Domenica XXIX del Tempo Ordinario – Anno B – 20 ottobre 2024
Rito Romano
Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
Rito Ambrosiano
Is 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a; [Ap. 21,9a.c-27]; Sal 67; 1Cor 3,9-17; Gv 10,22-30
Dedicazione del Duomo di Milano.
1) Un Dio che serve.
Il brano evangelico di questa domenica (Mc 10,35-45) sembra che ripeta alcune parole che Cristo ha già detto in precedenza: “Chi vuole essere grande si faccia servo di tutti” (cfr. Mc 9,35), che però i discepoli continuano a non comprendere, come non capiscono Cristo che annuncia la sua passione. La reazione degli Apostoli alla terza predizione della Passione è peggiore delle precedenti.
Dopo la prima ci fu una discussione tra Gesù e Pietro. Questi pensava ancora secondo gli uomini e non secondo Dio e, quindi, voleva convincere Cristo a non andare a morire.
Dopo la seconda ci fu l’incomprensione di tutti gli apostoli, intenti a litigare su chi fosse il più grande.
Dopo la terza è come se Gesù non avesse detto nulla. Anzi, Giacomo e Giovanni, che Lui prediligeva, invece di fare la sua volontà, vogliono che Lui faccia la loro. In effetti, chiedono a Gesù: “Vogliamo sedere uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (cfr. Mc 10, 37), mentre gli altri si arrabbiano per questa richiesta.
Reazione non è certamente in linea con l’amore umile, predicato dal Maestro. Gesù paziente raccoglie intorno a sé anche gli altri apostoli e rivolgendosi sia ai due, che cercavano potere e onore, che agli altri dieci, che erano irritati da questa richiesta forse perché era stata fatta prima che loro potessero fare altrettanto, spiega che l’Apostolo più grande è quello che serve.
Per far meglio comprendere il suo pensiero ai discepoli, Gesù si serve di due paragoni, uno negativo e uno positivo. Li invita a non esercitare la loro autorità come fanno i principi del mondo (questo è il paragone negativo), poi continua chiedendo loro di comportarsi come Lui, che è «il Figlio dell'uomo (ecco il paragone positivo) il quale non è venuto a farsi servire, ma a servire e dare la propria vita in riscatto per le moltitudini».
Dunque nel Regno di Dio è grande chi serve e il miglior servizio è quello di dare la vita. Già il servire è un po’ morire, è la croce quotidiana. Ma se si accetta questa croce ci uniamo al servizio che Cristo offre a tutta l’umanità, manifestando l’amore gratuito e misericordioso di Dio.
Se il dare la vita è il modo più alto di servire, nella vita quotidiana servire vuol dire almeno essere utili in modo gratuito, senza calcolo, disinteressatamente. Servire significa organizzare la propria intera esistenza in modo da prendersi a carico dell’altro fino al completo dono di sé. Servire con autorità vuol dire mettersi a disposizione della persona amata perché cresca (autorità viene dal latino ‘augere’ che vuol dire far crescere). E’ un servizio d’amore che opera “in riscatto” della moltitudine, come fanno, in modo meraviglioso i missionari.
L'espressione «in riscatto» non va intesa anzitutto come se significasse «per saldare il debito», bensì come «solidale con» o «al posto di»: cioè l'idea prevalente non è quella del debito, che deve assolutamente essere pagato, costi quello che costi, bensì l'idea della solidarietà che intercorre tra il Figlio dell'uomo e le moltitudini (Gesù, in altre parole, è il Fratello maggiore, buono –nulla impedisce di pensare con il Papa emerito Benedetto XVI che ci sia un terzo figlio oltre ai due, di cui parla la parabola del Padre Misericordioso- che si sente coinvolto e prende sulle proprie spalle la situazione del fratello minore, prodigo). Il Figlio di Dio e dell'uomo è venuto per vivere questa solidarietà, divenendo in tal modo la trasparenza visibile, toccabile con mano, dell'amore di Dio e della sua alleanza. E come mi diceva una volta un missionario: “La più grande solidarietà, la più grande carità che noi possiamo fare agli altri è di annunciare loro che Cristo è risorto” e cambia la vita, perché l’amore di Cristo risorto non è “qualcosa di individualistico, unicamente spirituale, riguarda la carne, riguarda il mondo e deve trasformarlo” (Benedetto XVI, 28 giugno 2007). Siamo quindi chiamati a “servire il Vangelo nella solidarietà e nella comunione … Una vocazione che dobbiamo compiere indossando il grembiule del servizio, come ha fatto Gesù nell’Ultima Cena con suoi Apostoli (Papa Francesco, 16 novembre 2017.
Con pazienza, Gesù insegna che per essere grandi con Lui e come Lui occorre esercitare l’autorità come fa Lui: servendo. “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Questa frase è il punto di forza dell'intero insegnamento di Cristo. E’ una frase che va molto al di là del semplice esercizio dell’autorità fatto con pazienza, dolcezza e umiltà. E così la commenta l’autore dell’Imitazione di Cristo: “Se vuoi regnare con Gesù, porta con Lui la croce. Solo i servi della croce trovano la via della beatitudine e della vera luce” (cfr. Cap. 56)
Per partecipare alla sua grandezza, Gesù non ci chiede solo di fare come Lui, ma di essere come Lui: servi. “Ognuno può essere grande, perché ognuno può servire. Non è necessario avere una laurea per servire. Non è necessario concordare soggetto e verbo per servire. E' necessario solamente un cuore pieno di grazia” (Martin Luther King), rigenerato dall’amore di Cristo in Croce.
2) L’autorità è di chi ama e l’esercita con il servizio[1].
L’autorità nel Cristianesimo è concepita e vissuta come esercizio dell’amore, perché per Cristo chi Lo ama, questi è colui che può e deve guidare gli altri suoi amici, facendosi loro servitore.
E’ questo l’insegnamento che viene dal testo di San Marco che stiamo esaminando oggi. Ai discepoli che chiedono a Gesù di condividere la Sua grandezza, Lui risponde insegnando che la grandezza sta nel servizio e che il servizio è un cammino di croce cioè di dono di sé perché l’amico viva. Non è bello soffrire, ma è doveroso, bello e gioioso “servire” anche se ha come prezzo la rinuncia di sè. “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At20,35).Insegnamento, questo, che viene anche da un non cristiano come il poeta indiano Tagore: “Sognavo che la vita fosse gioia. Mi sono svegliato. La vita era servizio. Ho servito e nel servizio ho trovato la gioia”. E la Beata M. Teresa di Calcutta ha completato dicendo: “Dove c’è Dio, lì vi è amore. E dove c’è amore, vi è sempre servizio. Il frutto dell’amore è il servizio Il frutto del servizio è la pace”.
La vera grandezza, che è quella di Dio, è quella di essere servo dell’amore, perché servire è, nel Nuovo Testamento, la traduzione concreta di amare. Amare vuol dire servire l’altro. Come l’egoismo vuol dire servirsi dell’altro.
Nella mentalità dominante l’autorità è concepita e praticata come potere, quasi sinonimo di dominazione e, in questo senso, essa è il contrario del servizio. Ma teniamo presente che anche se Gesù ha goduto di profonda autorità e ha agito con autorità[2]: Eppure Gesù è stato anche colui che il Nuovo Testamento ha presentato soprattutto ricorrendo all’inno del servo sofferente (Is 52,13-53,12), come uno che ha dato la sua vita per gli altri, esprimendo al massimo grado la verità che non c'è miglior amico di colui che dona la sua vita per gli altri. “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio” (Is 42,1) E’ Dio che parla e presenta il “suo” servo; è Lui che lo ha “scelto”, è Lui che lo sostiene.
Ogni elezione nella Scrittura è sempre in vista di una missione per affrontare la quale c’è
bisogno della grazia. Dio dice che il suo servo è “cosa buona” e che ha posto in lui il suo
Spirito. “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.”(Is 49,2) Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. (Ibid.)
In sintesi per noi il servo è un uomo, scelto tra gli uomini; non è migliore degli altri né più capace; è Dio che gli va incontro, che lo purifica e lo rende capace di dirgli di sì; la chiamata ad essere santo si concretizza nella missione agli altri, quale inviato di Dio; questa missione consiste soprattutto nell'annunziare la Parola, nel prestare la voce a Dio, nell’essere suo testimone. Secondo il Vangelo, l’autorità è, quindi, una qualifica che Dio dà per un servizio. Sevolessimo esprimerci con una pagina del Vangelo di San Giovanni, potremmo rifarci alla lavanda dei piedi, la sera dell'ultima cena nel Cenacolo.
L’episodio della lavanda dei piedi ci rimanda al vangelo di Marco, dove Gesù è preoccupato di non assimilarsi ai grandi della terra: non vuole essere servito, ma servire. Donando la sua vita vuol dimostrare che sa portare sino alle estreme conseguenze la verità in cui crede e la missione che il Padre gli ha affidato. Non solo ma ci vuole far capire che la vita cristiana è vita nella gioia, perché servire Dio, il prossimo, e la Chiesa, dà gioia. “Chi dà agli altri lo faccia con semplicità, chi aiuta i poveri lo faccia con gioia!” (Rm 12, 7-8).
3) L’autorevole servizio delle vergini consacrate[3].
Riflettendo su come le vergini consacrate sono grandi e su come esercitino l’autorità dell’amore servizievole, ho pensato che oggi sia importante sottolineare quanto segue. Le vergini consacrate nel mondo dedicano la loro vita e tutte le loro forze di amore a Dio e al suo Regno. Loro testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di Dio e risposta a Lui nel servizio degli altri. Esse ricordano la sorgente teologale dell’amore soprattutto attraverso la verginità che richiama quella verginità del cuore e degli affetti che nasce e si alimenta dell’intima e feconda comunione con il Signore.
Questa donne seguendo in modo particolare l’esempio della Madonna. Maria Vergine ha risposto Si alla proposta di “essere per l’altro”. Non solo ha capito la portata e la grandezza della chiamata di Dio ma nelle sue parole:” Eccomi sono la serva del Signore” ha interpretato in modo esemplare il vero atteggiamento al servizio chiesto da Dio.Un servizio operoso, silenzioso, che sotto la croce si è fatto cooperante della volontà del Padre, e forse mai come in quel momento sono ancora risuonate nel suo cuore quelle parole: “Eccomi sono la serva del mio Signore”.
Chi ama serve tutti e va in cerca, come Cristo, particolarmente degli esclusi, dei diseredati, dei peccatori, e con la vita casta proclamano i che Dio li guarda, li ama, li salva.
La loro importanza non è misurata da ciò che essi producono, in termini di efficienza, ma dallo spirito e dallo stile che li anima e dalla comunione ecclesiale che vivono.
La loro è una vocazione al servizio, che mostra mediante la consacrazione e la vita che ne deriva che si può passare da un “io” possessivo ad un “io oblativo.
Queste donne mostrano come si fa ad amare il prossimo come se stessi. Basta amare Gesù, perché chi ama davvero vuol bene anche a coloro che l’Amato ama.
Questo insegna pure Rito della Consacrazione delle vergini. Grazie a questo Rito la Chiesa celebra la decisione di una donna di donare a Cristo Sposo la propria verginità e, invocando su di lei il dono dello Spirito, la dedica per sempre al servizio cultuale del Signore e a un servizio di amore in favore della comunità ecclesiale e del mondo.
La consacrazione è una risposta alla chiamata di Dio Padre “sorgente purissima da cui scaturisce il dono della integrità verginale”. Per mezzo di Cristo Lui chiama le vergini “per un disegno d’amore […] per unirle più intimamente a sé e metterle al servizio della Chiesa e dell’umanità” (Rito della Consacrazione delle Vergini, n. 29 – Omelia). Per questo la Chiesa invoca su di loro tutte le virtù, grazie e carismi di cui hanno bisogno per vivere la loro vocazione, pregando cosi: “Concedi, o Padre, per il dono del tuo Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella bontà, austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella carità, nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza desiderare la lode.” (Ibid, n 38 – Dalla preghiera di consacrazione).
Lettura Patristica
Sant’Ambrogio da Milano
De fide, 5, 56s., 60-65, 77-84
Quanto è paziente e clemente il Signore; che alta sapienza e benevola carità! Volendo, infatti, far vedere che Giacomo e Giovanni non avevano chiesto una cosetta da niente, ma una cosa tale che non l’avrebbero potuta ottenere, fece ricorso alla prerogativa della benevolenza del Padre; e non temé una derogazione al suo diritto, al diritto di "colui che non credette di fare un torto dichiarandosi uguale a Dio" (Ph 2,6). Amando però i suoi discepoli - "li amò sino alla fine" (Jn 13,1) - non volle dar loro l’impressione che negasse loro quanto chiedevano. Santo e buono il Signore, che preferisce dissimulare il suo diritto, piuttosto che detrarre qualche cosa alla sua benevolenza: "La carità", infatti, "è paziente è benigna, non vuol sopraffare, non si gonfia, non reclama diritti" (1Co 13,4).
Perché finalmente vi rendiate conto che l’espressione "non è cosa mia darlo" vuole suggerire indulgenza più che mancanza di autorità, osservate che, in Marco (Mc 10,40), dove non si parla della madre, non si fa alcuna menzione del Padre, ma è detto soltanto: "Non è cosa mia darlo a voi, ma a coloro per i quali è stato preparato". In Matteo, invece, dove è la madre che prega, vien detto: "Per i quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,23); e l’aggiunta "Padre mio" è fatta perché l’amore materno richiedeva una maggiore indulgenza.
Ammettiamo che fosse stato possibile per degli uomini ottenere ciò che si chiedeva, che cosa significa quel: "Non è cosa mia darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra" (Mt 20,23)? Che vuol dire cosa "mia"? Più sopra disse: «Il mio calice lo berrete», poi dice: «Non è cosa "mia"». Il "mio" unito a calice, ci fa luce per capire che cosa vuol dire qui cosa "mia".
Pregato da una donna, come uomo, di far sedere i suoi figli alla sua destra e alla sua sinistra; dal momento ch’ella s’era rivolta a lui, come a un uomo, anche il Signore, solo come uomo, accennando alla sua passione, risponde: "Potete bere il calice, che io berrò?"
Perciò, poiché parlava secondo la carne della passione del suo corpo, volle dimostrare che ci lasciava un esempio di una passione da soffrire nella carne. "Non è cosa mia" va inteso come l’altra espressione: "La mia dottrina non è mia" (Jn 7,16), non è mia secondo la carne, perché le cose divine non sono oggetto del parlare della carne.
Rivelò tuttavia subito la sua indulgenza verso i suoi amati discepoli, chiedendo: «Ma il mio calice lo berrete?». Così, non potendo dar loro ciò che chiedevano, fece un’altra proposta, per poter dir loro un sì, prima di un no; perché capissero ch’era mancata più a loro l’equità nella richiesta fatta, che non la generosità nella risposta del Signore.
"Il mio calice, sì, lo berrete", cioè affronterete la passione della mia carne, perché potete imitare ciò che deriva in me dalla natura umana; vi ho dato la vittoria della passione, l’eredità della croce; "ma non è cosa mia il darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra". Non dice semplicemente: "Non è cosa mia dare", ma "darvi", cioè dare a voi. E questo dovrebbe significare che non si tratta di mancanza di potere in lui, ma di merito nelle creature.
Si può anche intendere così: "Non è cosa mia", di me che venni a insegnar l’umiltà, di me che venni non per essere servito, ma per servire; di me, che seguo la giustizia, non favoritismi.
Poi appellandosi al Padre aggiunse: "Per i quali è stato preparato", per dire che il Padre non guarda le raccomandazioni, ma i meriti, perché Dio non fa preferenze di persone (Ac 10,34). Perciò l’Apostolo dice: "Coloro che sapeva lui e che predestinò" (Rm 8,29); prima li conobbe e poi li predestinò, vide i meriti e predestinò il premio...
A ragione, dunque, è ripresa la donna che chiese delle cose impossibili, e domandò che fossero ridotte a speciale privilegio quelle cose che il Signore voleva dare non solo a due apostoli, ma a tutti i suoi discepoli, e non a titolo di una particolare raccomandazione, ma per sua volontaria generosità, come sta scritto: "Voi dodici siederete sopra troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele" (Mt 19,28).
[1] Si pensi all’episodio in cui dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade Gesù Cristo chiede a Pietro: “Mi ami tu?”. “Sì”. “Pasci le mie pecore”.
[2] E’ proprio Marco che ci riferisce come Gesù sin dall'inizio insegnava con autorità (1,27).
[3] L’Ordo Virginum è una forma di vita consacrata; nel Codice di Diritto Canonico è inserita col can. 604 nella parte III “Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica” (Liber II: “De Populo Dei”): “A queste diverse forme di vita consacrata si aggiunge l’ordine delle vergini le quali, emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa”.
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