sabato 26 giugno 2021

Gesù guarisce il corpo e salva l’anima.

 

Domenica XIII del Tempo Ordinario – Anno B – 27 giugno 2021

Rito Romano

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43


Rito Ambrosiano

Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50

V Domenica dopo Pentecoste.


Premessa: la Fede.

La Parola di Gesù ha il potere di vincere, oltre il mare (Vangelo di domenica scorsa), anche il male, la malattia e la morte (Vangelo di questa Domenica). La fede in lui ci dà il suo stesso potere: ci guarisce da ogni male interiore e ci dà una vita nuova nell’amore, più forte della morte. La fede è “toccare” lui, che è amore e vita, come ha fatto la donna che aveva perdite di sangue (quindi invece di dare la vita, perde la vita), od essere toccati da lui come la bambina che ha perso la vita ed è da lui risuscitata, come il Vangelo di oggi ci ricorda. Questo brano evangelico ci mostra che la fede si esprime nella preghiera, che può essere fatta con un gesto (la donna che tocca il lembo del mantello di Cristo. Il gesto di questa donna è come un grido (preghiera) espresso con umiltà e nel nascondimento, è un gesto di fiducia e di implorazione. Il gesto del capo della Sinagoga si manifesta con parole di domande, con le quale chiede a Gesù la salute per la figlia. Sono due modi di dialogare con Cristo nella fede. Quindi la fede non è riducibile all’adesione dell’intelligenza e un abbandono della volontà. La fede non è in primo luogo l’assenso, l’adesione ad un insieme di credenze. Essa è relazione a Dio da persona a persona, mettendo in gioco l’intelligenza, l’affettività e la volontà: è preghiera, in cui Dio parla e l’uomo gli risponde. La fede è l’atto di affidarsi a Cristo e di seguire la via salutare che lui ha tracciato.


1) Fede che guarisce e salva.

Nel lungo brano del Vangelo di questa domenica sono presentati due miracoli, che si incastrano l’uno nell’altro. Il filo rosso che unisce il miracolo della guarigione della donna, che soffriva perdite di sangue, e quello della risurrezione della figlia del capo-sinagoga Giairo è la fede. Questa fede non solo guarisce e ridà la vita, ma salva la vita dandole pienezza.

Come dice Papa Francesco: “All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).

In effetti, nella scena evangelica di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata.

Soffermiamoci un po’ su questa scena. Avendo saputo delle guarigioni di Gesù, Giario, incurante della sua posizione sociale e e del suo ruolo autorevole, si getta ai piedi del Nazareno e lo supplica insistentemente di andare a imporre le mani alla sua figlioletta, perché sia salvata e viva. Gesù accoglie la richiesta e si dirige con lui verso la sua casa. Ma ecco che, nella ressa della folla che stringe da ogni parte, avanza una donna, affetta da 12 anni di eccessive perdite emorragiche; la poveretta aveva speso tutti i suoi averi dai medici senza nulla ottenere, anzi peggiorando.

Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. È bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Però non è solo su ciò che San Marco ferma l’attenzione. L’Evangelista parla anche della meraviglia dei discepoli: “Vedi la folla che ti preme e domandi: chi mi ha toccato?”.

Perché Gesù dà rilievo al gesto di questa donna, la quale non vuole farsi notare toccandogli quasi un lembo del mantello che Gesù ha sulle spalle? Occorre sapere che la legge mosaica dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e chi la toccava diventava impuro. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna, e che il puro e l’impuro legali sono superati dalla fede. Per questo, pubblicamente il Salvatore dice alla donna che gli ha “rubato” il miracolo: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.

Ancora la fede è al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, solo abbi fede”. Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungerti qui, nella tua propria situazione, vittoriosa persino sulla morte. Ma in questo racconto Marco accenna anche a un altro tema: “La bambina non è morta, ma dorme”. Il grande miracolo è la vittoria sulla morte, come ci ricorda il Salmo: “Dio guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia» (103,3-4). In effetti, non sarebbe salvezza piena se non fosse per sempre.

Gesù, dopo aver smentito le parole degli uomini, che dicevano che la bambina era morta, e dopo averli mandati tutti fuori, dà un nome nuovo anche alla morte. La sua Parola è più importante di quella degli uomini. La Parola di Dio ridà vita, la dà per sempre.


2) FEDE: è questione di intelligenza e di cuore, è maniera di vivere non solo di pensare.

Come stiamo vedendo, l’attenzione è attirata non tanto sui due miracoli, quanto sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità e purezza del cuore dell’uomo che cerca il Signore e che mendica la guarigione del corpo e dell’anima.

Gesù non compie miracoli, dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell'agire di Dio. Il miracolo è la libera risposta di Dio alla mendicanza della creatura umana.

Purtroppo, siamo spesso ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto per decifrarli e il coraggio per decidersi, e allora se ne scusa pretendendone altri. Chiediamo nuovi segni, sempre nuovi segni, e intanto non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già - di sua iniziativa - seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.

Dobbiamo chiedere ma con purezza di cuore e compunzione. La parola compunzione diventa molto espressiva se pensiamo alla sua etimologia: significa infatti il bruciore provocato da una puntura. Quel bruciore che provoca in noi l’amore di Dio manifestato in Cristo quanto tocca il nostro cuore peccatore. La compunzione non equivale al senso di colpa né agli scrupoli, ma fa riferimento all’amore, perché deriva dalla considerazione che Dio ci ama e che “Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori” (Rm, 5, 8).

Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’importante è perseverare in essa e farla crescere in noi. Anche quando il dubbio assale, anche se la nostra fede non ha nulla di eroico, lasciamo che la Parola di Dio abiti nel nostro cuore, che il Nome di Cristo salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati.

La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore svezzato della mamma restiamo confidenti nella braccia di Dio.

“La fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio e alla sua Parola, alla Sua Rivelazione.

La fede è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro.

La fede è un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente: è l’atto di Abramo che credette a Dio e che da ciò trasse salvezza.

La fede è un insieme di convinzione e fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna la sua maniera di vivere.” (Paolo VI, novembre 1966).

E’ dunque giusto chiederci, oggi, quale dimensione ha la nostra fede: se è un atteggiamento superficiale che non dà credito alla Sua onnipotenza o “una maniera di vivere Dio”.

Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la fede è una maniera di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale la “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente. Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrata attribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la Sua Parola


Lettura Patristica

Sant’Efrem,

Diatessaron, VII, 6, 19-23


1. I medici e il medico

       La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.

       I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...

       E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.

       Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.

       È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.



sabato 19 giugno 2021

Non è la paura che crea Dio, nel pericolo essa spinge verso l’Amore che ci sostiene. Nel pericolo ci si rivolge a chi ci ama: a Cristo che calma il mare della nostra vita, pacificandola.

 

Domenica XII del Tempo Ordinario – Anno B – 20 giugno 2021

Rito Romano

Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41


Rito Ambrosiano

Gen 18,17-21;19,1.12-13.15.23-29; Sal 32; 1Cor 6,9-12; Mt 22,1-14

IV Domenica dopo Pentecoste.



Premessa esplicativa.


Il Vangelo di questa domenica ci parla della tempesta sedata con una certa enfasi che si nota nel gesto e le parole solenni con le quali Redentore calma il mare in tempesta. In questo modo l’evangelista Marco mostra un chiaro segno della signoria di Cristo sulle forze della natura e induce a riconoscere la sua divinità: Chi è dunque costui - si domandano stupiti e intimoriti i discepoli -, che anche il vento e il mare gli obbediscono? (Mc 4, 41).

Tuttavia, il racconto evangelico ha alcune incongruenze. Perché, ad esempio, parla di “altre barche erano con lui” e poi non dice nulla sulla loro sorte? E come è possibile che un uomo possa dormire tranquillo, mentre le onde infuriano e l’acqua ha quasi completamente riempito la barca?

Evidentemente, San Marco non è interessato alla precisione cronachistica del racconto. L’intenzione del racconto è invece racchiusa nelle due domande che lo scandiscono, l'una dei discepoli (“chi è costui?”) e l’altra di Gesù: perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?. La domanda dei discepoli nasce dalla meraviglia di fronte alla potenza di Gesù. La sua parola fa calmare il mare in tempesta. È giusto meravigliarsi di fronte alla potenza dei miracoli, ma non basta la potenza del miracolo per capire chi sia Gesù. I miracoli rivelano la messianicità di Gesù e la sua origine, ma non sono in grado di svelare completamente la sua identità, cioè il suo grande gesto di amore e di donazione. Per questo occorre attendere la Croce. Dio si rivela nella potenza, ma soprattutto nell'amore: solo qui Dio può essere conosciuto profondamente, senza equivoci. Con la sua domanda (“perché siete così paurosi?”) Gesù cambia la direzione dell'episodio. L'attenzione non è più rivolta alla potenza del miracolo, ma alla fede dei discepoli che hanno preso il largo con lui per andare verso l’altra riva.


1.Prendere il largo verso l’altra riva

Del Vangelo di questa domenica, che descrive la tempesta sedata, vorrei prima di tutto attirare l’attenzione sulla frase iniziale di Gesù: “Passiamo all’altra riva” (Mc 4,35).

Un invito che Gesù rivolge ai suoi dopo aver parlato del Regno dei cieli, che da seme diventa albero grande. Come ho già detto altre volte lo “stare” con Cristo è un verbo di moto perché implica necessariamente uno spostarsi, un seguirLo.

Un invito fatto quando cade la sera, dunque quando i seguaci di Gesù pensano di aver concluso il cammino della giornata ed hanno la umana e giusta esigenza di fermarsi e riposare dalle fatiche di portare con Cristo il vangelo. Il primo momento di questo andare oltre, è di lasciare la folla, di restare soli con Gesù per allontanarsi con Lui dalla riva dove erano arrivati.

La barca è la nostra vita che procede con il Salvatore. E’ un legno che solca le onde del tempo e dello spazio ed è capace di portare con sé il Figlio di Dio. Gesù, vero uomo e vero Dio, è così potente che non si preoccupa della tempesta. Può capitare che il vento soffi con violenza: tutte le voci che si agitano dentro e fuori di noi e che spesso si levano con tanta forza da sbandare i nostri passi fino a poco prima sicuri del sentiero. Le onde si rovesciano dentro la barca: ciò che è parte delle nostre giornate e che ci sembra di conoscere bene si ribalta contro di noi, certi significati che ci afferrano improvvisi e ci fanno sentire in balìa dell’inaspettato al punto da riempire di paura la vita che pensiamo ci appartenga.

Oggi Gesù ci dà una chiara lezione di come affrontare il mare della storia personale e di questo nostro mondo: dobbiamo navigare con Lui, dobbiamo prenderLo sulla nostra barca, “così com’è” (ibid. v. 36), perché Lui ci porti all’altra riva, salvandoci dalle acque burrascose.

Con Cristo, il cui amore è più forte della forza della natura possiamo arrivare all’altra riva raggiungibile grazie all’abbandono confidente in Lui. La tempesta naturale e quella del cuore umano è pericolosa e può portare alla morte, la “tempesta del cuore di Dio” porta pace, purché come gli apostolici diciamo; “Maestro, non t’importa che siamo perduti” (ibid. v.38).



  1. Gesù dormiva, ma il suo cuore vegliava.

Solo in questo brano di San Marco Gesù è presentato mentre dorme. Come interpretare tale sonno? Gesù è veramente stanco. Dopo una giornata di predicazione in cui ha speso tante energie, il Salvatore sale in barca è si addormenta profondamente, al punto tale di avvertire neppure il rumore del vento e delle onde. Possiamo così constatare qui la reale umanità di Gesù. Ma è utile aggiungere qualche altra spiegazione: Gesù si fida dei suoi, non dubita della loro responsabilità e capacità professionale, anche noi dobbiamo fidarci di Lui. Certo il suo atteggiamento è carico di mistero: il suo sonno tranquillo significa –secondo me- la serena fiducia in Dio, la fiducia del Figlio che si sente protetto e amato dal Padre, tra le sue braccia, anche nell'infuriare della tempesta del mare e della vita.

Dobbiamo fare nostro questo atteggiamento di Cristo, magari pregando il Salmo 130 che ci suggerisce una delle più dolci immagini del nostro abbandonarci in Dio, anche nella prova: “Sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia” (130,2-3).



  1. Il cuore dell’uomo è domanda di infinito.

Oltre ad insegnarci ad avere un abbandono totale in Lui, con il suo sonno sulla barca sbattuta dal mare in tempesta, il Salvatore risveglia il grido della nostra fede. Infatti, con un tono di stupito rimprovero Gesù dice ai suoi: "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?". (Ibid. v. 40) Il Figlio di Dio esige la fede dei suoi fratelli per risvegliare la potenza del suo amore.

Con la domanda: “Perché siete così paurosi?”, il Cristo sposta l’attenzione dalla potenza del miracolo alla fede dei discepoli, che si sono staccati dal lavoro precedente, dalla famiglia, dalla “folla” per stare con Gesù, seguendoLo per le strade del mondo. E Gesù, Maestro ed Amico, educa questa fede facendo oggi comprendere loro che non devono pretendere una presenza e una potenza divina, che li tolga dalla fatica del vivere. Inoltre li educa ad essere coraggiosi (cor agere = agire con il cuore), educando il cuore

Come rispondere a Cristo che ci chiede: “Perché siete così paurosi?”. Facendogli la stessa domanda del padre degli Apostoli “Aumenta in noi la fede, Signore” (Lc 17,5). Fede che è atto dell’intelligenza e abbandono della volontà

Facciamo in modo che la nostra vita sia veramente questo aprirsi della nostra mente e del nostro cuore ad una fede ogni giorno più pura, ad una fede ogni giorno più grande. Preghiamo perché la nostra fede ci apra sempre di più al dono di Dio. La fede matura sa rendere gli apostoli tranquilli anche nelle difficoltà e sereni anche nella persecuzione . Si pensi a San Pietro che in prigione dormiva serenamente. Si pensi anche alla “piccola” Santa Teresa del Bambin Gesù1. Lei che morì ad appena 24 anni è la santa della semplicità e dell'amore; la santa dell'abbandono fiducioso alla volontà di Dio.

Se vogliamo crescere nella fede dobbiamo educare il cuore, imitando la “piccola” Santa di Lisieux.

Educare il cuore ad accorgersi di Cristo. Perché accorgersi? L’etimologia di accorgersi è “ire ad cor” (andare al cuore), è il far passare il mio cuore al cuore di Cristo, e il cuore di Cristo al mio cuore e così possiamo non solo non avere paura nella barca della vita, ma pacificare con Cristo il mare della vita.

Un modo di vita significativo per accorgersi di Cristo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Attraverso la verginità queste donne educano il cuore “costruendolo” in quello di Cristo, che vuole bene e vuole il bene di chi a Lui si dona.

Lo stile della Vergine consacrata nel mondo è quello di chi non possiede il suo prossimo, perché il suo cuore è pieno dell’amore di Dio. Ricca di questo amore ne diventa segno limpido e pratica verso il prossimo la benevolenza che ha ricevuto da Dio. In effetti la verginità è vocazione all'amore: rende il cuore più libero di amare Dio. Libero dai doveri dell’amore coniugale, il cuore vergine può sentirsi, pertanto, più disponibile all'amore gratuito dei fratelli.

La verginità, certo, implica la rinuncia alla forma di amore tipica del matrimonio, ma la rinuncia è compiuta allo scopo di assumere più in profondità il dinamismo, insito nella sessualità, di apertura oblativa agli altri e di potenziarlo e trasfigurarlo mediante la presenza dello Spirito, il quale insegna ad amare il Padre e i fratelli come il Signore Gesù.

E il Papa emerito Benedetto XVI il 15 maggio 2008 disse loro: “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, 30). Fate in modo che la vostra persona irradi sempre la dignità dell’essere sposa di Cristo, esprima la novità dell’esistenza cristiana e l’attesa serena della vita futura. Così, con la vostra vita retta, voi potrete essere stelle che orientano il cammino del mondo. La scelta della vita verginale, infatti, è un richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Siate testimoni dell’attesa vigilante e operosa, della gioia, della pace che è propria di chi si abbandona all’amore di Dio. Siate presenti nel mondo e tuttavia pellegrine verso il Regno. La vergine consacrata, infatti, si identifica con quella sposa che, insieme allo Spirito, invoca la venuta del Signore: “Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’” (Ap 22,17)”. (Discorso alle Partecipanti al Congresso dell’Ordo Virginum, n 6)


1 Il nome di Teresa del Bambin Gesù, che fece suo fin dall’età di nove anni, quando manifestò il desiderio di farsi carmelitana, resterà per lei sempre attuale e si sforzò di meritarselo costantemente. Più tardi sotto un’immagine di Gesù Bambino, scriverà questa frase: «O piccolo Bambino, mio unico tesoro, mi abbandono ai tuoi divini capricci, non voglio avere altra gioia che quella di farti sorridere. Imprimi in me le tue grazie e le tue virtù infantili, affinché il giorno della mia nascita al cielo, gli angeli e i santi riconoscano nella tua piccola sposa: Teresa del Bambin Gesù».

 

Lettura Patristica

Sant’Agostino, Vescovo e Dottore della Chiesa (354-430),

Discorso 63, 1-3

PL 38, 424-425



Battuti dal vento e dalle onde


Per grazia di Dio vi rivolgo la parola sul passo del santo Vangelo letto poco fa e in nome di lui vi esorto a far sì che nei vostri cuori non si assopisca la fede con cui resistere alle tempeste e ai marosi di questo mondo. In effetti non è vero che Cristo nostro Signore avesse in suo potere la morte e non il sonno e che forse l'Onnipotente fu oppresso dal sonno contro la sua volontà mentre stava sulla barca. Se voi crederete questo, egli dorme nel vostro intimo; se invece Cristo è desto, è desta anche la vostra fede. L'Apostolo dice: « [Chiedo di] far abitare Cristo nei vostri cuori per mezzo della fede » (Ef 3,17).

Anche il sonno di Cristo è dunque un segno esteriore d'un simbolo. Sono come dei naviganti le anime che fanno la traversata di questa vita in una imbarcazione. Anche quella barca era la figura della Chiesa. Poiché anche ogni persona è tempio di Dio e naviga nel proprio cuore e non fa naufragio se nutre buoni pensieri. Se hai sentito un insulto, è come il vento; se sei adirato, ecco la tempesta. Se quindi soffia il vento e sorge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato. All'udire l'insulto tu desideri vendicarti: ed ecco ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio. E perché? Perché in te dorme Cristo. Che vuol dire: "In te dorme Cristo"? Ti sei dimenticato di Cristo. Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo: considera lui.


Pietro Crisologo 

Sermone 21, 1 ss.


1. Il sonno di Cristo sulla barca


       Tutte le volte che Cristo dorme nella nostra nave, e a causa del sonno della nostra ignavia s’addormenta nel nostro corpo, insorge una totale tempesta per la violenza dei venti, infieriscono minacciose le onde, e mentre troppo frequentemente si innalzano e cadono con flutti spumeggianti, amaramente suscitano nei naviganti con l’attesa i naufragi, come ha detto la lettura del nostro evangelista...


       "E lo prendono", disse, "così com’era nella nave" (Mc 4,36). Altro è il Cristo in Cielo, altro è il Cristo in nave: altro nella maestà del Padre, altro nella umiltà dell’umanità si avverte; altro si vede coeterno al Padre, altro temporale in rapporto alle età; altro dorme nel nostro corpo, altro veglia nella santità del suo spirito. "Lo prendono così com’era", disse, "nella nave". Lode di fede è ricevere il Cristo come è e si ha nella nave, cioè, nella Chiesa, dove è nato, dove crebbe, dove soffrì, dove fu crocifisso e sepolto, dove ascese al Cielo, siede alla destra di Dio Padre, donde verrà come giudice dei vivi e dei morti: professare tutto questo è di singolare salvezza. Colui che avrà accolto nella nostra nave e confessato il Cristo, qualora venga sommerso dagli scandali delle onde, non è immerso dai pericoli e coperto dalle onde... "Quella burrasca gettava le ondate nella nave" (Mc 4,37): poiché come le onde dei popoli e la ferocia delle persecuzioni agitano e squassano la nave del Signore esternamente, così all’interno i burrascosi flutti degli eretici irrompono ed infieriscono [contro di essa]. Il beato Paolo dichiara di aver sofferto questa tempesta, quando dice: "Al di fuori le lotte, internamente i timori: talmente che la nave fosse sommersa" (2Co 7,5). Giustamente l’evangelista, a causa dei flutti spumeggianti, riferisce che la nave fosse ripiena [d’acqua], soffrendo la Chiesa un numero così grande di eresie, quante controversie della legge leggiamo che ci siano.


       "Ed egli", disse, "dormiva a poppa sopra un capezzale. Lo svegliano e gli dicono: Maestro, niente t’importa che affondiamo? E, alzandosi, minacciò il vento e disse al mare: Taci e ritorna tranquillo. E cessarono i venti ed il mare ritornò calmo" (Mc 4,38-39). Mentre avveniva ciò gli insegnamenti si resero palesi, e il tempo lo addita all’esempio. Dal momento che grande e abbastanza violenta incombe una burrascosa tempesta, mentre da ogni parte il turbine pericoloso dei venti ruggisce e infierisce, muggisce il mare, le stesse isole sono scosse dalle fondamenta e i litorali sono scossi da pauroso fragore. Ma poiché dicemmo: Cristo dorme nella nostra nave, avviciniamoci a lui più con la fede che col corpo, e bussiamo alla sua porta [svegliamolo] più con le opere di misericordia che con il contatto di disperati; scegliamolo non con un frastuono indecoroso ma con grida di canti spirituali: non mormorando maliziosamente, ma supplicandolo con animo vigile.


       Offriamo a Dio qualcosa del tempo della nostra vita, affinché questa infelice vanità e miseranda sollecitudine non sciupi tutto il tempo [della nostra vita]; affinché l’eccessivo sonno e il vano torpore non sciupi tutta la notte ma parimenti parte del giorno e della notte noi stessi dedichiamo all’autore del tempo.


       Vigila, uomo, vigila! Hai l’esempio, e ciò che il gallo ti impedisce all’ospite, tu offrilo al tuo creatore, soprattutto quando egli ti suggerisce che ti sarà di aiuto, quando ti spinge al lavoro, quando già vicina la luce del nuovo giorno; quanto più con inni celesti ti conviene rivolgerti a Dio con virtù celeste per la tua salvezza. Ascolta il profeta che dice: "Durante la notte il mio spirito veglia presso di te, o Dio" (Is 26,9). E il salmista: "Sono con le mie mani di notte davanti a lui, e non sono stato ingannato" (Ps 76,3). Del giorno, invero, tre momenti lo stesso salmista ammonisce che bisogna riservare a Dio, dicendo: "Di sera, al mattino e nel mezzogiorno narrerò ed annunzierò, ed egli esaudirà la mia voce" (Ps 54,18). Mentre Daniele supplicava diligentemente Dio, in questi tre momenti [della giornata], ottenne non solo la prescienza del futuro, ma meritò la liberazione del suo popolo a lungo prigioniero. Ripetiamo, dunque, col profeta: "Sorgi, sorgi e non respingermi fino alla fine" (Mc 4,38). Diciamo con gli apostoli: "Maestro, niente t’importa che affondiamo?" (Mc 4,38). E veramente il maestro, non solo è il creatore di tutti gli elementi, ma anche il moderatore e il reggitore di essi. Ed egli quando ci avrà ascoltato, quando si sarà degnato di vigilare, si calmeranno le onde, e gli spaventosi marosi si appianeranno e così i colli, i venti si allontaneranno, cesserà la tempesta e quella che è imminente e la grande burrasca si trasformeranno nella più grande calma.





sabato 12 giugno 2021

Ragioni per sperare e per impegnarsi

 

XI domenica Tempo Ordinario - Anno B –  13 giugno 2021

  Rito Romano

XI Domenica tempo ordinario -

Ez 17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10; Mc 4, 26-34

Rito Ambrosiano

III Domenica dopo Pentecoste

Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12

Premessa.

Quando Gesù parla in parabole, usa sempre parole di tutti i giorni, dirette e immediate. Racconta storie di vita e le fa diventare storie di Dio, e così raggiunge tutti e porta tutti alla scuola delle piante, della senape, del filo d’erba.

Attraverso immagini tratte dal mondo dell’agricoltura, il Signore presenta il mistero della Parola e del Regno di Dio, e indica le ragioni della nostra speranza e del nostro impegno. Lo constatiamo anche nel Vangelo della Messa di oggi, che ci propone due brevi parabole di Gesù: quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape (cfr Mc 4,26–34).

Nella prima parabola l’attenzione è posta sul dinamismo della semina: il seme che viene gettato nella terra, sia che il contadino dorma sia che vegli, germoglia e cresce da solo. L’uomo semina con la fiducia che il suo lavoro non sarà senza frutto. Ciò che sostiene l’agricoltore nelle sue quotidiane fatiche è proprio la fiducia nella forza del seme e nella bontà del terreno. Questa parabola richiama il mistero della creazione e della redenzione, dell’opera feconda di Dio nella storia. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo è suo umile collaboratore, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e ne attende con pazienza i frutti.

Anche nella seconda parabola Cristo usa l’immagine della semina. Qui, però, si tratta di un seme specifico, il granello di senape, considerato il più piccolo di tutti i semi. Pur così piccolo, esso è pieno di vita. Dal suo spezzarsi nasce un germoglio capace di rompere il terreno, di uscire alla luce del sole e di crescere fino a diventare “più grande di tutte le piante dell’orto” (cfr Mc 4,32): la debolezza è la forza del seme, lo spezzarsi è la sua potenza. E così è il Regno di Dio: una realtà umanamente piccola, composta da chi è povero nel cuore, da chi non confida nella propria forza, ma in quella dell’amore di Dio, da chi non è importante agli occhi del mondo; eppure proprio attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è apparentemente insignificante.

L’insegnamento del Redentore è chiaro: il Regno di Dio, anche se esige la nostra collaborazione, è innanzitutto dono del Signore, grazia che precede l’uomo e le sue opere. La nostra piccola forza, apparentemente impotente dinanzi ai problemi del mondo, se immessa in quella di Dio non teme ostacoli, perché certa è la vittoria del Signore. È il miracolo dell’amore di Dio, che fa germogliare e fa crescere ogni seme di bene sparso sulla terra.

La parola di Cristo che insegna chiede l’ascolto del cuore, un ascolto fatto di obbedienza non servile, ma filiale, fiduciosa, consapevole, responsabile. 

L’ascolto della Parola è incontro personale con il Signore della vita,  un incontro che deve tradursi in scelte concrete e diventare cammino e sequela nell’amore. La via regale è l’amore, che ha trasformato in roccia un Pietro pauroso, e i discepoli che non capivano li ha trasformati in testimoni e martiri».

1) L’uomo semina con fede, Dio fa crescere con amore.

Alla luce dell’amore, con le parabole di oggi Gesù mette l’accento non solamente sulla pianta che diventa grande, ma sul seme e quindi sulla speranza nella crescita nella pazienza, proprio perché Dio stesso giudica e apprezza la pazienza quale sorella particolarmente
sensibile dell’amore e per questo motivo fa continuamente sgorgare il grande dal piccolo. Il paragone è quindi destinato a risvegliare in noi uomini la gioia per il bello che è intimamente legata alla speranza e ci conduce nel mistero di Dio e della sua storia salvifica.

Per capire meglio ciò, approfondiamo ancora un po’ il Vangelo di questa domenica (Mc 4, 26-35, che -come accennato nella premessa- ci propone due brevi parabole: quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape. La semina del granello più piccolo produce l’evento più grande: il Regno celeste. Con immagini prese dalla vita dei campi Gesù presenta il Regno di Dio1 e indica le ragioni del nostro impegno pieno di speranza.

Nella prima parabola Gesù mostra il miracolo della crescita, descrivendo la dinamica della semina: il seme è gettato nella terra, poi, sia che il contadino dorma o vegli, questo seme germoglia e cresce da solo.

L’uomo non fa che seminare e aspettare. Siamo dinanzi al mistero della creazione, all’azione di Dio nella storia alla quale guardare con stupore. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo non è che un collaboratore umile, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e attende la raccolta desideroso di parteciparvi.

A questo riguardo San Gregorio Magno commenta: “L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va per gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo” (In Exod., II, 3, 5 s.)

Nella seconda parabola Gesù parla ancora della semina. Però, fa riferimento a un seme specifico, il grano di senape, considerato il più piccolo dei semi (1,6 millimetri secondo gli esperti). Anche se così piccolo, esso possiede una potenza di vita e un dinamismo impensabile. Così è il Regno di Dio, una realtà veramente piccola umanamente parlando e composta da persone in genere semplici, povere, da gente non importante agli occhi della società mondo. Nonostante ciò, attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è di poco conto e apparentemente insignificante. Il granellino di senape diviene alto e solido arbusto, capace di accogliere nei suoi rami gli uccelli. Il Regno di Dio, da un punto di vista umano, è come un piccolissimo seme disprezzabile dunque nella sua apparenza, ma contenente in sé il mistero di una forza divina prodigiosa, che per noi è inimmaginabile.

Sant’Ambrogio commentando questa parabola scriveva: “Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Dunque, se il Regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il Regno dei cieli, e il Regno dei cieli è la fede.”(Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186).

La prima lezione da imparare da questo brano di Vangelo è che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. In effetti, nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio nella persona e nell’opera di Gesù come nelle persone ed opere dei cristiani, grazia alla semina cristiana l’umanità intera crescerà nella piena giustizia, pace e libertà grazie all’amore provvidente di Dio.

2) Speranza e pazienza.

La seconda lezione che ci viene dalle due parabole di oggi è che anche e soprattutto in una società che ha fretta e che chiama “tempo reale” una notizia che arriva in pochi secondi, ci vuole l’attesa operosa e paziente perché il seme, dato gratuitamente, può fruttificare solamente se è accolto e curato.

Siamo messi a confronto con la grazia di Dio e la nostra libertà. Grazia di Dio e libertà dell'uomo contraddistinguono tutta la nostra storia personale. Da una parte siamo chiamati a vivere con stupore la crescita del piccolo seme gettato nel terreno (prima parabola). Dall’altra ci viene insegnato che decisiva è la pazienza nell’attesa e la cura prestata perché la terra lo protegga e lo nutra, e il sole lo porti a maturazione.

Il Vangelo è una scuola che educa all’attesa. Gesù ha vissuto nel tempo e nella finitezza di una vita breve e dagli orizzonti che paiono limitati e ristretti, ma ha atteso nulla di meno del Regno di Dio in questo mondo. Per questo possiamo raccogliere immagini evangeliche dell’attesa con le quali imparare a vivere il “già e non ancora”, l’attesa paradossale della vita cristiana.

Attendere non è facile, soprattutto oggi. Ma questo verbo “attendere” ha due significati: attendere ai lavori. Mi spiego riferendomi al vita ordinaria, di “casa”, dove a qualcuno è chiesto di “attendere” ai servizi più banali e quotidiani: dare da mangiare, vegliare sulla vita di coloro che gli sono affidati, preparare la tavola, tenere acceso il fuoco, vigilare sui pericoli incombenti. Si attende così, prestando cura ai fratelli affidati, non lasciandosi andare alla stanchezza provocata dal quotidiano nella sua banalità e non ricercando gratificazioni, cioè non pensando prima a se stessi, ma ai bisogni degli altri.

Attendere richiede un’ascesi, uno sforzo teso per non lasciarsi andare.

Si attende nella vigilanza di una luce accesa (nella preghiera) e in una vita attiva (carità) di chi sta con i fianchi cinti dal grembiule del servizio. Preghiera e carità sono gli esercizi che ci insegnano ad attendere. Chi prega impara che non subito il Signore parla e entra in dialogo con l’orante. C’è un silenzio da percorrere, ma proprio questo silenzio educa all’attesa e dona risonanza alle parole. Chi ama e serve conosce lo scarto tra il servizio reso e i sui frutti e riconoscimenti, perché occorre servire gratuitamente, da “servi inutili”, onorando il proprio compito senza altra preoccupazione.

Si tratta anzitutto di “fare la propria parte”, di non sottrarsi alla fatica nei giorni in cui sembra un “lavoro inutile”, senza immediati risultati.

L’altro significato di “attendere” è aspettare e ciò implica speranza e pazienza.

La pazienza è un “patire il tempo” (Marìa Zambrano) e il vuoto di un’opera che non è tutta e solo nelle nostre mani, i cui tempi sfuggono alla nostra fretta e al nostro bisogno di controllo e di rassicurazione. Ma proprio per questo, fatta la nostra parte, possiamo riposare in pace, perché c’è un tempo che ci viene incontro “spontaneamente”, indipendentemente da noi. Come non si può “forzare” la crescita del seme se non a rischio di rovinare la pianta, così si può forzare la crescita nostra e dei fratelli e sorelle, quindi dobbiamo imparare ad attendere nei tempi lunghi, a lavorare senza contingentare il tempo, senza dare scadenze forzate alla crescita.

È alla scuola del Vangelo che impariamo la vera pazienza che scandisce il tempo.. E in questa scansione il senso viene dal futuro, il tempo della pienezza rende ragione del tempo dell’attesa. Se la guardiamo dalla nostra parte, la storia comincia dal principio, se la guardiamo dalla parte di Dio, comincia dalla fine. Così, nella “pienezza del tempo”, è venuto il Figlio e gli uomini hanno capito che il tempo era giunto alla propria pienezza proprio per la sua presenza che lo portava a compimento. Egli viene proprio perché lungamente atteso dal lavoro paziente d’infinite generazioni che nella fede hanno seminato, nella speranza di vedere quel giorno. La sua venuta é però una vera sorpresa: l’attesa si scioglie nella gioia di contemplare l’abbondanza del campo del regno di Dio, l’ombra di un albero sotto il quale trovare riposo come uccelli scampati al pericolo.

La speranza consiste nell’abbandonarsi, in maniera filiale e fiduciosa, alle mani di Dio, il quale sa ciò di cui abbiamo bisogno (cfr. Mt 6,8), e “dona a tutti con semplicità e senza condizioni” (Gc 1,5). Come il Redentore, che abbandonò la Sua vita nelle mani del Padre (cfr. Lc 23,46), così il cristiano è ancorato nell’Eterno, essendo la sua speranza come un’àncora spirituale, sicura e salda, gettata nell’aldilà, dove per noi è già entrato Gesù (cfr. Eb 6,19-20).

Però occorre ricordare che la speranza cristiana è speranza di compimento di questa vita, e non di un’altra verso cui fuggire. Comporta l’accettazione della storia come luogo all’interno del quale si manifesta la presenza di Dio. Non genera disprezzo, ma provoca apprezzamento e gratitudine, pur nella consapevolezza del limite. È la forza interiore della fede che fa sì che gli uomini camminino con Dio, cerchino la Sua presenza, si impegnino a lavorare per l’avvento del Regno: “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”2. La speranza cristiana vede e ama ciò che sarà: è l’elemento dinamico della vita morale, che porta avanti in una crescita continua sia la luce della fede sia l’energia dell’amore. Essa - la speranza – è la sorella più piccola che tiene per mano e guida le due maggiori, la fede e la carità verso la meta3. Mentre siamo in cammino, in mezzo a prove e difficoltà personali e collettive, la speranza, generata dalla fede, genera la carità, sostenendone il movimento4.

3) Il granello di senape delle vergini consacrate nel mondo.

La parabola del granello di senape mostra che il metodo di Dio è quello dell’umiltà: il metodo fu realizzato nell’Incarnazione nella grotta di Betlemme, nella semplice casa di Nazareth e in tutta la vita “terrena” di Gesù. Nella Liturgia di oggi questo metodo dell’umiltà ci insegnato mediante la parabola del granellino di senape.

Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare il piccolo (all’apparenza) seme cresca in noi e sia da noi donato agli altri. Un esempio di come si può imitare questo metodo dell’umiltà è quello che ci è offerto dalla vita delle vergini consacrate nel mondo che mostrando che “dando con semplicità la vita si ottiene la Vita” (Papa Francesco)

Consacrandosi all’Amore, queste donne hanno posto la loro speranza non in qualcosa che viene da Dio, ma in Dio stesso. A questo riguardo Sant’Agostino insegna: “Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti sperano da Dio qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio. Dimenticando le altre cose, ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).

Il granello di senape non è solo un paragone della speranza cristiana, ma mette evidenza che il grande nasce dal piccolo non per mezzo di capacità eccezionali ma grazie all’atteggiamento cristiano di persone semplici che vivono dell’amore di Dio e della pazienza, che è il lungo respiro dell’amore.


1 Un’interessante riflessione di Joseph Ratzinger (alle pagg.176-7 di “Gesù di Nazareth”) può aiutarci a capire correttamente la pagina evangelica: "Regno di Dio" significa "signoria di Dio" e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. E' questa volontà che crea giustizia... Ecco perché Salomone chiede a Dio "un cuore docile" per essere in grado di rendere giustizia e distinguere il bene dal male; "un cuore docile" proprio perché sia Dio e non lui a regnare, perché, se non si è in perfetta sintonia con Dio, non si può esercitare la vera giustizia......Così il regno di Dio viene attraverso il "cuore docile". Allora la preghiera più importante che si può fare perché venga il regno di Dio è: "Facci tuoi, Signore! Vivi in noi! Fa' che "Dio sia tutto in tutti" (cfr. 1 Cor.15,26-28).

2 BenedettoXVI, Lett. enc. Spe salvi, n.2.

3 Cfr. Charles Peguy, Il portico della seconda virtù.

4 Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologica, 2-2 q. 17,a 8; 1-2, q. 62, a.4.)

 

Lettura Patristica

San Gregorio Magno,

In Exod., II, 3, 5 s.

I tempi della semina e i tempi del bene


       Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

       L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

       Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

       Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!