li rattristano le cose di cui son privi, quelle, cioè, di cui essi ritengono di avere bisogno. Così il loro animo è costantemente tormentato dalle preoccupazioni, poiché si danno da fare per raccogliere profitti sempre maggiori.

       E al posto di essere lieti e di pensare che sono meglio piazzati rispetto a molti altri, sono abbattuti e tristi poiché sono messi in ombra da questa o da quest’altra persona più ricca. Una volta però che abbiano raggiunto anche quest’ultima, subito si dan da fare per diventare pari ad un’altra più ricca ancora salvo poi, eguagliata questa, puntare su di un’altra la loro cupidigia. Come coloro che salgono delle scale, con il piede sempre proteso verso il gradino superiore, non trovano pace prima di aver guadagnato la cima; similmente anche costoro non cessano di aspirare alla potenza, fino a quando, pervenuti alla vetta, non precipitino con una lunga caduta.

       A beneficio degli uomini il Creatore di tutte le cose stabilì che l’uccello seleucide fosse insaziabile; tu, invece, è a danno di molti che hai reso insaziabile l’anima tua. Tutto ciò che l’occhio vede, l’avaro lo desidera grandemente. "
L’occhio non si sazierà di vedere" (Qo 1,8), né l’avaro si sazierà di arraffare. L’inferno non ha mai detto: Basta; e l’avaro neppure ha mai detto: Basta (Pr 27,20 Pr 30,16). Quando dunque potrai servirti delle ricchezze presenti? Quando potrai goderne tu, che sempre ti affanni a procurartene ancora? "Guai a coloro che uniscono casa a casa e congiungono campo a campo, togliendo qualcosa al vicino" (Is 5,8). E tu cosa fai?


       
Minucio Felice

Octavius, 36, 3-7


La povertà non è per noi un’infamia, ma una gloria


       Noi siamo per lo più ritenuti poveri: non è un’infamia, ma una gloria. Il lusso abbatte l’animo, la frugalità lo afferma. Del resto, come può dirsi povero chi non ha bisogno di nulla, chi non brama i beni altrui, chi è ricco in Dio? È povero piuttosto colui che, pur possedendo molto, desidera ancor di più. Dirò proprio quello che sento: Nessuno può essere tanto povero come quando è nato. Gli uccelli vivono senza patrimonio e gli animali ogni giorno trovano il loro pascolo: sono tutte creature nate per noi, e, se non le bramiamo, le possediamo tutte. Dunque, come chi fa un viaggio è tanto più fortunato quanto minore è il carico che porta, così è tanto più felice nel viaggio di questa vita chi è alleggerito dalla povertà, chi non sospira sotto il peso delle ricchezze. Tuttavia, se ritenessimo utili le ricchezze, le chiederemmo a Dio: potrebbe concedercene un po’, perché è padrone di tutto. Ma noi preferiamo disprezzare i beni, anziché conservarli; bramiamo piuttosto l’innocenza, chiediamo piuttosto la pazienza; preferiamo essere buoni che prodighi.


       

sabato 5 febbraio 2022

Accogliendo la vocazione ad essere pescatori di uomini, partecipiamo alla missione di Cristo che salva dal naufragio di una vita senza verità e senza amore.

 

Rito Romano

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 6 febbraio 2022

Is 6,1-2.3-8; Sal 137; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11


Rito Ambrosiano

Sir 18,11-14; Sal 102; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10

Ultima Domenica dopo l’Epifania,

detta «del perdono»





1) Agire nella fede.

Pochi giorni fa, il 2 febbraio, la Liturgia ci ha fatto celebrare la presentazione di Gesù al Tempio. Abbiamo così assistito alla prima processione al Tempio compiuta da Cristo portato da due giusti, Maria e Giuseppe, e accolto da due giusti, Simone e Anna, a cui seguirà quella di Gesù adolescente che resta tre giorni nella Casa del Padre, tra i Dottori della Legge. L’ultima processione sarà quella della Domenica delle Palme, una processione, questa, dove il Redentore è accompagnato da giusti e da peccatori.

Nella prima processione possiamo vedere la realizzazione della profezia di Malachia ascoltata nella prima lettura del 2 febbraio: Dio che viene a compiere giustizia sulla terra è il Bambino Gesù, che entra nel Tempio sulle braccia della Madre, la Vergine Maria. La Madonna “presenta” a Dio il Figlio, glielo “offre”, cosciente che ogni offerta è una rinuncia. Offrire a Dio un sacrificio è un riconoscere la sorgente della vita, è un sacrificio di comunione, non di morte, come erano i sacrifici pagani fatti per tenere buono Dio (pagano). Nella processione della Passione, che rivivremo la domenica delle Palme, accompagneremo, da peccatori pentiti, Gesù che sale per l’ultima volta a Gerusalemme e sulla Croce manifesta di essere il “Sì” totale di Dio all’uomo ed è il “Sì” totale dell’uomo a Dio.

Se la festa della celebrazione del 2 febbraio è centrata sull’ingresso di Gesù nel Tempio, scortato dalla piccola processione accompagnata dal canto del Salmo 47 “Abbiamo ricevuto o Dio, la tua misericordia, dentro il tuo tempio”, la liturgia di questa domenica ci fa celebrare il lavoro redentivo del Messia che porta a pienezza l’Alleanza nuova e definitiva, e che oggi chiama Pietro, che sarà seguito da Andrea, Giacomo e Giovanni, e tutti noi con loro a collaborare con Lui.

Portando il Figlio a Gerusalemme, la Vergine Madre agì nella fede e Lo offrì a Dio come vero Agnello che toglie i peccati del mondo; lo porse a Simeone e ad Anna quale annuncio di redenzione; lo presentò a tutti come luce per un cammino sicuro sulla via della verità e dell’amore.

Anche Pietro agì nella fede. Il Vangelo di oggi, infatti, ci mostra che il Primo degli Apostoli, dopo aver risposto a Cristo: “Maestro, sulla tua parola getterò le reti”, agì nella fede andando contro alla sua esperienza di pescatore che gli diceva che è inutile pescare di giorno, soprattutto dopo una notte in cui non si è preso niente.

Anche noi, imparando da Pietro, per il quale l’ascolto della Parola di Gesù, la fiducia in lui divenne la regola nuova, sconvolgente, della vita di Simone, agiamo nella fede obbedendo (=ascoltando e mettendo in pratica) l’invito di Cristo, invito che diventa vocazione a seguirlo per portare a Lui, luce di verità e di amore, tutti gli uomini, tirandoli fuori dall’acqua malsana e portarli nel mare della misericordia di Dio, che è Vita e sorgente di vita.


2) Vocazione alla misericordia.

Quella di San Pietro sul lago è la storia di tutti, a cominciare da quelli che Dio ha chiamato a diventare “pescatori di uomini”. È la storia di ognuno di noi, chiamato da Gesù, nel Battesimo e nella Cresima, a seguirlo e quindi invitato a ‘gettare le reti al largo’.

Il Vangelo di oggi (terza lettura) parla della vocazione di Pietro, che è chiamato a cambiare il suo mestiere di pescatore “umano”, normale in “pescatore di umanità”. Il Primo degli Apostoli, dopo che ha vissuto l’esperienza della pesca miracolosa, dice in ginocchio: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8), e Cristo gli risponde "Non temere, da adesso sarai pescatore di uomini” (Id 5,10)

Ma tutta la liturgia della Parola di questa domenica, ha la vocazione come tema principale.

La prima lettura ci racconta del profeta Isaia, che, mentre si trovava nel tempio ebbe una visione: “Io vidi -scrive il profeta- il Signore, seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali e proclamavano l'uno all'altro: ‘Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria’ e vibravano gli stipiti delle porte, alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo”.

Per questo grande profeta si trattò di un’esperienza sconvolgente, e non poteva essere altrimenti, perché la vocazione del Signore cambia completamente la vita di chi è chiamato facendogli innanzitutto prendere coscienza del propria indegnità. A questo riguardo Isaia così descrive la sua vocazione-conversione: “Io dissi: ‘Sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti’. Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: ‘Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato’” . Dunque, dopo aver fatto esperienza della sua meschinità e del suo essere un peccatore bisognoso di perdono, che Isaia, dice il suo “Sì” a Dio.

Anche la seconda lettura mostra come il primo sentimento che nasce dall’incontro con Cristo è stupore misto alla presa di coscienza della propria piccolezza e miseria, che ha appunto bisogno della misericordia divina. Infatti, questa seconda ci fa ascoltare San Paolo che ricorda  l'apparizione di Gesù risorto, il quale sulla via di Damasco si fa incontro a lui, “il più piccolo degli apostoli... ma per grazia di Dio sono ciò che sono” (seconda lettura).

Da tutte e tre letture liturgiche emerge la chiamata divina innanzitutto come un manifestarsi di Dio all'uomo. Prima di inviare, di affidare una missione, Dio si fa conoscere nella sua grandezza e bontà. La persona chiamata è posta davanti alla verità di Dio che illumina e gli fa comprendere la sua realtà di creatura debole, fragile, limitata, peccatrice. Eppure è proprio di questa persona umana, che Dio si serve perché collabori alla costruzione del suo regno nel mondo e faccia conoscere alle donne e agli uomini di tutto il mondo il suo messaggio di amore e di pace, di misericordia e di redenzione.

Non dimentichiamo, però, la vocazione, oltre che dono di misericordia e redenzione, è un mistero, ed ha le sue radici nella volontà salvifica di Dio, volontà, che sfugge alla logica ed ai progetti umani, e può trasformare e coinvolgere, chiunque Egli voglia.

Di fronte alla vocazione, l’uomo non può che riconoscere la propria pochezza e la sua fragilità di peccatore. Ma, come accadde a Isaia, a Paolo e a Pietro, fu il Signore stesso a guidare nel cammino e a rendere fecondo di opere il “Sì” iniziale, pronunciato con tanto entusiasmo e con altrettanto timore.

Circa il non avere timore è interessante notare il vocabolo usato da Luca per indicare la missione che Gesù affida a Pietro e, con lui, a tutti noi, quando gli dice: “Non temere, tu sarai pescatore di uomini”. La parola che è usata da San Luca nel testo greco e che è tradotta con “pescatore” è una parola nuova, che è usata solo due volte nel Vangelo e che deriva dal verbo composto che letteralmente “prendere vivo”. Quindi i pescatori chiamati da Cristo sono dei “catturatori di vita”, delle persone che prendono le persone vive per mantenerle in vita. I pescatori di Cristo, quindi, gettano le loro reti nel mare del mondo per offrire agli uomini la Vita, per strapparli dall’acqua insalubre e farli ritornare alla vita vera. Pietro e gli altri Apostoli, noi e i nostri fratelli e sorelle di navigazione in questo mondo, possiamo continuare, se lo vogliamo, in qualsiasi stato ci troviamo, quella sua stessa meravigliosa missione di inviati del Padre “a salvare ciò che era perduto” (Lc 19, 10), facendoci evangelizzatori di misericordia.


3) La vocazione delle Vergini consacrate nel mondo.

Il Vangelo di questa domenica si conclude con una frase breve e incisiva: “Lasciarono tutto e lo seguirono”. Questi due verbi: “lasciare” e “seguire” indicano con chiarezza le caratteristiche essenziali della risposta alla chiamata di Dio.

“Lasciare tutto” è l’esigenza fondamentale della vocazione di chi si impegna nella proclamazione e testimonianza del Vangelo, ed è un’esigenza, che comporta uno stile di vita conforme ad un'autentica, profonda povertà, come fu povero il Figlio di Dio, che “spogliò se stesso...”.

Non è un impegno facile, soprattutto nel nostro tempo, ma, sicuramente, non fu agevole neppure per quei pochi che furono chiamati, direttamente da Gesù, se, un giorno, ebbero a chiedergli: “Maestro, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito; che cosa, dunque, avremo?”; Gesù rispose: “In verità vi dico, voi che mi avete seguito, e chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie, o figli, o campi per il mio nome, riceverà il centuplo, e, in eredità, avrà la vita eterna” (Mt 19,28-29 ).

“Seguire”. Seguire Cristo vuol dire fare il Suo stesso cammino, la sua stessa vita, la stessa strada, le sue stesse scelte, il suo stesso cammino di vita, il cammino del Figlio che va incontro ai fratelli per salvarli. Vuol dire fare della nostra familiarità con Cristo la nostra dimora.

Un modo significativo di vivere questa intimità pura con il Signore è quello delle Vergini Consacrate nel mondo. In loro “l’amore si fa sequela: il vostro carisma comporta una donazione totale a Cristo, una assimilazione allo Sposo che richiede implicitamente l’osservanza dei consigli evangelici, per custodire integra la fedeltà a Lui (cfr RCV, 47) (Benedetto XVI). La loro vocazione implica che “la loro vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro” (RCV, 30). Queste donne mostrano come sia bello e lieto seguire Cristo, obbedendogli. In effetti, mettendosi in atteggiamento di obbedienza (cioè di ascolto) allo Sposo che le ha chiamate all’amore, queste spose ascoltano (ubbidiscono) lo Sposo che le ama ricambiando questo amore con il dono lieto di sé stesse a Lui.

Aprendo il cuore a Dio mediante una vita verginale, hanno accolto la sua chiamata, ed hanno consacrato tutta la loro vita a Cristo e all'annuncio del Vangelo di gioia e di misericordia per pescare viva l’umanità e portarla dall’acqua di morte all’acqua di vita. La croce che portano è il segno che il legno su cui Cristo è morto e che ora è il legno che permette di attraversare il mare della vita per giungere alla riva. Esse mostrano che quando Cristo è il nostro Signore, il centro della nostra vita, colui che ci ama infinitamente, colui che amiamo, allora tutto è possibile.




Lettura patristica

Sant’Ambrogio di Milano

In Luc. 4, 68-72



  "Montato su una delle barche, che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra" (Lc 5,3). Appena il Signore ebbe operato alcune guarigioni, né il tempo né il luogo furono più sufficienti a trattenere la folla dal desiderio di essere risanata. Cadeva la sera, ma la folla lo seguiva; incontrano il lago e la folla gli è da presso; per questo sale sulla barca di Pietro. È questa la barca che, secondo Matteo, è scossa dalle onde, e che, secondo Luca, si riempie di pesci, perché tu riconosca gli inizi così tempestosi della Chiesa, e i tempi successivi così fruttuosi. I pesci sono infatti coloro che navigano nel mare della vita. Là, Cristo dorme ancora presso i discepoli, qui egli dà ordini; dorme per coloro che tremano, veglia tra quanti sono già fortificati. Ma dal Profeta hai già sentito dire in qual modo dorme Cristo: "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2).


       Opportunamente san Matteo non tralascia di testimoniare la manifestazione della potenza divina, quando narra che Cristo comanda ai venti (Mt 8,26). Non si tratta infatti di scienza umana - come avete udito dai Giudei quando dicevano: «Con una parola comanda agli spiriti» - ma c’è il segno della potenza celeste, allorché il mare agitato si calma, gli elementi obbediscono all’ordine della voce divina, gli oggetti insensibili acquistano il senso dell’obbedienza.


       Il mistero della presenza divina si rivela quando i flutti del mondo si calmano, quando una parola sconfigge lo spirito immondo: ma questo aspetto non sopprime l’altro, ma l’uno e l’altro vengono esaltati. Riconosci il miracolo nel comportamento degli elementi, l’insegnamento nei misteri.


       Dunque, poiché san Matteo aveva già fatto la sua scelta, san Luca preferisce parlare della barca nella quale pescava Pietro. La barca che ospita Pietro non è scossa dalle onde; è scossa quella che ospita Giuda. Benché navigassero i molteplici meriti dei discepoli, tuttavia quest’ultima era turbata dalla perfidia del traditore. Nell’una e nell’altra, c’era Pietro; chi è ben saldo per la sua fede, è però turbato dai demeriti altrui. Guardiamoci dunque dal perfido, guardiamoci dal traditore, affinché la maggior parte di noi non sia agitata dai flutti a causa di uno solo. Non è turbata la nave, nella quale naviga la prudenza, la perfidia è assente, respira la fede. Come poteva essere agitata la nave, di cui era pilota colui sul quale poggia il fondamento della Chiesa? C’è dunque turbamento là dove la fede è debole; c’è sicurezza dove la carità è perfetta.


       E infine, benché il Signore comandi agli altri di gettare le reti, solo a Pietro dice: "vai al largo" (Lc 5,4), cioè avventurati nel mare profondo delle dispute. Che cosa c’è infatti di così alto come vedere l’altezza dei misteri, riconoscere il Figlio di Dio, proclamare la sua divina generazione? Sebbene lo spirito umano non possa comprenderla pienamente con la penetrazione della ragione, tuttavia la pienezza della fede può abbracciarla. Infatti, anche se non mi è concesso di sapere come egli è nato, tuttavia non mi è permesso ignorare il fatto che egli è nato; ignoro il modo della sua generazione, ma ne riconosco la verità. Non eravamo là, quando il Figlio di Dio era generato dal Padre; ma eravamo là quando dal Padre fu dichiarato Figlio di Dio.


       Se non crediamo a Dio, a chi crediamo? Tutto ciò che crediamo, lo crediamo per avere visto o per avere udito. Ebbene, la vista sovente si inganna, ma l’udito fa fede. Vogliamo discutere della veridicità del testimone? Se attestassero persone dabbene, giudicheremmo sconveniente non creder loro: qui Dio afferma, il Figlio prova, il sole che si eclissa lo riconosce, la terra tremando lo testimonia (Mt 27,45-51 Lc 23,44).


       La Chiesa è condotta da Pietro nel mare alto delle dispute, per vedere, da un lato, il Figlio di Dio che risorge, e dall’altro lo Spirito Santo che si effonde.


       Che cosa sono le reti dell’apostolo, che il Signore gli ordina di gettare, se non il significato delle parole, il senso del discorso, le profondità delle dispute, che non lasciano più sfuggire coloro che ne sono presi? Ed è giusto che gli strumenti della pesca apostolica siano le reti, perché le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano, lo traggono dalle profondità alla luce e dal fondo conducono in alto chi fluttuava sott’acqua.